racconto di Marco Simeoni su conflitto adolescenziale, traumi familiari e status sociale

I tre problemi di Felipe

Diego si arrampica sulla grondaia all’imbrunire, quando i vacanzieri tornano dalla spiaggia, l’outlet “Blue Oasis” tira giù le saracinesche diventando una prigione per manichini e Marilisa apre una delle porte nel complesso di appartamentini stile coloniale, facendo la funambola con le caviglie gonfie, gli occhiali da sole infossati sul viso, le sporte piene e la divisa dell’Hotel “La Perla” da lavare. Le scalate di Diego sarebbero da cartolina, ma a Sinalusa tutti i flash sono per il mare e le sue curve sabbiose. Diego si sfilerebbe il costume per aumentare l’attrito con la facciata a buccia d’arancia dell’Hotel, se non avesse rischiato una multa per atti osceni in luogo pubblico.
«E dove sarebbe il pubblico?» Lo sentii protestare quella volta col vigile che redigeva il verbale. Io me ne stavo acquattata sotto la finestra con l’imbarazzo addosso, per aver conosciuto, prima degli occhi di Diego, Il suo costume, strusciarsi sulla tapparella socchiusa della mia cameretta.
Ero piuttosto timida un’estate fa.
Adesso invece, Diego si arrampica all’imbrunire battendo il tramonto in puntualità e io l’aspetto fingendo di fare altro.
«Ciao signorina della megalopoli» mi saluta nell’intervallo tra questo piano, dove sono solita trascorrere le estati con mio padre, e il successivo.
«Ciao Scimmia dei tetti.» È così che la mia voce trova il coraggio di chiamarlo e allora Diego sorride e mi invita a salire sul tetto con lui.
«Puoi prendere l’ascensore» aggiunge vedendomi titubante. Sarei forse salita ma poi gli chiedo: «Sei il figlio di Marilisa?»
Il viso di Diego si chiude come un riccio di mare e per un attimo scordo di avere la sua età. «Tempo che cincischi e hai perso il treno» conclude prima di scalciare con i talloni, prendere d’assalto il quarto piano e lasciarmi da sola con l’orizzonte.

Diego e Marilisa sono abitanti del bagnasciuga. Non hanno bisogno di cercare un’offerta su Booking per ferragosto. Loro ci vivono al mare. I loro passaporti sono conchiglie e davanti alla porta hanno la sabbia che monta la guardia all’arrivo di Babbo Natale, del coniglietto pasquale o del primo turista.
A dispetto della parentela, Marilisa non è sfuggente quanto Diego. Anzi. Se non la si tiene a bada, tende a essere appiccicaticcia come i dolcetti al miele che vende al mercato, quando non ha un doppio turno di pulizie a “La Perla”. Ha tante qualità. È riuscita a distrarre mio padre dalla Pay-per-view chiacchierando di qualsiasi cosa le venisse in mente: dai cuochi che abbondavano col pesce nel menù, agli espropri messi in atto dal comune alla fine degli anni ’90; dalla parrucchiera Tina e dalle extension che mio padre non mi avrebbe mai permesso di sfoggiare; alle minigonne dell’outlet del “Blue Oasis” dove, sempre lei, ha una tessera sconto.
Marilisa odora di mini saponi da beauty case e ha unghie curate su polpastrelli tagliuzzati. Mi piacciono le persone invadenti e mi piace il miele, impegnarmi a staccare le dita incollate a un dolcetto o perdermi in un discorso.
Invece mio padre è ipnotizzato dalle sue tette che premono contro la divisa, mentre lei gesticola e parla e si muove come se facesse sesso con l’aria. Da donna a donna il confronto con Marilisa è insensato. Sono i corpi a raccontare le storie e il mio ha il blocco dello scrittore. Si sforza, e i miei seni stanno crescendo, ma sono ancora piccoli come sbruffi di panna sul gelato, con due amarene al centro. Infatti, a essere onesta, dovrei dire da donna a ragazzina. Ho visto le uova di rana trasformarsi in girini nel laboratorio di scienze e vedrò la vera me attirare gli uomini, dallo specchietto del trucco.
Tant’è… se mi fossi interessa prima a Marilisa, anziché spiarla per capire dove abita Diego, non avrei posto a lui quella domanda. È troppo giovane e bella per essere una mamma.
Non che io mi intenda di mamme. Il ricordo della mia è nel telo di plastica che si stropicciava sul divano sotto il suo peso. Mia madre era da igienizzanti e da sovraccoperta e rivestiva qualsiasi superficie per evitare che fosse vissuta.
Forse per questo se n’è andata.
