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La poltrona massaggiante

Ho cambiato parecchi appartamenti a Tokyo, per motivi di studio, lavoro, terremoti, vicinato, padroni di casa. Comunque non ne ho mai comprato uno, ero sempre ospite o in affitto. Certo è che, ogni volta che lasciavo definitivamente una casa, imbiancavo tutti i muri. Anche quando gli accordi non lo prevedevano o anche quando avevo fin dall’inizio trovato le pareti ingiallite e sporche. Cascasse il mondo, negli ultimi giorni di trasloco mi armavo di secchio, rullo e teli di nylon, trascinavo tutti i mobili, ammucchiandoli al centro di ogni stanza, li avvolgevo nella plastica, poi iniziavo a dare la prima mano al mattino. Uscivo il pomeriggio fino a tardi per far cambiare aria, quindi la mattina successiva davo l’ultima mano. La prima volta non nego che fu faticoso e seccante, col tempo però mi ci abituai. Nonostante non potessi assolutamente definirmi un pittore o un imbianchino, il mio lavoro lo svolgevo decentemente. Era divenuto necessario rispondere a quel doveroso richiamo alla pulizia, faceva sentire più pulito anche me. Soprattutto, desideravo che l’inquilino che mi avrebbe sostituito trovasse meno tracce possibili della mia permanenza e cominciasse davvero da zero, come avrei voluto sempre far io, entrando in una nuova casa.
Si era sparsa la voce di questa mia attitudine ad imbiancare gli appartamenti, tanto che alcuni parenti e amici chiesero la mia collaborazione per le loro abitazioni. Volevano anche pagarmi, però io non ho mai voluto soldi. Bastava che mi ospitassero per quel paio di giorni necessari al lavoro. Così ci organizzavamo, mangiavamo assieme e dormivo da loro, con la casa tutta in disordine e odorosa di idropittura. Era piacevole essere ospitato da persone che non potevano fare a meno di essere molto gentili, visto il favore che gli facevo. Infine, ad opera compiuta, mi salutavano con tanti sorrisi. Talvolta in seguito mi invitavano a prendere un tè e io accettavo volentieri.
Kazuo era uno dei miei amici più vecchi e cari. Purtroppo non ci vedevamo quasi mai, perché abitava a Osaka e non era facile organizzarsi per il viaggio. Il fatto che la fama di imbianchino amatoriale – di cui non gli avevo mai parlato – avesse attraversato centinaia di chilometri fino a raggiungere lui, mi aveva stupito alquanto. Quando mi chiese se potevo aiutarlo col suo appartamento, non seppi cosa rispondere. Lui insistette e propose anche di accollarsi il costo del viaggio sul treno ad alta velocità. Così non potei rifiutare. In fondo, faceva piacere anche a me, dopo tanto tempo, trascorrere un po’ di giorni con lui.
Venne a prendermi in auto alla stazione e in circa venti minuti, guidando verso nord, arrivammo a casa sua. Ci ero già stato ed ero felice di tornarci; anche se non amavo molto Osaka, quella zona residenziale mi trasmetteva un senso di sicurezza e tranquillità. L’abitazione era una di quelle adagiate ai propri giardini, distese lungo vialetti contorti a misura d’uomo. A dir la verità quando entrai nel suo appartamento, non ricordavo bene la gran quantità di oggetti e mobili particolari che conteneva. C’era molto vetro, non solo quello delle grandi finestre, ma anche sulle porte, sui tavoli, sugli armadietti. E tante stoviglie stravaganti, piatti e bicchieri nelle vetrine, centrotavola, statuine, vasi. Sul tavolo in sala da pranzo, era appoggiata al centro una grossa mano di bronzo, aperta, come se chiedesse l’elemosina. Sembrava la casa di un estroso arredatore europeo, ma in verità era sua moglie Hiroko che amava collezionare suppellettili d’ogni sorta. Era un’eclettica organizzatrice di eventi fieristici. Viaggiava molto e difatti in quei giorni non c’era. Ad ogni modo, il lavoro di preparazione, in cui avrei dovuto riunire e coprire di plastica tutti i mobili e quant’altro, non era da sottovalutare. Ciò nonostante gli ribadii ancora che non avrei accettato né compensi né aiuto da lui. E non se lo fece ripetere.
