Sai che non mi ricordo: è Cassiopea che sembra una doppia vu, vero?
A-ha.
Allora avevo ragione, quelle cinque le abbiamo appiccicate a forma di Cassiopea. Una però si è staccata, vedi?
Ma di che parli?
Delle stelle adesive sul soffitto, scemo. Solo che sono scariche, non si vedono più, però si vede che una si è staccata. Ma quando è successo?
Non lo so, La’.
Che poi è stato papà a volere a tutti i costi Cassiopea, diceva che gliela ricordavo. Il trono di Cassiopea, il mio trono. Te lo ricordi che non riuscivi a pronunciare la erre? Quant’eri buffo, giuro: il tonno di Cassiopea, dicevi sempre. Quanti anni avremo avuto? Io otto e tu sei?
Possibile. E comunque la erre moscia mi è rimasta.
Adovo la tua evve moscia, ti fa molto fvancese. Il mio amove fvancese.
Ma fottiti.
Ma davvero ero così vanitosa da bambina?
Cazzo, ti hanno tolto lo specchio in camera perché dovevamo sempre aspettarti per cena.
È vero, me l’hanno ridato poco prima dei diciott’anni… pensa te, che m’hai fatto ricordare. Senti una cosa.
Dimmi.
Dici che si vede Cassiopea da Lisbona?
Si vede in tutto l’emisfero boreale, Laura.
Quindi finché resto in Europa posso continuare a specchiarmi in cielo.
Mentre dice quest’ennesima stronzata solo per farmi rosicare, sento le sue mani raggiungere le mie. Il tocco improvviso mi fa venire la pelle d’oca.
Abbiamo dovuto farlo nel buio, come mostri. Abbiamo dovuto farlo a finestre serrate, come ratti in trappola. Ma questa cosa non riesco proprio a dirgliela.
Madonna che pigrizia, Miccolino. Ci sono ancora gli yogurt in frigo?
Abbiamo dovuto farlo in silenzio, e prego dio che la pioggia e la pisciata notturna del signor Ferretti abbiano coperto i rumori. Ecco a cosa s’è ridotto questo nostro sogno: un paio di orgasmi coperti dagli scarichi di un cesso.
Micco?
Per guardarci negli occhi avremmo dovuto aspettare domattina, quando tutti sarebbero stati fuori. Ma ormai sono quasi le tre e per noi non esiste alcun domani.
Miccolino?
Sono qui.
C’è qualcosa che non va?
No, è tutto ok.
Mi devo preoccupare di tutto questo silenzio? A cena parlavi un botto.
La sua pelle umida è liscia sotto le dita. Le accarezzo l’anca e l’ombelico, un dolore antico mi attraversa le tempie quando i bordi irregolari della cicatrice sullo sterno si fanno vivi sotto i polpastrelli. Rabbrividiamo insieme al ricordo dell’incidente, io e Laura – la mia Lalla, che non sarà mai mia se non in queste notti in cui tutto sa di condanna.
Mi soffermo sulla giugulare, sul collo; glielo stringo appena, la sento irrigidirsi. Il mio soffocare è il tuo soffocare, la mia morte è la tua morte: così mi ha detto la prima volta che ho provato a strangolarla, non so più bene se per amore o per odio.
Nel silenzio la sento umettarsi le labbra: con un sospiro strozzato mi chiede di liberarle la gola, con un risolino m’implora di non farlo. La tengo vincolata qualche secondo, poi m’inoltro fra i capelli scomposti, passo la mano intorno alla testa, trovo le sue dita e siamo di nuovo avvolti, intrecciati, aderenti in ogni fibra. Puzza della mia foga, profumo della sua eccitazione.
Micco mio…
Un’ambulanza che taglia la notte colora i nostri corpi di rosso e di blu. Una cagnara di voci, sportelli che si aprono, altre voci concitate. Poi clacson in lontananza, qualcuno che bestemmia.
Michele. Che hai?
Abbassa la voce.
Che diamine hai?
Che me lo chiedi a fare? Lo sai.
E dai… sono solo sei mesi.
Solo sei mesi.
Solo sei mesi, sì. Poi torno. Torno da te, lo capisci?
Codice rosso, urla qualcuno, poi lo sferragliare di una barella. Questa notte è un inferno, dice una voce roca, ma tutti stasera hanno deciso di crepare? Non lo so guarda, risponde un’altra, vuoi una sigaretta?
A volte penso proprio che tu sia stupida, La’.
Perché? Per quella cosa di Cassiopea?