Ho cercato di soffrire la sua assenza, di recitare la parte dell’abbandonata davanti agli insegnanti e di convincere vicini e parenti che ero nata da una donna che amava più sua figlia del domopak. Si può essere sterili in tanti modi; io spero di essere biologicamente inadatta a diventare madre. Non posso rischiare di assomigliare a lei.
Eppure è orribile quando papà distoglie lo sguardo dalla TV e resta a guardarmi deluso, e poi fissa, oltre la mia spalla, la porta della camera matrimoniale, che resta chiusa. Per questo sono grata a “La Perla”, perché qui le stanze sono mischiate per confondere, qui l’hotel è stato pensato da un architetto per ombrelloni, non per famiglie.

Non sono stata del tutto onesta. Il primo incontro con Diego non si è svolto alla scalata dell’hotel. Ma il destino c’entra comunque.
Le vacanze estive portano mutamenti nell’uomo così come la Luna influisce sulle maree. Io muto da zombie assonata a vigile mattiniera. A Sinalusa c’è la spiaggia ed è per lei che mi sveglio.
Mi piace che le mie impronte sulla sabbia siano le prime della giornata.
Diego invece non ha mutamenti. Quindi non è una marea, ma non è neanche la Luna perché la pallida c’est moi, sebbene mi chiami Stella. Tant’è… lui si allena sulla spiaggia. Lo sforzo della corsa lo aiuta nelle scalate. Solleva le onde. Questo sono venuta a saperlo direttamente dalla sua bocca, anziché da quella di Marilisa.
Ma prima della bocca, questo è stato Diego per me. Un’orma che conquista la spiaggia.
Ed è stato un bene scoprirlo a piccole dosi. Ho dovuto assimilare l’effetto di quelle apparizioni che, sommate tra loro, formano Diego.
Magari Diego è un’eclissi.
Lui mi piace perché è un fuori-posto. Ha la pelle scura come le grandi querce e non indossa mai colori vivaci. Forse magliette e costumi erano colorati quando appartenevano al “Blue Oasis”, ma si sono sbiaditi in un processo inverso all’abbronzatura.

L’outlet “Blue Oasis” è gestito da Aldo e Giusi. Una coppia da nozze di corallo che non conosce il significato della parola arrendersi né della parola pensione.
Aldo è pelato come Aldo di Aldo, Giovanni e Giacomo. Ed è pure alto e secco. Fine delle somiglianze.
Giusi non è classificabile con nessuna nonnina standard. Riesce a sculettare con il suo incedere claudicante.
Entrambi dicono ai clienti: «Preferirei mettermi sotto spirito e tanti saluti. Ma ho un negozio da portare avanti.»
Non ho mai parlato con loro, naturalmente, ma chiacchiero con Marilisa quindi è come se avessi un filo diretto con tutta Sinalusa.
E sempre Marilisa mi ha confidato che Aldo e Giusi lasciano utilizzare a Diego il vicolo del carico e scarico merci se lui in cambio carica e scarica i furgoni dei grossisti in arrivo dalla provincia. Oltre a fare pesi con le scatole d’imballaggio, Diego sfrutta in maniera creativa anche l’attrezzatura che il “Blue Oasis” butta.
Oggi stringo un cartone di latte di mandorla in mano e il resto di 55 centesimi, ciabattine infradito rosa fenicottero e la mia testa è a caccia di ombra. Trovo la sua schiena nel vicolo a fare trazioni su una struttura in metallo che in origine doveva ospitare faretti e manichini. Tengo le labbra aperte. Un’altra me gli avrebbe leccato il sudore, ne avrebbe sentito il sapore salato.
«Ciao signorina della megalopoli.»
Divento un fuoco. «Come fai a saperlo?»
Diego interrompe l’esercizio e torna sulla terra. Spero e temo si volti, invece dice dalla schiena: «Strascichi i piedi.»
Prego mi rapiscano.
«E dai non te la prendere» si china a raccogliere un asciugamano, se lo passa velocemente addosso e lo frulla via «Senti qua» e attacca una specie di recita: «Felipe Maciado volava in alto più di qualsiasi gabbiano schifoso, perché Felipe se ne era andato prima che la sabbia si tingesse di pioggia. Ma Felipe aveva tre problemi» Diego alza il braccio e fa segno tre, con le dita. E resta ancora di schiena. «Questi non sono i classici problemi di chi vive agognando la prossima scadenza, la prossima bevuta, il prossimo mutuo, perché il Dirupo, nello sperduto sud, non è posto da chi sgobba senza prospettive, e non è neanche la solita isola a due bracciate dall’Africa. Primo problema: aveva avuto successo.»
