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Il figlio dell’uomo

Intervistato sulla sua bizzarra scelta di ritrovarsi da un giorno all’altro in un completo stato d’indigenza, Ignazio dichiarò: − Prima o poi sarebbe successo lo stesso, tanto valeva accelerare i tempi.
Ignazio, il primo giorno da disoccupato, aveva rinunciato alla casa, alla macchina, ai suoi risparmi, a tutto, e aveva speso tutto per comprare all’asta Il figlio dell’uomo, ritrovandosi, l’istante dopo che il battitore di Sotheby’s aveva sancito l’acquisto, nullatenente, se non per il dipinto.
La sua consapevole scelta di cadere in povertà per l’arte attirò su di lui, neanche trentenne, l’attenzione di palinsesti e salotti culturali. Tutti lo volevano come ospite, interessati a comprendere i perché della sua scelta. Le risposte vaghe e disorganiche di Ignazio, in breve tempo, lo portarono a essere definito come “Il degno rappresentante del figlio dell’uomo dei suoi tempi: smarrito nella precarietà del visibile, del non visibile e dell’apparentemente visibile”.
“Con il suo gesto” scrivevano altri “ha completamente sradicato ogni tratto surrealista dall’opera di Magritte, facendo diventare Il figlio dell’uomo la prima opera d’arte precaria”.
Ignazio non si sentiva né il degno rappresentante della sua epoca né un profanatore dell’opera di Magritte. Voleva solo dividere la quotidianità con un dipinto. Della sua condizione di povertà non se ne preoccupava, convinto che vivere affiancato da un’opera d’arte avrebbe portato i suoi benefici. Se le cose si fossero poi messe proprio male, avrebbe sempre potuto rivendere il dipinto, ma sperava di non dover arrivare a tanto. Voleva solo vagabondare attraverso l’incerto e avere come passepartout un Magritte.
Sull’aumento delle quotazioni del quadro, Ignazio non si sbilanciava, sapeva che se ne sarebbe parlato e la cosa avrebbe incuriosito molti. Proprio su quei molti contava per riuscire ad andare avanti senza dover rinunciare al dipinto, e con questa speranza cercava di rassicurare gli affetti vicini sui vari “Come farai?” e “Dove andrai?” che si sentiva ripetere.
Alla fine, Ignazio ci vide giusto. La sua agenda, e un’agenda non ce l’aveva più, era piena di appuntamenti e di indirizzi dove alloggiare. I galleristi, visto l’interesse generale, erano ben felici di ospitare Ignazio e il dipinto nelle loro gallerie.
Ignazio, tra un impegno e l’altro, si concedeva sempre le sue passeggiate al parco e il quotidiano abbandonarsi a una panchina. Aveva ormai stretto amicizia con certi ospiti del parco e lo divertiva vederli bramare quella mela dipinta e non badare alla mano che l’aveva disegnata.
“L’arte non sfama” pensava. Sentendosi in qualche modo responsabile, correva subito a porre rimedio: si precipitava dal fruttivendolo, comprava chili di mele e le distribuiva a quelle bocche divertite e fameliche allo stesso tempo.
I mal pensanti dicevano che lo faceva perché ripreso dalle telecamere sempre pronte a filmarlo, ma Ignazio, consapevole di camminare già con tutti i guai in arrivo, era abituato a non voltarsi troppo intorno. Il sorriso con cui fingeva di staccare la mela dal dipinto per donare il frutto vero non era per trasfigurare l’opera come un artista improvvisato, ma solo per lo scalzo benessere di un gesto di carità.
Ignazio, a sua insaputa, divenne un artista con diverse performance all’attivo. Le telecamere lo ripresero mentre correva in un bagno chimico, con il dipinto sottobraccio: Il figlio dell’uomo al Sebach. Lo ripresero mentre divorava un piatto di Tekka Maki in un ristorante giapponese, con il dipinto come commensale: Il figlio dell’uomo mangia tekkamaki. Lo ripresero in una carrozza di seconda classe durante un lento viaggio in treno, con il dipinto come compagno: Il figlio dell’uomo prende il regionale delle 9.25.
I molti visitatori delle gallerie erano costretti a una specie di caccia all’opera per poter ammirare Il figlio dell’uomo e il suo proprietario. Ignazio si spostava libero, nessuna clausola lo costringeva a stare in un preciso punto o in una precisa posizione. Il visitatore, per esempio, lo poteva trovare al bagno, al punto informazioni, a contemplare un’installazione. Era scontato, comunque, trovarlo sempre accompagnato dal quadro di Magritte.
I vantaggi erano di certo molto superiori a quelli di un impiego da otto ore sotto lo sguardo vigile di un padrone. Sguardi vigili li riceveva sempre, ma sotto forma di continui flash, zoomate, richieste di selfie, occhiate molto più eloquenti delle parole.
Tutta questa attenzione a Ignazio iniziò a pesare. Riconosceva che svegliarsi, con accanto un Magritte, su un letto posizionato vicino a un’installazione di Hirst era preferibile ad alzarsi al suono della sveglia e recuperare sempre più coscienza di insistere a coltivare il rinunciabile, però, quell’abitare espositivo stava mettendo in discussione il suo proposito originario: vagare, con un Magritte sottobraccio, nel tentare i possibili infiniti del giorno dopo giorno.
Certe volte, alla chiusura, Ignazio ne discuteva con i galleristi, ormai non solo affettuosi padroni di casa ma anche schietti confidenti.