Kazuo in genere se ne stava buono seduto difronte alla tv perennemente accesa, sintonizzata più che altro su canali sportivi. Alle volte dormiva o riceveva telefonate, leggeva o scriveva, ma era sempre seduto lì. Si alzava quasi solo quando doveva far da mangiare, per mia fortuna, perché era un bravo cuoco. Piuttosto che preparare pranzi o cene abbondanti, preferiva cucinare poco e spesso dei piatti sfiziosi, anche di cucina internazionale: pasta con salsa, cotolette di maiale fritte, insalate di mare con frutta, dolci allo yogurt e tofu, pesche al vino… e il primo giorno passò in fretta. Disse che potevo dormire tranquillamente nella loro stanza matrimoniale, lui sarebbe rimasto in salotto. Rimasi un po’ interdetto perché mi dispiaceva rubargli la camera, ma lui ci teneva parecchio e io ero esausto per il lavoro e il viaggio. Crollai, eppure non dormii benissimo. Doveva esserci qualche finestra aperta o degli spifferi che smuovevano il nylon in tutta casa. Nel mio dormiveglia il fruscio sembrava assordante e ossessivo, probabilmente ero solo io a percepirlo così. Ad una certa ora mi agitai pensando di aver sentito anche un principio di terremoto. Mi svegliai di soprassalto, ma non vidi ballare né tintinnare nulla attorno a me. In un modo o nell’altro arrivai alla mattina alzandomi presto.
Kazuo era già sveglio e stranamente non era sulla poltrona. Doveva essere intento a preparare qualcosa da mangiare, pensai. Era nel giardino, indaffarato a rovistare attorno ad un arbusto.
– Guarda quanti! – mi disse entusiasta quando mi vide. Teneva attaccato alla cintola un sacchetto trasparente stracolmo di mirtilli scurissimi.
– Complimenti, il tuo giardino è stupendo! – esclamai.
– Sentirai com’è buono, il giardino!
Lo raggiunsi verso l’arbusto. L’aria fresca della mattina era piacevole, spezzava il caldo afoso di fine giugno. Per cui mi misi ad aiutarlo a raccogliere i mirtilli. Lui era di certo più bravo di me, sebbene fosse basso e tozzo, perché le sue mani erano rapide e sapevano dove andare a cercare. Io ero incerto e maldestro. Alcuni mirtilli mi cadevano, altri si spappolavano. Dopo pochi minuti mi dovetti fermar perché sentivo un bruciore sulle gambe. Una decina di zanzare avevano approfittato dei miei pantaloncini corti per fare un banchetto con i polpacci.
– Che diavolo, ti stanno massacrando – disse guardandomi le gambe – vieni, entra.
Lo seguii nella sala. Portò i mirtilli in cucina e tornò con un flacone di spray KinKan e un tubetto di crema per bambini. Mi fece accomodare sulla poltrona, nebulizzò la soluzione ammoniacale sui polpacci e, quando la pelle fu asciutta, spalmò delicatamente l’unguento su ognuna delle numerose bolle. Anche se avrei potuto benissimo far da me, Kazuo era così veloce che non ebbi il tempo di sentirmi a disagio. Notai che armeggiava sul bracciolo della poltrona, non avevo visto che era pieno di pulsanti e lucine. Lo schienale si abbassò lentamente, il poggia piedi si rialzò, fintanto che un calore soffuso cresceva e delle strane pressioni ondeggiavano sotto il mio corpo, all’altezza della nuca, delle spalle, su tutta la colonna vertebrale fino ai reni, ai glutei, e anche sulle cosce e i polpacci.
– Resta qui, mentre io preparo la colazione.
– Kazuo, che cos’è?
– Non sei mai stato su una poltrona massaggiante?
– No, pensavo fossero quelle cose di cui tanti parlano, ma che non esistono!
– Beh, mi dirai che cosa ne pensi fra mezzora, sull’esistenza o meno della poltrona massaggiante.
