di David Valentini (Spaghetti Writers)
È un singolo rintocco quello che echeggia dal campanile svettante nel cielo notturno, una macchia longilinea e scura che con nettezza cancella un’intera porzione di cielo notturno.
L’uomo nell’auto scruta il braccio di Dio alzato verso la volta stellata. Sta ricordando: un tempo era don Francesco che, a qualsiasi ora del giorno e della notte, col sole o col vento, in salute e in malattia, interrompeva qualsiasi cosa stesse facendo per andare a tirare il cordone pesante una, due, dodici volte e scandire così – con le migliori energie a disposizioni: quelle umane – l’arco del giorno e della notte. Prima di lui era stato don Alessio, un nanetto di un metro e cinquantasette, a dedicarsi a questo compito fino all’ultimo giorno, anche quando ormai, messaggero della più crudele delle prove di Dio, sulla sedia a rotelle riusciva a malapena a muoversi. Negli anni della guerra il campanaccio suonato da don Salvatore era un simbolo di speranza. I ragazzi partivano con le loro uniformi e i loro fucili, o si nascondevano nei boschi intorno per sfuggire alla coscrizione, e a salutarli, oltre alle madri, alle sorelle, alle fidanzate, c’erano i rintocchi del campanile.
L’uomo nell’auto spegne il motore, apre lo sportello e scende. Nella zona d’ombra fra la scuola e il municipio, là dove le luminarie di Natale si sono già guastate, la sua auto è invisibile. Si avvia con passo spedito verso il Bar Sottomonte, il bar che prima era di Fernando e ora appartiene a Giulia, una ragazza che pare un uomo – capelli corti, tatuaggio sul polso e l’atteggiamento spavaldo di chi viene dalla città –, intravede il sindaco e Umberto, lo scemo del paese, che come sempre chiacchierano del nulla, lo circumnaviga fino a trovare, fra la porta di servizio e i secchi dell’umido, le scale che conducono verso il cuore del borgo. I suoi passi sulla pietra grezza dei gradini non producono alcun rumore. Da una finestra aperta arriva la musichetta metallica di qualche decorazione luminosa. A parte questo, il resto è silenzio.
Chiunque altro si perderebbe quassù. La parte alta di origine medievale è un affastellarsi di scalini, edicole, fontanelle, un groviglio di mattoni e finestre come bocche spalancate. Tanti credono sia di origine medievale ma l’uomo sa che non è così. Durante il giorno è facile vedere i volti dei turisti spaesati, soprattutto dei giapponesi abituati alle architetture razionaliste, per essersi ritrovati nello stesso punto in cui erano un’ora prima, o magari nel giardino di una casa dall’altra parte del paese. Un po’ come in quel posto vicino Roma nel quale, lasciata cadere una bottiglia, questa sembra salire verso l’alto. È opera del demonio, dice qualcuno. È magia, dice qualcun altro. Sono storie che si sentono sempre al bar di Giulia, l’unico luogo che pare a conoscenza di certi aneddoti, sul diavolo e su altre cose più o meno importanti del paese.
Ma l’uomo non si perde. Non può perdersi. Ha contribuito lui stesso alla costruzione di queste strade. Passa accanto alle panchine di legno del belvedere, là dove i lavori della nuova piazza stanno per terminare e in breve verranno esposti ai cittadini. Gira a destra della chiesa le cui pareti sono imbrattate dai cartelloni per la nuova campagna elettorale, cose di cui non si interessa, si ferma un istante soltanto a salutare i fiori bianchi e le Stelle di Natale lasciati nell’edicola votiva nella quale il volto della Madonna è raccolto in preghiera.
Raggiunge la porta che stava cercando. È appena accostata, come se aspettasse solo il suo arrivo. Nello spingerla, lo scricchiolio dura un secondo. La casupola è identica a tante altre della parte alta del borgo: uno stanzone ammobiliato a soggiorno con una vecchia cucina ormai inutilizzabile, a destra il bagno e a sinistra l’unica camera da letto. Per ogni dove, santini e immagini di San Bartolomeo, protettore del paese. Solo nel comò accanto al letto si vedono foto di famiglia vecchie di quasi cent’anni: volti severi, scoloriti dal tempo. osservano l’uomo. Ciao Carmela, dice poi sfiorando la bambina alla sinistra del padre. Ciao Giovanna, ciao Giacomo. Requiescat in pace.
Poi l’uomo sposta il letto, producendo un rumore infernale. Apre la piccola botola di legno là sotto e si inoltra lungo la scalinata. Si ritrova in un cunicolo scavato nella roccia, la stessa roccia viva che appartiene alle montagne intorno al borgo. Si volta a sinistra, poi a destra. Non una luce attraversa questo posto. Si ferma dopo un centinaio di metri. Tasta il muro, trova l’apertura e vi si immette. Risale i gradini, spinge appena la botola ed emerge in una cantina affollata di vecchi attrezzi da giardino, una carriola, un televisore dallo schermo sfasciato, una bici arrugginita. Apre la porta con delicatezza. Il suo sguardo vaga nel saloncino, fra il tavolaccio in legno con i resti di una cena, la tv accesa su una qualche lotteria di Natale e, proprio lì davanti, la sedia a dondolo sulla quale dorme un fagotto di stracci.