– Non è poi molto diverso dalla routine – notava Ignazio.

I galleristi si mostravano perplessi, come se ridessero con il pensiero e non con le bocche, e puntualizzavano: − Questa routine è quotata da Christie’s, l’altra, dall’INPS.

Non lo divertivano i continui ammiccamenti alla notorietà e al denaro. Ignazio desiderava vivere a circostanze e nelle circostanze, senza impegni, nel più completo conto alla rovescia dell’esistenza, e farlo insieme a un’opera dipinta dalla mano di Magritte, un pomeriggio di primavera del ’64, lo stesso anno in cui era nata, tra l’altro, sua madre.
Iniziò a passare più tempo al parco, a discapito delle gallerie.
L’arrivo di Vasco fu provvidenziale, come certe volte lo è un quadro di de Chirico.

Vasco, dirimpettaio di panchina, aveva già messo gli occhi, di un azzurro gelido, sulla carnevalata di Ignazio di distribuire mele agli inquilini del parco.
Accarezzandosi i folti baffi bianchi ingialliti dalle troppe sigarette, rimase in attesa che Ignazio consegnasse l’ultima mela. Poi, senza fretta, si alzò dalla panchina e, trascinando i suoi passi come se fossero appesantiti dal tramandarsi degli avvenimenti, si diresse verso il ragazzo.

− Io vorrei quella − disse Vasco indicando la mela del dipinto.

− Come? – rispose Ignazio.

Vasco, nel modo di chi rende poetica anche una flessione del ginocchio, gli si sedette accanto.

Con le robuste dita impegnate nello stringere l’ennesima sigaretta, continuava a far riferimento alla mela del dipinto. – Io so sapore di mela di albero − spiegò Vasco, nel suo esprimersi in una lingua emancipata dalla sintassi. – Ma non di quella!

− Vorresti mangiare questa? – chiese Ignazio.

Vasco alzò le spalle a mo’ di risposta. Poi rilasciò delle belle boccate di fumo, stirandosi sullo schienale della panchina, con il sole che gli illuminava piccole baie di cute in una capigliatura bianca non più così folta.

− Dovresti fare rapina − disse Vasco dopo un po’.

− Una rapina?

− Sì, con quello – indicò il dipinto.

Ignazio si estraniò qualche secondo a pensare cosa gli volesse suggerire.

− Ma ti servirà pistola.

− Una pistola?

− Trovare io, non ti preoccupare − disse Vasco, con tono rassicurante. – Vieni a cena da me questa sera.

− Da te?

− Sì, mia signora apre noci con pistola.

− Uno schiaccianoci?

− No, no. Pistola del west. Navy Colt 1851. Una bellezza. Comprata in Usa.

− E funziona? – chiese Ignazio, proteso sia con il busto che con la curiosità.

