È stata tutta colpa mia, lo capisco da solo, senza bisogno che me lo ricordiate di continuo. Fate silenzio cinque minuti e ascoltatemi, devo chiedervi un grande favore. Me lo dovete, ne sono certo, vi conosco uno a uno. Ve ne prego!
Avete presente lo slargo con la fontana e le siepi, appena superato il forno di Michele, venendo dal corso? Dove il marciapiede prosegue dritto e sulla sinistra c’è quell’angoletto con le due panchine? Ma sì, lo conoscete: ci si passa per andare in chiesa. E chi non ci va a pregare almeno una volta a settimana, per ricevere la sacra comunione? Dico a parte me. Preferisco restarmene per i fatti miei la domenica mattina, ma vi vedo tutti in fila come formichine salire la collina per farvi dare la benedizione e confessare i vostri peccati da due soldi. Io le colpe le lavo per conto mio, col vino. Pure se mi biasimate.
Vi dicevo di quello spazio con la fontana, le siepi e le panchine accanto al marciapiede. Voi adesso dubiterete delle mie parole, perché uno nelle mie condizioni ha l’aria poco affidabile: al vostro posto avrei problemi a credermi pure io. Ma è ora di svelarvi un grande segreto: era un giardino magico. Uso il passato perché ora come ora non posso più andarci, magari lo è rimasto, ma non posso metterci la mano sul fuoco. Voi passavate senza fermarvi, e anche quando riposavate sulle panchine ci facevate poco caso. Magari provavate un certo benessere, ma ignoravate il motivo. Eppure accadevano cose meravigliose. Per esempio, i ragionieri sorridevano. Pensateci, avete mai visto un ragioniere allegro? Certo, chi tra voi lo fa di professione potrà dirlo, con assoluta certezza, che ogni tanto allarga le labbra quando è di buon umore. Ma mica può vedersi, al massimo si sarà specchiato qualche volta, ma difficilmente si sorride allo specchio, ci avete mai fatto caso? Oppure le mamme cantavano. Si sedevano sulle panchine per riposare le gambe, quando passeggiavano con i figli nelle carrozzine, e mentre erano lì, in quel posto pieno di magia, senza farci caso si mettevano a cantare, e le canzoni erano sempre straordinariamente gioiose, anche se i loro pargoli avevano pianto tutta la notte prima e le avevano fatte dormire poco.
Era pieno di prodigi quel giardino. Spesso mi stendevo sotto la siepe a riposare, perché se vi accorgevate della mia presenza vi allontanavate e restavo solo; quel posto rimaneva sempre magico ma diventava un po’ triste. Poi il vino metteva sonnolenza, sia se lo si era bevuto tanto che quando, ahimè, non ce n’era e con la schiena piantata sul terreno era più facile evitare alla testa di girare troppo. Quando ero sotto la siepe e voi non mi vedevate, vi ascoltavo. Mi divertiva sentire le conversazioni delle persone rispettabili. O almeno così dicevate di essere, poi vai a sapere. Nel giardino incantato parlavate in maniera diversa dal solito, usciva solo la gentilezza: era un fiorire di “È un piacere rivederla”; “Sono contento per lei”; “Grazie, è molto gentile”. Le parole e i pensieri brutti non riuscivano a prendere forma, si dissolvevano prima di uscire dalla bocca. Ora non posso più, mi manca tanto spiarvi da sotto la siepe per ricordarmi di quanto siete belli, se lo volete. Mi raccomando, andateci presto, speriamo sia rimasta intatta quella meraviglia. A sentirvi felici, stavo meglio persino io, mi passava pure la voglia di bere, figuratevi! Quanto ne avete bisogno! Sempre arrabbiati col mondo e desiderosi di dare la colpa al primo poveraccio che passa per strada. Lo so bene, io.
