Immagine Copertina La finestra rotta Francesca Riscaio Racconto Contemporaneo Tragico Drammatico

La finestra rotta

Guardo il mondo attraverso una vecchia finestra. Un vetro è rotto all’angolo in basso, una frattura poco più grande di una biglia. La finestra è la sola via di comunicazione, l’unica possibilità di contatto con il mondo all’esterno della torre.
La delusione e la disillusione, pietra a pietra, mi hanno costruito addosso questo torrione, dentro il quale, a stento, ora, sopravvivo. Non so perché sia rimasta una finestra, del resto nemmeno si apre, ma, dalla frattura, d’inverno, lievi sbuffi di neve penetrano gelandomi i nervi; d’estate, invece, l’afa si appiccica alla pelle, stringendomi la carne in una presa incandescente. Una rabbia cieca mi soffoca e mi consuma, mentre guardo fuori.
La finestra non scompare. Non scompare il mondo al di là di essa.
Provo ad allargare la frattura con le mani. Mi taglio e un dolore feroce mi morde le dita con zanne di vetro. Alcuni frammenti scivolano sul pavimento in nuda pietra, inzuppati di sangue. La frattura si restringe immediatamente, tornando alla dimensione originale, appena più grande di una biglia dai margini frastagliati. Non c’è tregua per il mio cuore. Non per i miei pensieri. La finestra persevera nel mostrarmi la vita da cui credevo di potermi separare senza rimpianti. Nonostante mi sia allontanata da quel mondo, a cui sento di non essere mai appartenuta, continuo a subirne gli umori, attraverso quella dannata frattura nel vetro. Sono troppo debole per abbandonare quell’umanità che tanto biasimo o per tornare indietro e adeguarmi a essa.
Si ribella il mio sentire e in nessun modo riesco a metterlo a tacere.
Volevo essere torre. Sono solo una finestra rotta.

La ragazza aprì gli occhi. Un fievole chiarore, forse la luce della luna, penetrava attraverso la vecchia finestra rotta. Tuttavia la giovane non riusciva a distinguere nulla intorno a sé. Non l’interno della torre, non il mondo al di fuori. Si alzò. Voleva andare verso la finestra. Tutto pareva immobile, calmo. Ma, mentre scendeva dal letto, realizzò che non c’era più alcun pavimento e iniziò a precipitare. Nella rovinosa discesa, sollevò lo sguardo: il letto rimaneva sopra di lei, sospeso come su un’isola in mezzo a un nero oceano. La finestra, intanto, aveva iniziato a sgretolarsi in frammenti polverosi e le correva incontro. Stavano precipitando. Lei e la finestra precipitavano verso il fondo.
Per la prima volta, da quando aveva preso coscienza di sé, si chiese se realmente volesse smettere di sentire, staccandosi da quella vita che così tante volte aveva maledetto. Realizzò. E fu doloroso. Mentre precipitava in preda alla paura, sentì le lacrime solcarle le gote, rivoli di lava che le bruciavano il viso. Chiuse gli occhi, inerme. Era tardi ormai. Tutto, a breve, sarebbe finito.
Si sentì afferrare per un mano, una stretta forte e certa che interruppe la rovinosa discesa. Il contraccolpo fu talmente violento che, per un attimo, pensò che il suo braccio si sarebbe strappato, staccandosi dal corpo.
Aprì gli occhi stordita e vide che, dall’oscurità, sporgeva un arto, una mano che stringeva la sua e la teneva saldamente. Strani suoni echeggiavano, parole incomprensibili, disperate, senza rabbia tuttavia.
La ragazza non voleva morire. Adesso, lo sapeva. Stringendo la mano che la reggeva, si aggrappò con tutte le sue forze. Quel pezzo di corpo, sospeso nelle tenebre e nel vuoto, cominciò a ingigantirsi. Una seconda mano apparve sotto di lei. La giovane provò paura. Ma fu solo un attimo. Poi, si lasciò andare, e quelle mani enormi, mani di titano, la raccolsero, formando una conca e chiudendosi infine su di lei. Una sensazione di calma la colse. Il tepore della carne che la circondava la faceva sentire protetta, sicura. E in quel rifugio vivo, umano, pure il buio era diverso. Era fidato. Così si abbandonò al suolo di pelle e chiuse gli occhi fiduciosa.