− Sì, come apri noci, con manico. Funziona.

− Ma se non spara, cosa me ne faccio? – domandò Ignazio, non sapendo perché assecondasse quell’ipotesi.

− L’arte non spara, ruba e basta − tagliò corto Vasco. – Poi con lui sei al sicuro − e accennò con il mento ancora al dipinto.

− Con lui?

− Nel posto giusto, con lui, non ti tocca nessuno − minimizzò Vasco, scattando in piedi. Si piegò di fronte al dipinto, proprio davanti alla mela, e mettendosi in bocca un’altra sigaretta disse: − Anche lui è mio ospite stasera − ci pensò un attimo e precisò: − Ospite di mia signora, casa non mia, sua.

Ignazio gli fece notare che era già ora di cena.

Vasco si mise di nuovo a sedere. Si tolse le scarpe e si massaggiò la pianta del piede.

− Non è bella rapina senza bella pistola − spiegò Vasco. – Non lo dico io ma film western − espose i fatti con un gesto della mano. – Casa di signorona lontana, meglio andare.

Ignazio prese il Magritte sottobraccio e, senza sapere il perché, lo seguì.

Camminando verso casa della signora, Vasco si mostrò ben predisposto nei confronti della curiosità rilasciata piano piano da Ignazio.
Era scappato dalla Bosnia, anni prima, diceva, e farneticava qualcosa a proposito di una mattanza di tacchini. Per un periodo, il parco era stato il suo domicilio e la strada i suoi spazi domestici, dichiarava come se lo consigliasse. Una signora abbiente e generosa, negli ultimi tempi, l’aveva ospitato in casa e se ne prendeva cura, rivelava con noncuranza, dando per scontata la generosità altrui.

− Io, per signorona, sono secondi diciotto anni − scherzò Vasco. – Signorona molto strana, come sono i ricchi, ma molto generosa − si lasciò scappar detto, ammiccando alla natura prevedibile delle dinamiche umane.

Ignazio contraccambiava con risolini d’intesa, anche se non capiva fino in fondo a cosa si riferisse né a cosa volesse alludere, ma capiva sempre di più che questo bosniaco, dal modo di fare così scanzonato, in realtà, aveva imparato che certi pensieri vanno preservati più del denaro.

La casa della signora era un appartamento in un palazzo storico del centro. Le stanze erano arredate in stile nobiliare rimasto invariato da cinquant’anni. Al centro del soggiorno, una grossa tavola imbandita a festa, piena di vassoi con selvaggina, pane, ciotole di carciofi, vino nei bicchieri. A capotavola, la signorona, come la chiamava Vasco, con un’emergenza di boccoli sulla testa, con le guance rotonde ma ceree, con degli occhi, sottolineati da occhiaie da gufo, uno sul piatto e l’altro sugli ospiti, in piedi, di fronte a lei, e, tra i denti, già pezzetti di coniglio triturati.

− Mi hanno sempre fatto gola le mele disegnate da Magritte − disse la donna sputacchiando parti di carne.

Vasco si precipitò a baciarle la mano per premiare la loro sintonia di pensiero. La signorona gli porse la mano unta per concludere l’apprezzato salamelecco, subito seguito da un invito di una briosa serietà.

– Grazie, caro, ora, per favore, vai a metterti l’abito di oggi − e gli allungò una carezza. Vasco sparì in un’altra stanza. Ignazio, intanto, con il Magritte in braccio, se ne stava in piedi davanti alla tavola.

La signorona gli fece cenno di sedersi e di mangiare qualcosa.

− Quando è fuori può vestire come gli pare, in casa mi piace che indossi l’abito del giorno − iniziò a confidarsi la donna. – Gliene compro uno nuovo ogni giorno − e provò a fare emergere un sorriso dalle labbra strette.

Ignazio sistemò il dipinto su una sedia davanti a una porzione abbondante di piccione e carciofi.

La signorona osservò la premura di Ignazio nel far accomodare l’opera d’arte.

– Vasco è la mia morte felice − disse lasciando intravedere una fragilità inaspettata. – È differente dagli altri.

