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La giusta morte

Carmine si era infilato dentro la prima porta che aveva trovato aperta. Una casa bassa di una sola stanza. Dentro era illuminata da un gruppo candele ammassate davanti a un altarino allestito su un tavolo sistemato in cima a tre gradini di cemento. Le candele si tenevano insieme su un grezzo candeliere in ferro di forma piramidale e l’aria odorava di cera e di fiori. Sull’altarino svettava la statua della Santa, una scultura dozzinale con il volto sciupato, gli occhi estatici rivolti verso l’alto,  il viso di gesso rosa sbeccato da qualche colpo. Era avvolta in un drappo rosso porpora con impunture dorate. Carmine si avvicinò all’altarino, ipnotizzato dall’ondeggiare flessuoso delle fiammelle, si inginocchiò sul primo gradino dove la cera non faceva in tempo a scivolare e iniziò a pregare con il mento schiacciato sul petto, la schiena curva, le mani giunte contro il naso. Mormorava parole che si mangiava per l’urgenza di spedirle in cielo il più velocemente possibile.

Santuzza mia ti prego fammi uscire vivo da questo bordello e ti prometto che avrai laltarino più bello di tutta la corte dei Santi. Non ti mancheranno fiori, messe, tutto quello che vuoi, tutto quello che vuoi. Alla prima figlia femmina che faccio gli metto il tuo nome. E glielo metto pure al prossimo figlio maschio se la femmina non arriva. Salvami, salvami fammi la grazia se non per me fallo per Carmela, per le creature che mi aspettano a casa, per il panuzzo sulla tavola che gli porto con questo traffico. Fammi la grazia, salvami, salvami”.

Le fiammelle ondeggiavano e si scomponevano con lo spostamento dell’aria, Carmine seguiva i loro movimenti, li prendeva come segni che la Santa gli lanciava da un lato all’altro del braciere di candele che li separava. Per ogni messaggio che credette di decifrare si fece un segno di croce. Si toccò la fronte con il medio e l’indice leggermente piegati, li fece scivolare sul petto e li strofinò sulla camicia per asciugarli dal sudore, poi li portò una volta sulla spalla sinistra, una sulla destra e infine sulle labbra per mandare un bacio alla Santa.

Si sentì sollevato, la Santa non sarebbe rimasta indifferente alla sua richiesta di soccorso, lo avrebbe aiutato in cambio di tutte le promesse che le aveva fatto. Era un’offerta vantaggiosa, dopotutto. No, non si sarebbe tirata indietro. Davanti alle creature, poi. Sorrise, pieno di fiducia. Rilassò le spalle, appoggiò il culo sui polpacci e rimase a contemplare il volto scarnificato della Santa che si mescolava alle corolle rosse e fucsia delle gerbere svilite dalla vicinanza col fuoco.

Da fuori arrivò uno stridere di freni sullo sterrato e rumore di pneumatici che slittavano. Carmine, ancora in ginocchio, fece uno scarto di lato e si addossò con le spalle alla parete più vicina, portò istintivamente la mano alla tasca posteriore dei pantaloni per estrarre la pistola, ma la pistola non c’era.

Cazzo, cazzo, dove cazzo è la pistola?!”. Si trattenne dal bestemmiare.

Non si dice cazzo davanti alla Santa, porco”.

Carmine trasalì, ingoiò un urlo, poggiò i palmi delle mani contro il muro, si guardò intorno ma non vide nessuno. Mise a fuoco sul fondo della stanza, la parte più buia che le candele non riuscivano a raggiungere. Su una piccola sedia impagliata, incassata in un angolo, era seduta Concetta. Nella penombra masticava una galletta di riso che spezzava con le gengive. Concetta scese dalla sedia con un balzo e atterrò senza fare rumore. Strisciando i piedi avvolti in ciabatte di panno écru, dalla penombra a Carmine apparve una donna minuta coi capelli bianchi e lunghi che le ricadevano lungo tutta la schiena, vestita con una tunica di iuta grezza consumata e dalle maniche molto lunghe che le coprivano del tutto le mani. Carmine la squadrò alla ricerca di armi e nel frattempo maledisse se stesso per la sfilza di errori che aveva commesso, dalla pistola che doveva essergli caduta durante la corsa, all’essersi infilato nella prima porta che aveva trovata aperta nel vicolo senza accertarsi chi ci fosse dentro. Suo padre gli avrebbe sputato sui piedi, pace all’anima sua.