Sarà il rumore improvviso, il sonno agitato o forse il sesto senso, ma la donna si sveglia e, senza pensarci troppo, si volta verso di lui. Il suo sguardo lo trapassa, e solo per un istante l’ombra dell’incertezza vi si poggia sopra.
Ciao, piccola Rosa, sussurra l’uomo muovendo appena le labbra.
La mascella di lei trema come percorsa da un antico terrore. Massimo, sei tu? Alessandro Massimo? chiede la sua voce impastata dal sonno e corrotta dalla vecchiaia. Come fai a essere tu?
Sono io, risponde l’uomo. Ma ora dormi. Le tue ossa sono fragili, piccola Rosa. Hai bisogno di riposo per affrontare il tuo centotreesimo inverno.
Gli occhi di Rosa – due biglie grigie opache nel buio – si spalancano all’istante. La vecchia solleva il braccio sinistro, nodoso come il ramo del ciliegio. L’uomo ripete Dormi, piccola Rosa, e quel braccio torna giù. Rosa socchiude gli occhi, il suo collo stracolmo di rughe si torce e come se mai alcunché fosse accaduto la donna è tornata nella posizione di prima. L’uomo prende il telecomando, spegne la tv ed esce dalla casa.
Fuori, deve solo attraversare il lastricato ed entrare nella casa di fronte, un’abitazione particolare, tetto in legno, piccolo giardino, una rarità tra il mare di pietra del borgo alto. Si volta un istante, la vaga impressione di essere osservato, nient’altro che un baluginio, poi s’infila velocemente in casa.
Qui, il tempo ha fatto il proprio dovere. C’è polvere e l’odore dell’abbandono regna ovunque. Nessuno è venuto a reclamare questo posto. L’uomo scava a mani nude. Toglie un paio di massi fino a trovare l’accesso alla cantina. Prima di entrarvi, rimette a posto i detriti per celare l’ingresso.
Il corridoio strettissimo stavolta prosegue per diverse centinaia di metri. A tratti diritti si alternano svolte improvvise e biforcazioni fra le quali perdersi è un istante. Diverse porte e altrettante scale popolano questo luogo. Alle pareti sono appese torce ormai inumidite, mentre a terra giacciono resti di abiti consunti. Qualcuno, chissà quanto tempo fa, ha lasciato dei segni sui muri: frecce, punti interrogativi, un teschio.
L’uomo scende due rampe di scale, apre una porta, prosegue nell’oscurità per un tempo indefinito. L’aria si fa sempre più fredda, le pareti sempre più grezze. L’ultima scalinata è in realtà una discesa ghiaiosa costeggiata da un rigagnolo d’acqua.
Dopo qualche tempo – all’uomo pare di sentire due rintocchi vibrare tra le membrane rocciose da cui è circondato – giunge in una spelonca enorme. Piccoli insetti strisciano a terra, nascosti appena dal muschio che cresce sulle panchine abbozzate nella pietra. L’altarino ricavato da due enormi massi riluce nel buio, illuminato dal raggio lunare che penetra da una minuscola ferita sul soffitto della grotticella.
L’uomo sospira. Guarda le panche, osserva l’altare. Se qualcun altro fosse lì con lui ora potrebbe scorgere nei suoi occhi – in quello sguardo che non ha epoca né luogo – qualcosa di simile alla nostalgia.
Si avvicina all’altare. Vi si inginocchia. Lo sfiora con le dita, sentendo sotto la pelle le vecchie incisioni a lui ben note. Anche a occhi chiusi, anche senza quella lama lunare a dare bagliore alle cose, saprebbe riconoscere i nomi racchiusi in quelle scritte. Caius, recita la prima. Mamercus, la seconda. E poi ancora Titus, Gnaeus, Aulus. I suoi compagni, commilitoni della sua giovinezza, la cui polvere giace qua sotto da duemila anni.
Sopra di loro, accanto all’incisione che porta il nome Alexander Maximus, il volto di una perfetta Proserpina assorto in preghiera. Due fiori bianchi, ormai ridotti in polvere, giacciono al suo lato.
A mo’ di corona, la scritta Regina noctis, regina aeternitatis.
Magnus dies cras erit, fratres, dice l’uomo sottovoce.
Illustrazione di Francesca Galli
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David Valentini è nato a Roma nel 1987, scrive per CriticaLetteraria e Altri Animali. Ha pubblicato racconti su Altri Animali, Carie, Crack, Crapula club, Digressioni, Foga, Grado zero, Inkroci, inutile, Pastrengo, Reader for blind, Spazinclusi, Zest letteratura sostenibile e con il collettivo Spaghetti writers di cui attualmente fa parte.