Vasco rispuntò in sala vestito da tennista. − Gli serve Colt − esclamò come se volesse sbrigare subito le faccende di poco conto. – Per rapina – aggiunse.

La signorona scrutò Ignazio come se tutta la confidenza di prima l’avesse espressa solo nella sua testa. – È là, dov’è sempre − disse.

La pistola era in un cesto di noci su un ripiano del mobile bar. Vasco la prese.

− Ma se devi fare una rapina − suggerì la signorona – la devi fare in un museo. E con quello! − aggiunse accennando al dipinto. – Lì, nessuno ti farà niente.

Ignazio avrebbe voluto dire qualcosa per riprendere in mano la situazione, ma non lo fece. Si diede tempo. E il tempo gli diede, dalle mani di Vasco, una Colt Navy del 1851, raffinata ingegneria di morte, vite prima, ora semplice cimelio.
Ignazio guardava la pistola tra le sue mani, senza sapere cosa dire. Vasco si sistemò la fascia di spugna sulla fronte, si inginocchiò per sistemarsi i calzettoni di cotone, e rialzandosi appoggiò una mano sulla spalla di Ignazio: − Arte non spara, ma non si spara neanche a arte.
Ignazio lo guardò: il sorriso, nascosto da quegli irsuti baffi ingialliti, era di chi si trascinava dietro molte cose ma ne vedeva sempre di nuove davanti.
Ignazio, senza neanche aver avuto voglia di buttar giù un boccone, si alzò, si sistemò la Colt nella cintura, ricevendo l’approvazione dallo sguardo di Vasco, prese il dipinto e aspettò un cenno o una parola di congedo.
Vasco si mise a tavola. Iniziò a divorare una coscia di coniglio, intervallando bocconi a sorsate di vino rosso. La signorona lo invitò a non sporcarsi il completo. Vasco, in risposta, iniziò a parlarle della stazione ferroviaria di Astapovo.
Ignazio rimase impalato davanti ai due, impegnati a mangiare e a disquisire. Si guardava attorno. Uno specchio con una cornice barocca gli restituì l’immagine di lui, in piedi, con il dipinto davanti al busto. Scambiando il riflesso per l’ennesimo consiglio, e sentendo quei consigli celare una libertà dal sapore sconosciuto, si precipitò fuori dall’appartamento.

Due lacci elastici, un paio di bretelle, una cintura di qualche taglia più grande, e Il Figlio dell’uomo era un giubbotto antiproiettile.
Il 116E, la mattina dopo, scaricò Ignazio proprio alla fermata davanti al Museo Nazionale di Arte Moderna.
Appesantito dall’imbracatura che si portava dietro, attraversò la strada. Con il dipinto a coprirgli il busto e con una pistola che aveva sparato il suo ultimo colpo nel 1893, Ignazio entrò nel museo. Chi usciva rientrò subito.

Quando voleva tenersi aggiornato, Vasco si sceglieva un Euronics, si piazzava di fronte a un quarantatré pollici, eludeva le domande dei vari venditori, rispondendo in bosniaco, e si gustava un telegiornale in ultra HD.
La signorona non voleva elettrodomestici in casa: non voleva niente che potesse sostituire l’uomo.
In diversi telegiornali, in diversi schermi, non parlavano d’altro che della scomparsa di Ignazio dopo la sua ultima performance, Questa non è una rapina, nome attribuitole dai critici.
Continuavano a trasmettere, in secondo piano, immagini di Ignazio, con il dipinto indossato come corazza e con una busta che seminava banconote, in fuga, tra gli applausi della gente all’uscita del museo. In sovrimpressione, titoli proclamavano il fatto storico senza precedenti: nessuno si era spinto così oltre, neppure Cattelan.
Il direttore del museo, ai microfoni, dichiarava, senza esiti, di non volere assolutamente esporre denuncia; lui e i fortunati trovatisi lì in quel momento avevano assistito alla più grande performance di sempre e un’esibizione del genere non aveva prezzo. Teneva a precisare di essere stato il primo a capire la portata dell’evento e che si era subito preoccupato di preservare l’incolumità dell’artista ordinando alla sicurezza di non fare nulla se non ammirare. Quella non era una rapina, ma l’inizio di un nuovo manifesto artistico, precisava. Il maresciallo dei carabinieri, invece, non voleva lasciare dichiarazioni.
Il viso di Vasco non tralasciava nessuna emozione. Ascoltò un altro po’ le congetture di chi veniva indicato come esperto, poi si spostò qualche schermo più in là per perdersi nell’eleganza del rovescio di Federer.