Mi stai sentendo, pistolero, – disse Concetta – o ti sei messo nelle orecchie la cera delle candele? Porta rispetto alla Santa, hai capito? Tieni, fatti perdonare. Dalla manica fece spuntare una mano ossuta dall’incarnato pallido, punteggiata da macchie dell’età sbiadite e con unghie lunghe ben curate. Gli porse due gallette di riso e gli fece segno col mento di poggiarle sull’altarino, ai piedi della Santa. Carmine non si muoveva, non parlava e la guardava con ribrezzo e terrore. Concetta se ne accorse, gli si avvicinò con un sorriso arcigno dal quale sporgevano gengive gonfie e irritate. “Hai paura, bestione, o ti faccio schifo e basta? – disse sarcastica – Fate i grossi con i pistoloni, le catene doro, i macchinoni. Poi basta un carretto senza freni e vi cacate addosso”. Carmine si sentì un coglione. Era offeso dalla sfrontatezza della vecchia e imbarazzato dalla sua incapacità di rimetterla a posto. Ma le persone anziane vanno rispettate, diceva suo padre, pace all’anima sua. “Carmine, le vecchie non si toccano, i bambini non si ammazzano, le femmine si rispettano. Mi sono spiegato? Sì, padre, vi siete spiegato”. Più Concetta gli si avvicinava per porgergli le gallette, più la voce di suo padre si faceva perentoria dentro la sua testa. Le vecchie non si toccano, i bambini non si ammazzano, le femmine si rispettano. Un mantra che gli legava le mani, la lingua, gli imbrogliava i pensieri e scambiava di posto la gente, le mogli con le vecchie e i vivi con i morti. Visto che di prendere le gallette non se ne parlava, Concetta gli passò davanti e le portò lei stessa alla Santa. Carmine la guardò attraversare lo stretto spazio tra lui e i gradini, vide la polvere aggrapparsi al bordo della tunica per effetto elettrostatico, spinse i palmi ancora di più contro il muro e la seguì con lo sguardo mentre si arrampicava sui gradini, aggirava il fuoco di sbarramento delle candele e si allungava per raggiungere l’altarino.

Purissima, Vergine Santa, perdonalo – disse – è un minchione che gioca a fare il criminale. Vieni qui, tricheco. Inginocchiati”.

Le vecchie non si toccano, i bambini non si ammazzano, le femmine si rispettano. Mi sono spiegato? Sì, padre, vi siete spiegato”. Carmine era già in ginocchio e in ginocchio raggiunse la vecchia. Lei gli lanciò uno sguardo a metà tra il disgusto e la pietà.

È per la Santa – disse Carmine – per farmi perdonare”. Abbozzò un sorriso nervoso di giustificazione e complicità ma quando la raggiunse Concetta gli assestò un colpo sul collo con la manica della tunica e disse: “È per farti perdonare, oppure perché hai paura della finestra?”.

Sulla sinistra, nella zona che rimaneva nella penombra, da una finestra filtrava una luce che rischiarava appena il bordo dello scuro. Carmine si rivide sul primo gradino dell’altarino a pregare la Santa di salvargli la vita inginocchiato sulla linea di tiro della finestra. Che fosse socchiusa, che potesse essere comunque al sicuro, non lo sfiorava. Era una seconda via di ingresso e lui non l’aveva vista. “La finestra, Dio Cristo” – gli scappò di dire.

Non nominare il nome di Dio invano, caprone” – disse Concetta – e gli mollò un altro colpo di manica sul collo.

Sentite, nonna”. Stizzito, Carmine raddrizzò la schiena, aggrottò la fronte e puntò un indice contro la vecchia. La voce del padre che gli martellava nella testa si fece un poco più lontana e spezzata. Al sentirsi chiamare nonna Concetta inarcò la schiena, spalancò gli occhi e fece un piccolo salto all’indietro non tanto per l’appellativo, quanto per l’insolenza. Gli si avvicinò, lo prese con entrambe le mani per il colletto della camicia e se lo portò davanti alla faccia. L’alito le sapeva di anice. Carmine non se l’aspettava. Sapeva, perché si diceva in giro, al bar, in sala giochi, che le vecchie puzzano di morto, di piscio, di merda, di marcio, ma di anice non l’aveva mai sentito dire.

Che sei venuto a fare qui dentro?” – gli chiese Concetta.