Poggio il cartone del latte di mandorla su una centralina telefonica. «Bello. È il pezzo di un film?»
«No» agita le mani in un turbine «’spetta, ‘spetta, mica è finito.» Un gruppo di turisti stranieri sta entrando al “Blue Oasis” e io sono contenta che non tutto si possa comprare con i soldi.
«Secondo problema: aveva avuto nostalgia di casa. Se non avete mai sentito parlare del Dirupo, allora non avete mai legato pezzi di vetro e mattone con lo spago da appendere sopra i letti dei vostri figli, non avete mai camminato sotto una scala ridendo o festeggiato i palchi di un cervo; ma può esservi capitato di aver bucato una ruota a parcheggio finito, di essere precipitati da un sogno o di esservi fatti il segno della croce mentre ruttate. Certo, queste sono scorciatoie per entrare al Dirupo, solo che nessuno conosce un modo sicuro per uscirne, tranne Felipe, che al momento non è disponibile per elargire soluzioni.»
La voce di Aldo e Giusi viene assorbita dal calcestruzzo e si estingue. Il vento solleva lembi di cartonato sventrato in una ola e una lattina di Pepsi che rotola è l’unico idioma del Mondo.
Oddio perché non parla. E adesso? Applaudo. Sì. Applaudo.
Clap clap clap.
«Signorina, mi prendi per il culo?»
«Eh!? No, no! Cioè… wow. È stato forte.»
Silenzio. Diego sembra fremere «Non dicevi niente» sussurra.
E girati, perché non ti giri! «Beh, cavolo. Mi hai spiazzato. Insomma non sei uno da tante parole tu e poi boom mi diventi Shakespeare. È figo.»
«Ok. Ok. Secondo te che significa?»
«Cosa? Che sei di poche parole?»
«La parte del pezzo. Il Dirupo.»
«È da pelle d’oca. Insomma è losco, roba da riti strani» il mio sguardo rimbalza da una spalla all’altra di Diego, vorrei toccarlo, afferrarlo, ruotarlo e scoprire che faccia ha mentre fissa il muro anziché me. «Fa paura.»
«Non deve fare paura» afferra una maglietta nera anonima e se la infila e adesso ho veramente paura di non aver capito niente e che tutto stia per finire. «Voglio diffondere una leggenda» si sfrega via la polvere ed è tanto più alto di me «le leggende attirano le persone.»
Dì qualcosa Stella: «Ma qui c’è già il mare. Non c’è bisogno d’altro.»
«Quanti restano a chiamarlo così durante la bassa stagione?» Gli esce una risata che sembra un insulto «Visto? Mi hai sentito? Tu-di-città, le stagioni le dividi in base all’altezza?»
«Ma non puoi attirare così le persone. Non sono anatre.»
«E come allora?» Non ha finito la domanda che sta già imboccando il vicolo.
«Aspetta!» Gli corro dietro. «Intanto potresti iniziare guardando la gente, mentre gli parli.» Frena e ci sbatto contro. Per poco non mi mordo la lingua.
Scrolla la testa e pare ubriaco. La guancia gli precipita e mi sfiora la fronte. Trema.
Lo stringo. Lo stringo con tutto il corpo. Riesco a tenerlo, ma suda così tanto che potrebbe sciogliersi. I muscoli sono flosci e le ossa sono lische di pesce. Boccheggia? Gli manca l’aria o gli manca altro? Lo tengo da sotto le ascelle e gli appoggio la testa al petto. Niente più Diego, solo un ritmare di tamburi da dentro.
Le mie braccia non sono mai state così forti: «Andrà tutto bene» gli dico e lui finalmente è nella posizione giusta per guardarmi, ma nasconde il viso tra i miei capelli.
«Tempo che cincischi e hai perso il treno.» È la frase di Diego e lui torna a essere se stesso prima di staccarsi da me, nell’aria profumata di granchi.
Chi voglio prendere in giro?
Non riuscirei a vivere su una spiaggia. È l’orizzonte bagnato a darmi prurito. Qui non percepisco ostilità. La natura convive con se stessa.

Quattro ore dopo il suo monologo, Diego torna a essere la Scimmia dei tetti e spunta dalla mia finestra a dodici metri dal suolo. Mi piace perché ha una faccia da schiaffi che spazza via l’orgoglio maschile. I suoi fiori sono dei ciottoli pescati dalla battigia che mi lancia sul letto assieme al cartone di latte di mandorla, dimenticato nel vicolo. Mi dice: «Ciao Stella. Stasera sali sul tetto con me.»