Per essere la fine degli anni ’70, quella in effetti doveva essere una delle prime poltrone massaggianti in casa di un privato. Sinceramente credevo si trovassero solo nei centri terapeutici o estetici. Comunque sia, quella mezzora di paradiso, per me, durò come un solo minuto. Ogni centimetro del mio corpo era stato manipolato con energia, i tessuti muscolari erano rilassati, anche la testa sembrava più sgombra. Talvolta sentivo i congegni della poltrona conficcarsi troppo vigorosamente nei reni o sulle scapole; in quel caso bastava diminuire la potenza con un bottoncino. Anche l’intensità del calore e delle vibrazioni poteva essere regolato. Quando finì il programma di massaggio, la poltrona tornò alla posizione originaria. Mi alzai con un leggero giramento di testa e mi sembrava di essere alto due metri. Andai verso il tavolo di vetro, dove Kazuo aveva già preparato la colazione con frittelle di mirtilli, succo di mirtilli, frullato di mirtilli e pane tostato.
– Ne avevamo colti così tanti?
– No, è che molti li ho da parte – rispose indicandomi il frigorifero in cucina.
– Dovrei venire più spesso a imbiancarti casa.
Mentre rideva, a Kazuo sfuggì di mano il bicchiere pieno di succo, che cadde sul pavimento con uno scoppio fragoroso. Era un bicchiere di vetro blu notte, slanciato e ritorto, con delle venature ondulate, forse lavorate a mano. Mi ricordava certe colonne tortili che avevo visto da piccolo in un viaggio con i miei al Vaticano. Sicuramente un oggetto originale e intrigante, come i tanti della casa. Per pochi secondi lo guardammo così, aperto in due, in tutta la sua lunghezza, come assassinato, col liquido denso che si spandeva lento sulle piastrelle. Era un piccolo incidente che aveva il suo valore estetico: sicuramente un fotografo avrebbe potuto farne un bello scatto. Kazuo si precipitò a prendere uno straccio e della carta assorbente per pulire. Rifiutò categoricamente il mio aiuto, come avevo fatto io con lui per la verniciatura, quindi evitai di insistere. Restava però l’imbarazzo e mi venne naturale di interrompere la colazione mentre lo guardavo. In un attimo era tutto finito nel cestino della spazzatura e il pavimento era tornato pulito.
– Dovrai spiegare a tua moglie la mancanza di un bel bicchiere come quello, Kazuo – dissi tanto per sdrammatizzare.
– Oh sì, ci teneva molto, ma tanto lei non vive più qui da tempo – e sgattaiolò di nuovo in cucina.
Kazuo parlava sempre in maniera pacata e gioviale, a prescindere dall’argomento. Il suo viso rotondo sorrideva anche nelle confidenze inaspettate come quella. Per quanto la notizia mi avesse scosso, la mia timidezza o l’incapacità a comportarmi adeguatamente in circostanze delicate mi impedirono di rispondere. Perciò, non senza pensieri, mentre Kazuo finiva di sparecchiare, mi rifugiai subito nel mio lavoro. La casa non era affatto grande, ma un po’ articolata, negli angoli e negli spazi. Ci volle più tempo che vernice, comunque verso sera avevo concluso la prima mano.
Kazuo, a fine giornata preparò crostini con pomodori, olive e tofu e del rinfrescante ghiaccio tritato alla menta, che avevo già assaggiato nel pomeriggio. Feci una doccia e gli dissi ancora se non voleva utilizzare anche lui il letto per la notte.
– Scherzi? Piuttosto ero io che volevo chiederti se preferivi dormire sulla poltrona.
– Lo farei volentieri, ma è come una droga, non vorrei che si rompesse anche quella oggi.
Ridemmo di gusto, scambiandoci le ultime battute attraverso lo stretto corridoio, che univa il soggiorno alla camera.
– Non preoccuparti – concluse – e poi stanotte voglio guardarmi in TV una partita di baseball in differita dagli Stati Uniti.