Ecco perché: o non capisci mai un cazzo di niente oppure fai finta.
Ma che sei impazzito?
Davvero pensi che siano questi sei mesi il problema? Sai benissimo che ti aspetterei anche un anno, se fossi sicuro che poi… cazzo.
Rumore di vetri in frantumi da fuori: uno impreca, un altro ride, la prossima la offro io.
Guarda che anche quando torno non ci sarà nessun altro.
E Stefano dove lo metti? E quel coglione di Marco?
Ma chi se ne frega di loro, per me ci sei solo tu. Ci sei sempre stato solo tu e ci sarai sempre.
Sì, vabbè.
E poi scusa, vogliamo parlare di Monica?
Monica non conta niente per me.
Allora siamo pari.
Non mi prendere per il culo. Lo sappiamo tutti e due che ti stuferai di questa situazione, che vorrai vivere una vita normale.
Ma perché, tu non la vorresti una vita normale?
Guarda La’, lascia stare, tanto è un discorso che abbiamo fatto mille volte. Mollami. Me ne torno in camera e domani sarà tutto come prima. Andremo avanti così finché uno dei due non deciderà che è ora di farla finita con questa cazzata.
Non dire così, Micco. Mi fa male sentirti dire così.
Invece io sono felice, lo senti quanto sono felice? Porca puttana, ogni cazzo di volta pare che solo a me ne freghi qualcosa.
La sento alzarsi, nella penombra il suo profilo rosso e blu è in piedi davanti alla finestra. Fuori le voci fanno previsioni. Secondo te quella tipa se la cava? dice una. Con quel polmone perforato? risponde l’altra voce. L’hai più visto Endgame poi?
Ok, allora parliamone.
Lascia stare.
No. Ne parliamo. Ora. Visto che a me non frega niente.
Non volevo dirti che sei stupida, Lalla. Scusa.
Sai il cazzo che me ne frega. Avanti, parliamo di noi.
Non c’è niente da dire su me e te. Non ci sarà mai niente da dire. È questo il problema.
Smettila di mangiarti le unghie dice, poi si porta la mia mano fra le gambe. È niente questo? Lo senti l’effetto che mi fai, Miche’? Cristo santo, lo senti?
Lo sento sì, stronza. Tolgo la mano, me la porto alla bocca, succhio via ogni goccia di lei mentre vedo il suo sorriso aprirsi di blu, di rosso.
Mi accarezza la guancia, si ritrae con uno scatto. Ma che stai piangendo?
No.
Perché piangi?
Perché… non lo so, puttana eva.
Sì che lo sai.
La’, mi sono rotto il cazzo di essere quello che ti scopa di nascosto la notte, mi sono rotto il cazzo di sorridere ai parenti ogni volta che mi chiedono perché non riesco a trovarmi una fidanzata, che a vent’anni dovrei uscire e invece sto a casa e tutte quelle cazzate là. È una tortura, lo capisci o no?
Non sei quello che mi scopa di nascosto la notte. Quando te ne esci con queste stronzate mi fai proprio incazzare.
Fisso il lampadario sul soffitto, fisso le stelle adesive ormai morte. È vero, ne manca una, il trono di Cassiopea s’è rotto.
E allora dimmelo tu cosa sono, La’, perché io non lo so.
Tu sei…
Cosa?
Sei tutto per me. Tutto. Lo capisci o no? E ti sto dando tutto.
Ammazza oh, bello ’sto tutto.
È tutto quello che posso darti. Sei tutto per me: sei il mio amore, il mio migliore amico, mio—
Non ci provare a dirlo!
Pensi che cambierebbe qualcosa non dirlo?
Non lo voglio sentire. Non stanotte, cazzo.
Cristo santo, Miche’, sei un coglione. Un coglione fatto e finito.
Grazie, eh.
E io lo amo, questo coglione fatto e finito.
Davvero mi ami?
Lo sai.
Allora domattina glielo diciamo.
Ma che hai sbroccato davvero, Miche’?
Se non possiamo dirglielo allora non siamo niente.
Li faremmo solo soffrire, succederebbe un casino. Non potrebbero mai accettarlo, lo sai come sono fatti. Papà e mamma sono all’antica.
Nessuno lo accetterebbe. È per questo che non siamo niente.
Uno schiaffo, che si propaga nel silenzio e brucia sulla guancia. Sei uno stronzo, Michele, un vero stronzo. Vuoi davvero farmi partire per Lisbona con questo groppo sullo stomaco? Vuoi davvero farmi vivere questi sei mesi di Erasmus così?