Il fatto di cui voglio raccontarvi è avvenuto un giorno di qualche mesetto fa. Avevo bevuto troppo, perché Gigetto il sarto, sempre generoso, mi aveva regalato un sacchetto di monete per mettere qualcosa sotto i denti, ma il demone dell’alcol aveva avuto la meglio. Non sono abituato a scolarmi tre damigiane di rosso a stomaco vuoto e mi era presa a urlare. Non ce l’avevo con nessuno in particolare e di certo ero inoffensivo, ma camminavo sul marciapiede gridando la mia insoddisfazione. Quando bevevo troppo usciva fuori tutta la tristezza, forse per questo ero diventato un ubriacone, avendone tanta dentro me ne dovevo liberare. Percorrevo la solita strada, ero quasi da Michele – speravo mi regalasse un tozzo di pane vecchio – quando si avvicinarono due guardie. Lo so, dovrei essere più preciso, ma siate comprensivi: nelle mie condizioni era tutto confuso. Immaginai fossero stati allertati da due vecchie zitelle, mi avevano superato poco prima, in direzione della chiesa: secondo me avevano chiamato le forze dell’ordine, spaventate dalla mia rumorosa malinconia e scandalizzate – lo dico con fierezza – dalle bestemmie che di tanto in tanto tiravo giù. Ce l’avevo con Dio e con i suoi inganni, la volevo mangiare io quella dannata mela dell’Eden! Trasformarla in sidro e farlo scendere giù nel gargarozzo fino a riempirmi di conoscenza! Vaneggiavo dite? Possibile, ero sbronzo ma quelle riflessioni non erano poi troppo distanti dalle mie convinzioni.
Dove ero rimasto? Ah sì, le forze dell’ordine. Mi videro e accelerarono verso di me. All’inizio li ignorai, troppo preso dal mio sfogo appassionato. Me ne accorsi quando – credo – mi chiamarono. Cosa si aspettavano da un ubriacone in quelle condizioni? Urlai ancora più forte per coprire le loro voci e far giungere senza interferenza la mia al cielo. Chissà, forse ci arrivò e per questo accadde quel che accadde. Se fossi credente, la penserei proprio così.
Uno dei due mi afferrò per il collo del cappotto donato dalla parrocchia, intimando qualcosa, non riuscii a capire stordito com’ero. Rimasi stupito: i miei vestiti puzzolenti erano una delle migliori difese, pochi avevano il coraggio di toccarli. Mi aveva sicuramente preso in giro perché l’altro rideva beffardo e mi infastidiva vederli atteggiarsi. E sbagliai, come ho già annunciato.
Avevo promesso di ficcarmelo bene in testa: certe cose non si devono fare. Sorrisi beffardo, aprii la bocca e rigurgitai tutto il vino rimasto nello stomaco sulle loro divise. Avrei dovuto dispiacermene, invece ne ero soddisfatto: mai riuscito così a comando, uno spettacolo! Ovviamente loro si indispettirono, erano talmente sorpresi che ne approfittai, li sorpassai e iniziai ad allontanarmi. Ero cosciente di aver esagerato: quei brutti ceffi me l’avrebbero fatta pagare se fossero riusciti a mettermi le mani addosso. Me le avrebbero date di santa ragione!
