La doppia vita dei sogni

La doppia vita dei sogni

Per lungo tempo ho condotto due vite parallele. C’era la vita reale, ragionevolmente movimentata e piena di eventi, e poi c’era una vita immaginata, altrettanto ricca e avventurosa, sotto la regia di una fantasia inesauribile. Dove ho trovato il tempo per vivere l’una e l’altra? Potrei anche chiedermi quale delle due era la vita vera, ma me ne guardo bene.

I sogni a occhi aperti sono cominciati da bambina: è in quell’età che viaggia l’immaginazione. È domenica, sono le prime ore del pomeriggio. Mentre i grandi si attardano intorno alla tavola a chiacchierare, sorseggiando il caffè, io scivolo fuori, oltrepasso la siepe che circonda la casa, attraverso il prato con gli alberi di fico e sono sola, indisturbata, in mezzo alla campagna. A quest’ora si solleva una brezza leggera, che fa vibrare le foglie dei pioppi con i loro riflessi argentei. Mi siedo all’ombra di un albero in compagnia del mio cane, cullata dal ronzare insistente di un calabrone, e me ne sto lì a cercare di raffigurarmi la vita che verrà, a immaginare me stessa nello spazio e nel tempo in cui vedo i grandi muoversi e su cui io mi affaccio con intensa aspettativa. Mi sembra ancora di sentire quell’aria calda sulla pelle e il gran senso di pace e di attesa fiduciosa. Avevo fratelli molto più grandi e quando ho cominciato ad accorgermi della loro vita, e a interessarmene, e a plasmare su di loro le mie fantasie di bambina, erano nel pieno degli amori adolescenziali. Da subito quindi l’amore è stato l’oggetto principale delle mie illusioni, questo misterioso turbine che vedevo avvolgerli e che dominava la loro esistenza, come se nient’altro avesse importanza. E anch’io mi vedevo trasportata dalle stesse emozioni e mi abbandonavo nel sogno senza remore, instancabilmente. Ne ho ricordi ancora vividi. Eccomi bambina, in un pomeriggio estivo, mentre guardo mia sorella che si sta truccando davanti allo specchio. Stasera uscirà con il nuovo fidanzato; con me non ne ha parlato, pensa che io sia troppo piccola, e ha confidato il suo segreto al diario chiuso con il lucchetto. Ma non si è accorta che la serratura è difettosa e si apre anche senza chiave. E quando lei non c’è, non ho alcuna remora a sfogliare quelle pagine. Stasera, quando lei sarà uscita, seguendo la falsariga dei suoi racconti, immaginerò di essere al suo posto e vivrò anch’io quell’avventura.

Solo molto più in là, da grande, mi sono accorta che grande inganno è stata, questa smania di fantasticare. Come può la vita reale essere adeguata all’immaginazione, che non ha limiti né imperfezioni? E quindi tutte le volte che qualcosa di sperato, che avevo già pregustato mille volte come perfetto ed esaltante, per caso si avverava, come poteva non essere deludente, inferiore alle aspettative?  O forse sono io che non sono mai stata all’altezza dei miei sogni, attendendomi emozioni che non ero in grado di provare. Ci vorrebbe qualcuno che da bambini ci insegni a essere prudenti, a tarare le nostre fantasie su noi stessi, sui limiti delle nostre capacità affettive, ma tutto quello che ci circonda ci parla di infiniti amori, di felicità, di cuori sopraffatti dalla passione. Come possiamo sapere che a noi poi tutti quei sentimenti saranno estranei?

Dal vizio di fantasticare in genere si guarisce crescendo. Io no, ho proseguito tranquillamente anche nell’età adulta. E i sentimenti, ovviamente, hanno continuato a essere l’oggetto preferito. Mi ci abbandonavo con voluttà quando un nuovo amore si affacciava nella mia vita, incapace di resistere come fossi vittima di una dipendenza. Ma troppo spesso quell’attesa anticipatrice finiva per bruciare la nuova passione, il reale e l’immaginato coincidendo troppo raramente. Ed ero conscia del rischio, sapevo bene che quello che andavo costruendo potevano essere solo pupazzi di cartapesta e ciò che immaginavo il riflesso di uno specchio deformante, ma era una consapevolezza inutile, andavo avanti taroccando i miei sentimenti e quelli altrui, consapevole di imbandire la tavola per la disillusione, ma incapace di fermarmi.

Poi ho smesso. Ricordo con precisione quando è successo: è stato al ritorno da un viaggio. Una strana vacanza: sono partita con gli amici, è un viaggio organizzato da tempo che non posso disdire, ma ho appena incontrato un uomo che mi ha stregato e non riesco a pensare che a lui e al mio ritorno in città, quando lo rivedrò. Al riparo di occhiali da sole, fingendo di voler ascoltare musica nelle cuffie, passo le giornate a immaginare e immaginare, senza sosta. I miei compagni di viaggio scherzano, si lamentano della mia scarsa partecipazione, ma io sorrido elusiva, non mi preoccupo, penseranno che sono stanca e che ho solo voglia di riposarmi. La bellezza dei luoghi, le voci degli amici, la musica che ascolto, tutto forma un sottofondo indistinto, mentre io vivo il mio sogno che mi intrappola senza scampo. Un’attività estenuante. Alla fine qualcosa si deve essere inceppato, come un motore troppo sforzato che alla fine cede. All’improvviso, tornata dal viaggio, ho scoperto che quel meccanismo non funzionava più, si era rotto, e non ho più sognato. Per anni non ho più fatto castelli in aria, ho smesso di aspettarmi troppo dalla vita e direi che mediamente sono stata più serena. Prendevo quello che la vita mi dava, senza anticipazioni debordanti, senza illusioni fantasmagoriche. Forse sono stata solamente meno delusa? No, direi che è stato un periodo di tranquilla maturità e di accettata coscienza di sé.

Finché qualcosa ha ricominciato a funzionare in quell’ingranaggio che credevo irrimediabilmente compromesso. Da principio in maniera sotterranea, con segnali che non ho subito colto, perché erano in una forma insolita e non ho capito quanta attinenza avessero con i miei sogni. E si è andato via via rafforzando e giorno dopo giorno ha conquistato uno spazio sempre maggiore. Ora è un compagno fedele delle mie giornate, che mi segue mentre cucino, metto i panni nella lavatrice o innaffio le piante. A volte mi prende talmente che per un attimo non so più dove sono o cosa faccio, come fossi fuori dal tempo; sto camminando, assorta nel mio sogno, e mi trovo all’improvviso nelle gallerie della metro, ma sto andando al lavoro o ne sto tornando? E come ci sono arrivata? Nulla del percorso ha lasciato una traccia nella mia memoria, cancellato sotto l’influsso dominante del pensiero. Sorrido. Non mi spaventa più il potere del mio sogno, e mi ci abbandono felice perché so che ora non rischio più nulla e non me ne può venire che del bene.

È così che ho cominciato a scrivere racconti.

Foto originale di Pasquale Comegna

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Fiorella Malchiodi Albedi scrive racconti, alcuni dei quali sono apparsi su riviste online. Nel 2015, un suo memoir è stato selezionato per una serata di 8×8. La sua prima raccolta, con il titolo di Caldo cosmico, è uscita nel 2018 per Eretica edizioni. Il racconto “Caldo cosmico” è stato finalista al premio Zeno 2019. Con “Le donne di P.” ha vinto il TOMO contest 2021 per racconti di fantascienza. In autunno è uscito Il nome scomparso, il suo primo romanzo (edizioni Bookabook).

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