Scusa.
Scusa un cazzo! urla.
Abbassa la voce.
Scusa un cazzo! sussurra. Devi sempre rovinare tutto: non potevamo passare una nottata insieme, no, dovevi per forza tirare fuori un’altra volta ’sta storia. Lo sai come stanno le cose, l’hai sempre saputo. Se per te è così difficile—
Abbassa la voce! urlo coperto dalla sirena dell’ambulanza.
Torniamo a essere—
Non vuoi neanche provarci?
Ma a fare cosa, Miche’? A fare che? Ma non te la immagini la faccia di mamma e papà se gli diciamo…
Sentiti, non riesci nemmeno a finire la frase.
Ci caccerebbero di casa.
Se così fosse potremmo farci una vita insieme. Potrei venire con te a Lisbona. Pensaci, la supplico stringendo quelle sue mani fragili. Saremmo lontani da tutto.
E col lavoro come faresti?
Ne troverò uno lì.
E poi? Quando l’Erasmus finisce?
Restiamo lì.
Ho una laurea da portare avanti, se l’hai dimenticato.
Ti laurei e poi partiamo. Non volevi viaggiare, non volevi vedere l’Australia, il Nepal, il Perù? C’è un mondo intero là fuori.
Abbassa la voce.
Staremo insieme alla luce del sole. Proviamoci, funzionerà.
Ti prego, Micco… abbassa quella cazzo di voce.
Le stelle sono scomparse, l’ambulanza è ripartita. Di nuovo silenzio e oscurità.
A che ora devi stare in aeroporto domattina? le chiedo; e questa parola, domattina, sa di dannazione. Domani, della mia Laura resteranno la stanza vuota, i libri, le foto, ogni singolo oggetto a riempire lo spazio della sua assenza. Subito mi assale la certezza che i giorni passeranno senza poterli più contare e quando andrò a Lisbona mi presenterà qualcuno, un ragazzo con cui potrà condividere foto, sorrisi, progetti. Un futuro, mentre io no, io sarò il passato che sempre abbiamo provato a rinnegare senza mai riuscirci.
Ma tutto questo ragionare non porta a niente. L’unica verità è che lei, che ora è qui, domani non ci sarà.
Intanto lei è qui, ora, accovacciata sulle punte dei piedi per appoggiare la sua fronte alla mia, e come da bambini questo buio non mi terrorizza finché la tengo per mano.
Lei è qui, ora, mi abbraccia in questa posizione scomoda, mi bacia le lacrime, mi tira i capelli, mi dice ti amo, sarò sempre tua, lo capisci scemo che non sei altro, domani se vuoi gli parleremo, domani, ma stanotte non te ne andare, resta con me, Lisbona è lontana e sarò sola senza di te.
Mi costringe verso il muro, mi prende a pugni sul petto e dice che non è giusto, non è giusto e non sa che fare, allora le raccolgo le labbra, i capelli, le mani, raccolgo lei minuscola nel nulla e affondiamo sul parquet fra vestiti, polvere e lenzuola.
Poi sono dentro, sono nel corpo di mia sorella, sto facendo l’amore con mia sorella e so che è sempre e solo lei che ho cercato dentro ogni sguardo, è sempre e solo dalla sua mano che ho accettato ogni carezza, è sempre e solo a lei che ho detto parole d’amore, con lei che ho affrontato il disastro delle nostre vite.
Mentre mi dice che no, non possiamo, perché domani arriverà presto e dobbiamo goderne ora, che mai potremmo affrontare l’ira dei nostri genitori se sapessero – se sapessero, ma che sappiano le dico io, che sappiano, che vada tutto affanculo, ho bisogno di te come mai in vita mia, lo capisci? – mentre le sue parole sussurrano il no della sconfitta e il suo corpo illumina quella bugia, la sento fremere, scuotersi, contorcersi di agonia, infine esplodere di un sorriso isterico e venefico. Il cosmo ci collassa addosso quando la sua schiena si inarca e le nostre labbra si incollano e io mi riverso dentro di lei.
Così restiamo, corpi esausti nella notte.
Copertina originale di Chiara Tescione
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David Valentini è nato a Roma nel 1987, scrive per CriticaLetteraria e Altri Animali. Ha pubblicato racconti su Altri Animali, Carie, Crack, Crapula club, Digressioni, Foga, Grado zero, Inkroci, inutile, Pastrengo, Reader for blind, Spazinclusi, Zest letteratura sostenibile e con il collettivo Spaghetti writers.