Ero tranquillo perché sapevo cosa fare: mi diressi verso il giardino incantato, poco distante. Una volta entrate, alle guardie sarebbero evaporati i cattivi pensieri. Ci saremmo fatti una risata assieme e avrei promesso di comportarmi bene. Lo vedevo, era a due passi da me. Purtroppo avevo le gambe come fossero di gelatina: io credevo di correre ma andavo lentissimo e prima di arrivare al rifugio sentii una mano prendermi per la collottola e tirarmi indietro. Il contraccolpo mi mozzò il respiro e non riuscii a dire nulla. Loro invece parlavano, parlavano eccome! Mi rivolgevano insulti irripetibili, soprattutto con le signore qui presenti. Uno mi sputò in faccia, l’altro sferrò un pugno tra lo stomaco e lo sterno che mi fece piegare in due. Mi spinsero, caddi a terra. Immaginai di avere avuto il fatto mio, mi stava bene e me l’ero cercata, ora mi avrebbero lasciato in pace. Ma quello più robusto iniziò a prendermi a calci. Una, due, tre volte. Il suo collega lo guardava perplesso, forse aveva ancora delle remore. Controllò se ci fosse qualcuno nei paraggi poi decise di dare spago al suo compare. Cominciarono a pestarmi entrambi. Si stava mettendo male ma, sarà stato per l’alcol nel sangue – quel poco che non era ancora uscito dalle ferite – ero restio a dargliela vinta. Utilizzai quella poca forza che mi rimaneva per allargare le labbra in un sorriso. Era impossibile anche chiudere le palpebre, tanto era lo sforzo. Quindi, con una forza sovrumana, di cui mai ero stato capace, risposi con il vento: “Io sono più contento!”. Poi quell’esplosione di energia si dileguò e rimasi immobile a sentire le mie ossa spezzarsi. Per ogni colpo, una parte di me si disperdeva nell’aria. Una ginocchiata: un ricordo se n’era volato via; un colpo con la punta dello stivale: un pensiero, uno di quelli di cui essere orgogliosi, era scivolato sul marciapiede e poi caduto nel tombino. Mi staccarono l’anima a forza di botte. Eppure, tutto sommato non mi dispiaceva andarmene con il naso pieno di odore di vinaccio e dei miei succhi gastrici. Poi più nulla.
O quasi, perché se potete ascoltarmi, qualcosa deve essere rimasto. Mi portarono via e giorni dopo annunciarono, grazie a un medico compiacente, la mia morte per il troppo freddo. Proprio io, uno dei pochi a resistere al rigido inverno del quindici senza neppure un raffreddore! Non avevo parenti che potessero denunciare o portare avanti battaglie nel mio nome, ero uno dei tanti poveracci a fare questa fine senza che nessuno lo venisse a sapere. Ma non crediate cerchi la vostra attenzione per questo motivo, amici e passanti. Non voglio far conoscere la verità sui motivi della mia scomparsa prematura, io cerco giustizia per i miei resti, dopo la punizione beffarda che mi ha voluto infliggere il vostro rancoroso Dio. Un gruppo di credenti mossi a pietà – tra cui ne sono sicuro le vecchie zitelle spione – raccolsero i soldi per potermi dare un funerale con tutti i sacramenti e seppellirmi nel cimitero del cortile della chiesa. Ricordo ancora l’omelia del parroco. Quel bugiardo raccontava di quanto, nonostante le mie debolezze, fossi un fedele devoto. Proprio io, tanto blasfemo nei confronti dell’odiata religione! Vi supplico, fermatevi ad ascoltarmi! Portate via il mio povero corpo da questo posto noioso dove arrivano solo i canti dei preti e crematelo, preferisco così. E se proprio volete far del bene a un povero ubriacone, andate verso il forno di Michele, venendo giù dal corso e fermatevi sullo slargo, quello che si passa per andare in chiesa, dove c’è la fontana e le panchine. Avvicinatevi alla siepe e godetevi un secondo di quell’atmosfera magica. Ecco, lasciatele lì le mie ceneri, nel giardino incantato dove i ragionieri sorridono e le mamme cantano.
Foto di Ileana Moriconi
Questo racconto mi ha ricordato l’atmosfera di alcune poesie de “I Fiori del Male” di Baudelaire.
IL MORTO ALLEGRO
In una terra grassa, piena di lumache, voglio scavarmi una fossa profonda in cui adagiare a piacere le mie vecchie ossa e addormentarmi nell’oblìo come il pescecane nell’ombra.
IL VINO DEGLI STRACCIVENDOLI
A spegnere il rancore e cullare l’indolenza di tanti vecchi che muoiono, maledetti, in silenzio, Dio, preso dal rimorso, creò il sonno; l’Uomo ha aggiunto il Vino, figlio sacro del Sole.
Grazie per il tuo contributo interessante, Maurizio! Pensavo più banalmente a Lee Masters quando ho scritto il racconto, ma in effetti i brani da te citati ci stanno benissimo!