Precipitai nel sonno, però la seconda notte fu molto più ardua della prima. Gli spifferi facevano ancora frusciare di continuo i teli di plastica. Rigiravo il mio corpo senza trovare pace. Ad un tratto mi sembrò di sentir grattare sulla struttura di legno del letto, vicino alle mie gambe. Non avendo né voglia né forza di controllare, scelsi una posizione supina e decisi di non cambiarla più per nulla al mondo. Finché sentii una massa leggera balzare silenziosamente sulla mia pancia e rimanere immobile per alcuni secondi. La cosa mi spaventò non poco ed il cuore prese a battere tanto che sentivo la vena del collo pulsare contro il cuscino. Il respiro era corto e la fronte si inumidiva di sudore. Malgrado ciò ero deciso a non contravvenire alla mia ultima decisione, per cui rimasi immobile, con gli occhi serrati. Il corpo misterioso avanzò, lentissimo, lungo il mio stomaco, e poi verso il petto, fin quasi alla gola. Stavo per fare qualcosa di avventato, come buttarmi dal letto, o urlare, oppure chiudere di scatto le braccia e schiacciare quella cosa che stava su di me. Un istante prima della mia reazione, il corpo saltò via, senza il minimo rumore. Ruppi la promessa e mi alzai di scatto per capire cosa fosse. Non trovai nulla. Guardai nell’oscurità, sotto il letto, dietro la porta, vicino la finestra. Niente di niente. Dall’altra parte del corridoio, vidi Kazuo sulla sua poltrona, illuminato dallo schermo televisivo. Erano circa le tre della notte, ma dovevo distrarmi. Andai da lui. Era lì che guardava la partita con indosso un paio di grosse cuffie audio mentre beveva una birra. Quando fui difronte a lui, sorrise al solito modo e si tolse le cuffie.
– Nottataccia? – mi chiese.
– Già. E la partita?
– Partitaccia…
Kazuo effettivamente non sembrava molto interessato alla partita. Mi offrì una lattina di birra e gli raccontai la mia piccola esperienza notturna.
– Sarà stato un gatto – ipotizzò.
– Ne hai?
– Io no, ma fuori ce ne sono. Con le finestre socchiuse per far asciugare le pareti, si sarà intrufolato dal giardino.
– Sì, sarà stato un gatto. Oppure ho mangiato troppo e mi sono sognato tutto.
Il match era stato interrotto da alcuni messaggi pubblicitari. Erano più interessanti quelli della partita, anche a quell’ora tarda. Pensai che chi produce gli spot pubblicitari doveva avere veramente delle grandi capacità per attirare addirittura l’attenzione degli insonni, come noi.
– Kazuo, scusami per oggi, non ti ho neanche chiesto cosa è successo con Hiroko.
– Non preoccuparti, ti capisco. Sai, è andata via.
– È veramente… finita?
– Penso proprio di sì. L’ultima volta è venuta poco meno di un anno fa, per prendere solo le sue cose più urgenti.
– Non vorrei essere indiscreto, mi chiedo però cosa sia successo tra voi.
– Beh, è molto semplice. Più o meno quello che è appena successo a te.
– Cioè?
– Una nottataccia.
– Una nottataccia? – chiesi sorpreso – Vuoi scherzare?