Pregare la Santa, la Purissima, la Vergine immacolata – scattò Carmine come sotto interrogatorio. Solo quella poteva essere la risposta giusta.Mi stanno inseguendo – continuò – devo proteggermi, devo nascondermi. Sono innocente lo giuro, la Santa lo sa, lei lo sa che la nostra vita è fatta così. Piccoli furti, piccole storie. Casini. La nostra vita è così. Ho la sua immaginetta nel portafogli. La volete vedere? È qui nella tasca dei pantaloni”. Alzò una natica per invitare Concetta a sfilare il portafogli dalla tasca e verificare. La vecchia gli puntò negli occhi i suoi occhi piccoli e neri come semi di cocomero. Vibravano come vibravano le fiammelle delle candele ai piedi dell’altarino. Lo squadrò con disprezzo, allentò la presa dal colletto della camicia e lo allontanò. Concetta sapeva che la Santa bene o male tirava fuori dai casini tutti quelli che gli altri Santi si dimenticavano o tralasciavano. Non potevi chiedere alla Madonna di Loreto quello che avresti chiesto alla Santa; non potevi chiedere alla Madonna di Loreto di toglierti il malocchio, di scacciare da te l’invidia, di proteggerti da una sparatoria. Quello era un lavoro sporco e poteva farlo solo la Santa che, per dirla tutta, era più stronza e non andava troppo per il sottile. Non faceva miracoli, quello no: ti parava il culo e basta e non voleva sapere quanto fossi lurido, nuovo o scafato nel mestiere.

Concetta disse a Carmine: “Ripeti con me. Santissima Santa, Vergine Immacolata della mia adorazione, non privarmi della tua protezione.

Santissima Santa, – attaccò Carmine – Vergine Immacolata della mia adorazione, non privarmi della tua protezione”. Andarono avanti a salmodiare e mano a mano che la litania faceva il suo effetto, Carmine si sentiva più leggero. Aveva smesso di guardare la finestra con la coda dell’occhio, di guardare Concetta con fastidio e si concentrava sulla preghiera. Il silenzio della stanza, il mormorare sommesso lo resero meno ansioso, il battito del cuore era tornato regolare, i muscoli del corpo si erano rilassati. Recitava con raccoglimento, pensava a Carmela, alle creature. Li avrebbe portati a mangiare la pizza e poi il gelato da Agata che a detta di Carmela faceva il migliore gelato di vaniglia.

Era salvo, ne era sicuro, ma Concetta non recitava più la preghiera che gli aveva insegnato. Carmine si voltò verso di lei per capire cosa stesse dicendo. Con il capo basso, gli occhi a terra e la voce che era un sospiro gracchiante. Più cupa, Concetta aveva iniziato a dire altro. Carmine, con le mani giunte sul petto come gli avevano insegnato al catechismo, cercò di intercettare il suo sguardo, ma la vecchia aveva i capelli davanti al volto e non lo guardava. Mormorava la sua nuova litania come in trance piegando appena e ripetutamente la schiena in avanti. Carmine si piegò verso Concetta per accordarsi alla preghiera e disse: “La morte è giusta, lei sola ci tratta con uguaglianza. Tutti dobbiamo morire, questa è lunica certezza”. Pausa. “La morte è giusta, lei sola ci tratta con uguaglianza. Tutti dobbiamo morire, questa è lunica certezza”. Pausa. “La morte è giusta, lei sola ci tratta con uguaglianza. Tutti dobbiamo morire, questa è lunica certezza”.

Non vide nulla, sentì solo uno scoppio secco che rimbombò nella stanza e un odore di cordite che gli arrivò mescolato all’odore della cera delle candele. Cadde riverso in avanti sui gradini dell’altarino, ai piedi del candelabro, con le mani ancora giunte. Del sangue schizzò fino al volto pallido della Santa e sui fiori.

Concetta ritirò la mano dentro la manica, si scostò i capelli dal viso e lo guardò con curiosità indifferente negli occhi che gli erano rimasti aperti. Non si prese la pena di chiuderglieli, cercò il portafogli nella tasca posteriore dei pantaloni, sfilò la foto di una donna, quelle di due bambini maschi e le poggiò ai piedi della Santa. Contò i soldi, anche gli spicci, nascose il portafogli in una tasca interna della tunica, tornò nel suo angolo buio in fondo alla stanza, sfilò una galletta di riso dal pacco poggiato ai piedi della sedia e si mise a masticarla lentamente.

Foto di Romina Arena

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Romina Arena, educa alla lettura consapevole e alla scrittura creativa presso scuole, carceri, associazioni, università. Ha scritto “Leggete e moltiplicatevi. Manuale di lettura consapevole” (Rubbettino, 2019). Tiene corsi di formazione sull’animazione di laboratori di lettura e sull’utilizzo esperienziale e pedagogico della lettura e della letteratura come strumenti per la conoscenza di sé e il superamento dei conflitti di relazione. Ha un blog, La biblioteca di Montag.

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