Raccattano gli zaini e se li gettano in spalla. Lanciano sguardi di sfida verso i tornelli appena scavalcati, si scambiano pacche, si stravaccano sulla panchina. Lei – quindici, sedici anni circa – resta in piedi, ciancica a bocca aperta, si piega e fa scoppiare un palloncino di gomma in faccia agli altri tre. Si getta sui ragazzi per scattare un selfie, ognuno assume l’espressione adatta al proprio ruolo: il capobranco, il gregario, il buffone, la ribelle.
Penso a tutti quei video di ragazzine minorenni finiti nelle chat WhatsApp degli amici dei fidanzati, agli upload su Dropbox, alle scritte nei bagni di scuola – Chiara puttana, Francesca succhiacazzi – alla vergogna, alla voglia di chiudersi dentro casa e sparire per sempre. Penso a questo e mi chiedo chi di loro tre potrebbe avere sul telefono le foto in grado di rovinarla. Penso a questo, e alle volte che mi sono masturbato su quei video, prendendo poi le distanze quando in pubblico usciva fuori il discorso. Che cosa ripugnante, dicevo, dovrebbero sbatterli tutti dentro.
Il controllore segue la scena da sotto il cartello di vietato fumare. Si gratta il pacco con una mano e con l’altra porta la sigaretta alla bocca. Espira una nuvola bianca verso l’alto, là dove i piccioni tubano, si beccano e con occhi vigili cercano le prede nascoste fra le selci. Poi si mette a scorrere lo schermo dello smartphone mentre un uomo alto dentro una giacca sgualcita si accoda a uno tarchiato che ha appena strisciato la tessera. Immagino il tizio dal collo taurino voltarsi e chiedergli che cazzo fai. Immagino l’altro dire che il biglietto è scaduto da poco, che problema c’è se passano in due. Immagino gli insulti, la rissa, tutti noi intorno a dire qualcuno faccia qualcosa, le mani già ai telefoni per riprendere il massacro.
Un uomo che è poco meno di un vecchio finge di leggere il giornale. Crede di essere invisibile addossato alla parete, protetto dalle notizie sportive: lo osservo passarsi la lingua sulle labbra mentre fissa la ribelle, che ora porta avanti il rituale della finta lotta col capobranco sotto le urla sguaiate del buffone e gli incitamenti del gregario. Il suo sguardo lascivo segue le forme di quel corpo giovane, così distante probabilmente dalla donna avvizzita e sterile che da qualche parte, forse a casa, porta all’anulare l’altro anello d’oro, simbolo di qualcosa ormai morto. Immagino il vecchio seguire la sua preda fuori dalla stazione, avvicinarla con una scusa; qualche giorno dopo la foto di lei sui giornali, gli appelli, e poi il quartiere in lutto per quella ragazza innocente, e poi tutti a dire che in fondo quell’uomo era una brava persona, mentre i commenti sui social grideranno al linciaggio, che se li lasciassero un’ora nella stanza con lui non sapete come lo riducono eccetera.
Una volta mio padre mi disse che è semplice capire quando c’è un incidente stradale: basta seguire la scia di frecce e rallentamenti e a breve avremo modo di vedere il triangolo a terra, il carro attrezzi, l’ambulanza. Quello che ha taciuto è che, per quanto proviamo a resistere, rallentiamo sempre – più di quanto il rispetto e la cautela richiedano – solo per provare a scorgere qualcosa di macabro, magari un braccio incastrato fra le lamiere, qualche grumo di carne macinata separato dal resto. Facciamoci caso, la prossima volta, quando ci lasceremo alle spalle solo un ammasso di rottami e nessun morto, alla nota di delusione che avremo in fondo allo stomaco.
Sull’altra banchina c’è una ragazza vestita di nero: avrà vent’anni, cuffie enormi che le avvolgono le orecchie, tiene le mani nelle tasche da cui pende una catenella con un Jack Skeletron di plastica. Scuote la testa osservando il controllore spegnere il mozzicone col piede, poi riporta lo sguardo ai binari. Li fissa con un’intensità tale da chiedermi come mai nessun altro se ne sia accorto. Lo so perché anche io mi ritrovo a fissarli così a volte. Conosco la sensazione: tutto il corpo si tende a compiere un passo, uno soltanto, quando l’altoparlante annuncia di allontanarsi dalla linea gialla.
Un’altra volta ho visto una folla radunata attorno a un lenzuolo bianco. Uno si era lanciato dal quinto piano, quando sono arrivato l’avevano già coperto. Metà dei presenti scattava foto, l’altra metà parlottava a bassa voce. Non è possibile, dicevano, l’ho visto ieri mattina, non sembrava depresso. Io stavo lì, pensavo che sarebbe bastato uscire qualche minuto prima e non fermarmi a parlare col vicino per riuscire a cogliere il momento dell’atterraggio – che suono aveva prodotto, quello di un’arancia spremuta o quello di legna secca che scoppietta nel fuoco? – anziché stare lì a fissare il lenzuolo.
Qualche secondo passa, poi la folla sulla banchina prende ad agitarsi, a tremolare, a voltarsi verso destra. Tutto si scuote, un boato emerge dall’oscurità della galleria, subito fagocitato dallo stridere dei freni, nell’aria un vago odore di plastica bruciata. Il vagone sospira prima di fermarsi, e a quel punto il mucchio si accalca, si scalcia e si spintona come bestiame al macello. Siamo stretti, ammaccati, nasi troppo vicini a bocche e aliti rancidi di alcol e sigarette, guardiamo verso l’alto alle prossime fermate, lanciamo verso il basso occhiate protettive ai nostri zaini, alle nostre valigie. Siamo appesi alle sbarre come quarti di bue nel congelatore.
Prima che la metro infili il tunnel faccio in tempo a vedere la ragazza vestita di nero sull’altra banchina. È al telefono ora, parla con qualcuno, e questo è forse tutto ciò che l’ha tenuta in vita oggi.
Copertina originale di Chiara Tescione
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David Valentini è nato a Roma nel 1987, scrive per CriticaLetteraria e Altri Animali. Ha pubblicato racconti su Altri Animali, Carie, Crack, Crapula club, Digressioni, Foga, Grado zero, Inkroci, inutile, Pastrengo, Reader for blind, Spazinclusi, Zest letteratura sostenibile e con il collettivo Spaghetti writers.