Increato, racconto di sara Gambolati

Increato

Il mondo era ancora increato: rosa, col tronco che si sbozzava contro il fianco della madre, fino a che l’albero, che era stato piegato sotto il nostro peso, tornava con le cime verso il cielo e il terreno tremava.

C’era odore di terra asciutta, quella che entra nelle rughe e si annida negli angoli degli occhi, e che, ora lo so, ha il sapore della fatica.

Presto il rimbombo dei passi diventava come il rumore del cielo quando le nuvole si rincorrono a branchi e a quel punto era tutto giallo e nel mondo penetravano le ombre. Grandi, lente.

La luce sapeva via via di sabbia arroventata e la madre mi cullava un passo dopo l’altro, io la sentivo sospirare.

Spesso qualcuno si abbatteva a terra quando il mondo si tingeva di arancione. Io sentivo il pianto e i colpi nella sabbia e le ombre che vedevo erano in cerchio, lunghe e lente. Qualche volta erompeva anche il pianto della madre e io pensavo che fosse la fine del mio mondo.

Invece era solo la notte: ecco il tronco dalla forma conosciuta, ecco il respiro della madre più calmo ora, lento.

Se solo avessimo avuto più acqua, in quei giorni, e non ci fossimo sentiti braccati; ma la notte anche l’uomo riposava e le nostre orecchie non sentivano che il rumore dell’aria fra le foglie e lo strusciare di zampe degli animali notturni.

Solo una volta un rullio insistente è salito dalla terra e tutti si sono rizzati. Due occhi enormi e gialli nel buio; degli ululati. Da come fremeva la madre ho capito che quello era l’uomo. Poi un colpo secco e tutti noi abbiamo gridato – anche io – e pestato – anche io – e gli occhi gialli si sono voltati e hanno spaccato il buio nell’altra direzione.

Fuggiva l’uomo: solo due occhi mentre i nostri erano tanti.

L’avevo vista nei sogni della madre, la crudeltà di un branco di uomini. Un lampo, uno solo, e poi il corpo della madre di mia madre che cadeva e gli uomini che si avventavano su di lei per rubarle pochi pezzi e lasciare il resto agli insetti che uscivano dalle spaccature del suolo e agli uccelli appollaiati sui rami.

Comunque la nostra notte durava poco. Quando arrivava l’aria fresca e grigia e si sentivano le prime foglie che scricchiolavano, la madre era già sveglia; non dormiva più come una volta e ormai sognava sempre la stessa cosa: un albero con una chioma gonfia di mille foglie e un’ombra fresca e umida. Sognava di spingermi fuori e coricarmi sull’erba… oltre non vedeva, si svegliava prima che la luce uscisse dalla terra là in fondo, e pensava che erano gli ultimi giorni e che il grande albero era ancora lontano.

Ormai mangiavo di meno, la madre non aveva fame. Ruminava per ore mentre camminava ma non mandava giù niente. La luce era forte, tagliava le ombre di netto e i corpi grossi sembravano più magri, i movimenti trascinati. La terra tremava poco perché ne avevamo persi molti.

Spesso gli occhi, che portavano tutto il mondo nel mio mondo, erano chiusi; ora la madre sognava anche quando camminava. Mille foglie che stormivano ed erano percorse da tanti piccoli tocchi, prima piano poi via via più forte. Allora la madre apriva la bocca e inghiottiva l’aria, allungava la lingua ma trovava solo la solita arsura.

Sentivo il passo trascinato, il suo corpo che si addossava agli alberi. I tronchi contro di me pungevano, schiacciavano. Stringevano. Mi spingevano.

I lamenti eruppero tutti in un momento; era giorno ma la madre non si era alzata e non aveva seguito i passi degli altri. Gemeva, piegata in avanti, e mi scacciava dal mio mondo anche se non eravamo arrivati al grande albero e non c’era ancora una goccia d’acqua. Cercai di aggrapparmi, inarcai la schiena, pestai come quando eravamo stati attaccati dall’uomo; pensai che il mondo stava finendo.

Ora lo so, si chiama disperazione.

Tutto ad un tratto la madre si aprì e la luce che entrò non era rosa né gialla né arancio. Bianca, soltanto bianca.

Rotolai fuori dal mondo di mia madre, lei stava accucciata con la proboscide fra le zampe. Mi avvicinai, guardai fra le sue zanne il cielo e il punto dove finiva dentro la terra. Là in fondo, dove l’aria tremolava, guardai la polvere del branco e, là in fondo ancora, la foresta che non si vedeva dove tutti avremmo avuto un albero con mille foglie e acqua dentro e fuori, sulla lingua e sulla testa a lavare la fatica, a lavare la paura.

Mi voltai verso la madre. Il suo corpo possente creava una pozza di ombra come un albero dalla chioma piccola e la sabbia dove si era stesa era ancora calda e umida di lei; uno dei suoi orecchi si apriva sul terreno, l’altro era piegato e gli occhi erano bianchi; la lingua le pendeva fuori dalla bocca e il suo respiro era fioco, sempre più lento.

La sfiorai con la proboscide sulla testa, sul collo, sulla schiena, sulla coda, sulle zampe; mi feci coraggio e la toccai sulle zanne forti come tronchi; premetti la testa contro la sua pelle dura. Poi mi incamminai per raggiungere il branco.

Foto di copertina di Sara Gambolati


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