Kazuo aprì un’altra birra ed iniziò a raccontare senza particolari turbamenti. Una notte di circa un anno prima, si era svegliato molto presto, per dei rumori strani e insistenti. Si era tolto le coperte e nel buio aveva scorto Hiroko che ancora dormiva di fianco a lui, nello stesso letto dove mi aveva ospitato in quei giorni. Ancor più insospettito si era alzato, per andare a controllare. Aveva aperto dolcemente la porta della camera che emise un cigolio sottile. I rumori erano più distinti. Avanzava lungo lo stretto corridoio e aveva superato il bagno da dove proveniva il sordo gocciolio del rubinetto. Si orientava bene nel buio, d’altronde era casa sua. Cercava di poggiare e staccare i piedi morbidamente dal pavimento. Non fosse per lo scrocchio delle caviglie e di qualche dito, riusciva a muoversi nel completo silenzio. Verso la fine del corridoio, i rumori erano ancora più nitidi, assieme ad una luce che appariva dall’angolo. Doveva essere il faretto della cucina, mentre i suoni sembravano quelli di oggetti spostati, piatti, vasi, stoviglie. Era ormai indubbio che in casa c’era un intruso, un ladro forse. Non aveva a portata di mano nulla, non un bastone, non un coltello, qualunque cosa con cui difendersi. Anzi era quasi seminudo, in mutande e canottiera, e aveva molta paura. Dalla maniglia della porta del corridoio pendeva uno strofinaccio. Prese quello e lo brandì tenendolo teso fra le due mani, come se dovesse prepararsi a strangolare qualcuno. Sapeva che avrebbe dovuto affrontare un malintenzionato, ne era terrorizzato. Però non poteva fermarsi né voleva nascondersi. Aveva raggiunto il salotto e la cucina era adiacente. La luce e i rumori erano chiari e non si interrompevano. Provava già a figurarsi la scena che da lì a pochi secondi lo avrebbe definitivamente scosso. Eppure la sua immaginazione non riusciva ad andare fino in fondo. Aveva bisogno di realizzare, di vedere, di sorprendere quel ladro e guardarlo in faccia. Se non si fosse sbrigato, sentiva che un infarto avrebbe potuto stroncarlo sul colpo all’entrata della cucina. Fino a quando, con le ginocchia tremolanti e la bocca inacidita, aveva distinto perfettamente l’ombra dello sconosciuto. Non si era accorto di Kazuo, non lo aveva neanche sentito. Era un piccolo vantaggio, perciò Kazuo si era affacciato dentro ancor di più. Vedeva inizialmente il suo gomito, poi una spalla, poiché era chinato. Non appena si era rialzato, aveva visto i suoi capelli. Lo sconosciuto lo aveva sentito, si era girato di scatto verso di lui e aveva lanciato un urlo. Era Hiroko. Aveva rilasciato subito un sospiro nel vederlo. Si era svegliata presto per un viaggio di lavoro fuori provincia. Aveva già fatto colazione e stava rigovernando la cucina prima di uscire. Non si aspettava neanche lei di vedersi apparire il marito alle spalle, come un fantasma.
– Era Hiroko? Scusami Kazuo, non mi avevi detto che dormiva quando ti eri svegliato? – lo interruppi perplesso.
– Sì. Infatti era la prima cosa che a letto, sentendo i rumori, avevo voluto controllare: se era Hiroko oppure no.
– Come poteva essere lei in cucina, allora?
– Ma era lei in cucina.
– Capisco, allora chi dormiva di fianco a te in camera? Non poteva essere sempre lei, giusto?
– Esatto, non poteva stare in due posti contemporaneamente.
– Forse eri suggestionato, magari tu credevi di averla vista dormire. Ti eri svegliato nel mezzo della notte, al buio. Come è successo a me poco fa.
– Certamente è andata come dici. Ma vedi, tu poco fa non hai voluto neanche aprire gli occhi, hai aspettato e il gatto, o quello che era, è fuggito, non era più una minaccia. Io invece mi ero fatto avanti verso la minaccia ed ero sconvolto, fuori di me.
– Certo, per lo spavento. Quindi nel buio non hai guardato bene di fianco a te nel letto e avrai pensato che tua moglie fosse ancora sotto le coperte.
– Lo so, sarà stato un abbaglio. Il punto è che io non potevo saperlo. Lo sconosciuto in cucina, era meglio fosse stato chiunque, un barbone, un bandito, una bestia feroce, un assassino seriale. Tutto ma non Hiroko; non doveva essere lei. La mia mente era pronta al peggio. Io oramai il peggio quasi lo agognavo. Dentro di me avevo bisogno di quell’incontro spiacevole. E invece, in quello stato di alterazione, mi sono trovato difronte a mia moglie, capisci?
Tacqui per un po’. Le parole di Kazuo erano calme e limpide, però era difficile entrarci in sintonia.
– E poi, come è andata a finire? Mica ti avrà lasciato solo per un brusco risveglio.