Barbara vegliava sua figlia Anna da molto ormai. Non si era più svegliata da quel giorno, dal giorno del “tragico incidente”. Non un segno.
Ma, in quel momento, a Barbara la quiete malata della figlia pareva diversa, definitiva, quasi letale. In un moto istintivo, le prese una mano fra le sue e cominciò a pregarla di tornare. Le era talmente vicina che, se un’infermiera fosse passata davanti alla stanza, avrebbe avuto difficoltà a indovinare due corpi in quella forma confusa.
Aveva sempre cercato di essere una madre modello. Pensava che con un padre, un padre vero al fianco, Anna non si sarebbe trovata in una tale situazione. Ma l’uomo dal cui seme Anna era stata generata non c’era stato, né come compagno né come genitore. Quando, al compimento del quarto anno della bambina, le aveva abbandonate definitivamente, per Barbara nulla era cambiato e, almeno all’apparenza, nemmeno per Anna c’erano stati sconvolgimenti, come se non avesse registrato l’abbandono, al punto tale da non chiedere mai di lui.
Barbara provava un enorme senso di colpa e di frustrazione. Anna era sempre stata una bambina sensibile, attenta, molto intelligente. Come madre sola, rivolgersi alla figlia per avere supporto le era sembrato naturale. Si era subito appoggiata a lei, le aveva affidato compiti e l’aveva investita di responsabilità, senza chiedersi quanto questo avesse gravato sulle spalle della figlia.
No. Non poteva, non voleva lasciar andare Anna. Non avrebbe potuto sopravvivere a un simile rimorso. Avevano avuto una lite violenta, proprio prima dell’”incidente”, a conclusione della quale la figlia in lacrime, tremante di rabbia, aveva gridato: «Spero di morire! Di chiudere gli occhi e non riaprirli più!»
Poi, aveva stretto i pugni, abbassato il capo in un gesto di disperato sconforto: «Questa vita, mamma, è una condanna veramente troppo grande per una scelta che non è stata nemmeno mia… Ma chi te l’ha chiesto di farmi nascere?»
A quel punto, Anna era fuggita in camera sua, chiudendosi a chiave.
Barbara, esasperata, era andata a fare la spesa, ripensando alla litigata per tutto il tempo. L’origine della discussione era stata una cosa stupida, da niente. Anna aveva da poco preso la patente e aveva chiesto il permesso di usare la macchina per fare un giro. Lei glielo aveva negato adducendo tutta una serie di motivazioni: il pericolo, l’inesperienza, e ogni altra giustificazione che le era venuta in mente per legittimare il proprio diniego. Anna aveva ascoltato e, alla fine del rosario di scuse snocciolato dalla madre, aveva commentato stizzita: «Questo però non vale quando ti devo fare delle commissioni!»
Da lì, la lite si era accesa.
Avrebbe potuto darle il permesso, aveva pensato tra una scatola di tonno e un pacco di pasta. Una volta di ritorno, avrebbe parlato con Anna, avrebbe ammesso di essere stata troppo severa, avrebbe sistemato tutto. Cullata dalla decisione presa, Barbara, appena terminato con gli acquisti, era rientrata a casa ed era stato allora, mentre percorreva il vialetto d’ingresso, che aveva scorto, a terra, immerso nel sangue, il corpo inerme.
Chiuse gli occhi Barbara e strinse più forte la mano della figlia. Doveva offrirle una seconda possibilità, una possibilità di vita che fosse degna di lei, che non facesse male. E doveva ricostruire se stessa nella costruzione di questa alternativa. Doveva lottare per la seconda possibilità di sua figlia, per la “propria” seconda possibilità. A questo pensava Barbara, mentre con una forza disperata stringeva la mano della figlia e le sussurrava di non arrendersi. E furono queste frasi di incoraggiamento e incitamento che Anna udì, quando si risvegliò, quando aprì gli occhi.

La ragazza sentì che le mani ondeggiavano. In realtà, ciò che stava oscillando era il titano proprietario delle mani. Si mosse lievemente, le mani si dischiusero di nuovo formando una conca. La giovane guardò. Il gigante era sua madre. A grandi passi la stava conducendo fuori dall’oscurità. Il buio non era più totale, rimanevano delle isole di tenebre, che si andavano rimpicciolendo, come le pozzanghere dopo un acquazzone che si asciugano al sole. Barbara aveva il volto stanco, sfinito, fisso in un’espressione di incredulità e speranza. Anna non capiva se si trattasse di un sogno. Allungò le minuscole braccia verso il volto della madre e, mentre le mani si avvicinavano, diventavano via via più grandi, lei si ingrandiva, e, alla fine, toccò le guance di Barbara. Ed era vera. Era vera lei, erano veri i suoi occhi apprensivi, la repentina immobilità, l’improvviso silenzio che si stava trasformando in sollievo. Anna l’abbracciò e a fatica sussurrò: «Ho paura, mamma, ho paura di vivere, ma non voglio più morire.»

Immagine presa da Pixabay

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