Dopo un mezzo cartone di vino, una decina di sigarette al parco, una chiacchierata con un lavapiatti sulla migliore entrecôte mangiata e un Campari al bar, Vasco rimuginò sul ragazzo con il Magritte. Lo rasserenava pensare a Ignazio come a una delle tante eventualità di vita, sparse come macchie indistinte sui panorami che si possono scorgere dai finestrini dei treni in velocità, dalle cime delle navi al largo, dagli oblò degli aerei in quota, quando ce ne andiamo lontani, con il cuore lieve, e riusciamo a ipotizzare esistenze felici. Ignazio era scomparso, così come dovrebbe fare chiunque possieda ancora una vita. Pensava questo, Vasco.
Si concesse un altro bicchierino, poi rientrò a casa.
Sulla soglia della porta, trovò un pacco incartato alla meglio. Lo scartò.

A cena, la tavola era imbandita a festa, ma una di quelle speciali. A capotavola, la signorona sfoggiava il suo abito da grandi occasioni. Un vestito in raso rosso, con delle manichette a sbuffo completamente slargate dal grasso in eccesso delle braccia. Un corpetto, con un’applicazione di macramè avorio e perline ricamate sul davanti, si srotolava tre volte sulla pancia. Sulle maniche dei pizzetti bianco avorio. Un vestito ereditato, taglie fa, dalla madre di suo padre. Ispirava una certa raffinatezza anche addosso a lei. Con le labbra tinte di un rossetto bordeaux e i capelli ricci sciolti all’altezza delle spalle, la signorona sistemava imperfezioni invisibili nella disposizione dell’argenteria, in attesa di consumare la portata principale.

Vasco fece il suo ingresso dalla camera. Vestito da guardia svizzera in uniforme di gala, completa di vistosa gorgiera color panna, guanti bianchi, morione di metallo chiaro con un pennacchio di struzzo rosso, come imponeva il vestito del giorno, roteava nell’aria un vassoio, stuzzicando l’appetito della signorona, tutta un fermento.
Dopo una serie di oscillazioni, Vasco si posizionò dall’altra parte della tavola, dirimpetto alla signorona. Si portò il vassoio sotto al mento, allungò la faccia verso la sua commensale e, con occhi famelici, le cercò nello sguardo la stessa smania.

Tentennò un altro po’, poi sollevò il coperchio con un: − Et voilà, ma dame!

La signorona iniziò ad applaudire e a elargire baci a destra e a manca.
Senza distogliere lo sguardo da quello della signorona, Vasco prese coltello e forchetta. Divise la mela in quattro pezzi. Due li adagiò delicatamente su un piatto e, con grossi inchini e reverenze, li porse alla signorona. Gli altri due se li mise sotto i baffi e odorò a pieni polmoni.
Un gioco di sguardi complici ritardava il primo boccone. Fu la signorona, non trattenendosi più, a dare il via alle danze.
Le loro mascelle iniziarono a masticare fibre di lino, di juta e di cotone. I loro denti a triturare strati di verde. A ingoiare spore di vernici, le loro gole. E i loro stomaci a digerire additivi ed essenze di trementina.
Particelle di mela continuavano a precipitare dalle loro bocche sulla tavola. E i loro occhi a fissarsi, concupiscenti.

 

Illustrazione di Stella Passerini

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Luca Giommoni ha pubblicato racconti su antologie e riviste, tra cui Effe – Periodico di Altre Narratività, Pastrengo, Narrandom, Spazinclusi, Clean, Malgrado le mosche, Il Corriere Fiorentino, ecc.

Il rosso e il blu – Una comune favola di migrazione (effequ) è il suo primo romanzo.

 

 

 

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