– Beh, io non ho più avuto coraggio di tornare in camera a dormire. Ero in una confusione disperata che non mi faceva accettare di aver trovato Hiroko in cucina. Se ci fosse stata anche solo una probabilità su un milione, tornando in camera, di rivederla ancora lì nel letto, presumo che ne sarei morto.
– Quindi non sei mai più tornato in camera?
– Per dormire no. Ecco perché il giorno dopo ho comprato questa poltrona. È uno dei pochi oggetti della casa che ho acquistato io. L’ho pagata un patrimonio. Da allora dormo sempre qui.
– E Hiroko?
– Ha resistito qualche settimana a questa mia ossessione. Non tanto di non dormire con lei, quanto di starle lontano. In effetti da quella notte non l’ho più riconosciuta.
– Intendi, che non sapevi più chi era?
– No, io lo sapevo che era Hiroko, solo che nello stesso tempo non la sentivo più come mia compagna. Rifiutavo che lo fosse. Non potevo farci nulla, lei diventò per me l’essere sconosciuto che avrei dovuto incontrare in casa quella notte.
– Quindi se n’è andata?
– Sì. Era avvilita perché non sapeva più cosa fare. Magari pensava io fossi pazzo.
– Capisco. Ed io sono il primo ospite nella tua camera da letto, da quando se ne è andata?
– Direi proprio di sì. Forse anche l’ultimo.
– Perché dici questo, Kazuo?
– Perché, sinceramente, adesso non penso che vorrai più tornare qui da me. Altri amici o parenti, non ne ho. Almeno non da queste parti.
Questa confessione Kazuo la condivise con grande compostezza. Il tono della sua voce, al pari del suo sorriso, rimaneva naturale, equilibrato, e proprio per questo spiazzante. Se l’episodio aveva colpito me, doveva aver segnato lui per il resto della vita. Lo aveva analizzato a lungo, e ancora lo stava facendo, per farsene una ragione o riuscire rassegnarsi a non trovarla. Ora, non ha tanta importanza ricordare di cos’altro parlammo e di come passammo il tempo rimasto durante il mio secondo giorno di lavoro in casa sua. Certo è che mi misi all’opera presto, visto che eravamo entrambi svegli. Già dopo pranzo avevo concluso la seconda mano di pittura e nel pomeriggio avevo liberato i mobili per disporli al loro posto. Bisogna dire che era venuto un bel lavoro, forse il mio migliore da imbianchino. Presi il treno veloce della sera, cosicché prima della mezzanotte ero già di ritorno a casa mia a Tokyo. Dormii per quindici ore di fila di un sonno assoluto, come non mi accadeva da quando ero bambino. Da allora non ho più sentito Kazuo e non ho neanche più imbiancato un muro.

Foto di copertina di Pixabay

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Andrea Carloni è nato a Roma nel 1977 e si è trasferito nella provincia di Vicenza dove risiede da 15 anni e lavora nel settore dei trasporti. Fra le varie letture, quella dei racconti lo ha ha stimolato a comporne di suoi, ispirandosi anche a celebri raccolte (Borges, Faulkner, Hawthorne, Kakfa, Poe…). A febbraio 2019 ha pubblicato la sua antologia d’esordio con alcuni dei suoi racconti premiati nei concorsi letterari sul territorio nazionale. Sta attualmente lavorando al suo primo romanzo. Gestisce il canale video su Youtube “Ritratto di Ulisse”, sull’omonimo romanzo di Joyce.

2 pensieri su “La poltrona massaggiante

  1. Racconto in stile orientale apparentemente delicato con la ritualità dei gesti, la formale gentilezza fra amici, la leggerezza con cui vengono raccontati i drammi della vita. Una casa dove il tempo è sospeso, la realtà e la vita che scorre si trova oltre il giardino.
    Mi ha fatto ricordare sensazioni provate quando nel passato avevo letto Mishima e Soseki.

  2. Il tuo commento mi lusinga Giuseppe. Effettivamente l’ispirazione più diretta del racconto l’ho avuta leggendo il libro “I salici ciechi” di Murakami che, a sua volta, avrà di sicuro conosciuto approfonditamente gli altri autori giapponesi citati. Un saluto.

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