E se entro quell’ora che non ci siamo dati, le punte dei capelli non mi saranno arrivate al sedere, malgrado si sia sforzato di chiamarmi per nome, non salirò. Maledette extension e maledetto mio padre. Lo scoglio è la fronte. Dovrei nasconderla? Tant’è… raccolgo i ciottoli dal letto, svuoto il latte di mandorla nel lavandino e punto su un outfit sexy da “ho almeno vent’anni”.
Diego mi aspetta nel corridoio di servizio dove Marilisa ammonticchia ogni mattina le lenzuola sporche. È strano. Mi scannerizza dalla testa ai piedi eppure, l’unica curva sensuale che posso sfoggiare al momento, è quella del naso.
«Devi cambiarti» dice. «Mettiti qualcosa di scuro. No, di nero.»
«Perché?»
«Devi mimetizzarti.»
Diego resta nel corridoio, occupando la medesima porzione di spazio, mentre io rovisto nell’armadio, finché adocchio una canottiera nera, che mi sta da rapper, e un paio di pantaloncini fitness, neri anche quelli.
Anche se adesso è un fossile da divano, è stato papà a insegnarmi come ci si muove nel pericolo. Ad apprezzare la duttilità del nero. Era speciale quando arrivavano i venerdì sera e la sua faccia, oltre alla stanchezza, conteneva tutte le sfaccettature, dal genitore al marito e scorgeva nella mia il desiderio di essere un figlio maschio. Lo seguivo nei weekend di caccia ai nidi dimenticati; papà raccoglieva un sasso, me lo passava e io lo punteggiavo con l’Uniposca e diventava un uovo che aveva bisogno di calore. Lo stringevo in una mano e papà mi stringeva l’altra nella sua ed eravamo un fiume che decideva la sua direzione. Adesso invece, per fidarmi di mio padre, dovrei prendere un Uniposca, punteggiarmi la faccia e credere nelle favole.
Sgattaioliamo fuori da “La Perla” tra un’ombra e un’altra, vedo già i pali della luce farsi pini dalle cime bagnate nell’aria ammorbidita della sera. Diego non sa nulla della caccia ai nidi, né del muoversi in pericolo, né delle ragnatele stradali di una grande metropoli, però mi lascia camminare lenta, lascia che io mi ambienti adattandosi al mio ritmo. Crede nell’inganno di questo viso che ignora i genitori e i mesi di settembre. Deve aver avuto il tempo di organizzarla bene e Sinalusa gli dà una mano, perché non incontriamo nessuno a ficcanasare, mentre saliamo dalla scala di Aldo e Giusi, al balcone del dirimpettaio del paese.
«Faustino è a sbronzarsi giù al molo» dice Diego indicando la finestra. «Non avrai mica creduto che sto sempre ad arrampicarmi a mani nude, no?» È il Diego complice che mi aiuta a issarmi sul tetto. E così lo seguo con i respiri, con la mano che gli tira l’elastico del costume. Le gobbe delle tegole diventavano un sentiero nella boscaglia di antenne a prova di adulto, nello spazio tra i boiler dell’acqua calda arrugginiti dalla salsedine; Diego pure è gobbo, scalzo àncora le dita dei piedi come un’alpinista e il tetto passa da inclinazione a linea retta nel cielo. Quassù ogni cosa ha le dimensioni di qualcos’altro. Se guardo in giù, quanto conosco rimpicciolisce, se guardo in su, anche. Sono ancora in cerca di uova. Mi piace assistere all’inizio di qualcosa.
«Non è meglio Geco?»
«Uhm!?»
«Geco. Come nome» alza il braccio all’altezza del mio naso «Ho anche i peli biondi che spariscono con l’abbronzatura.»
«Se la luna non spunta da quella nuvola, posso anche chiamarti “nero di seppia”.» Ridiamo «Perché ripeti sempre quella frase sul treno? A Sinalusa non c’è la stazione.»
«Shhh» fa lui e indica verso chi cammina a terra. Sono Aldo e Giusi. Oltre alle giacenze, gli resta energia da vendere a fine giornata. Pattugliano Sinalusa come nessuno.
«Tienimi il posto.» Diego si allontana e nell’attesa m’immagino stia andando a comprare i pop-corn e che la vita sia il copione di una commedia romantica. Poi Aldo scaglia qualcosa addosso a Giusi e la manca. Lei strilla e zoppica come fosse stata colpita. Sono in pigiama? Avviene tutto sotto i lampioni e la Luna, ora sgombra da nubi. Le luci dei palazzi lì attorno, si sono spente dopo le urla, come se queste avessero decretato il coprifuoco. Giusi, dapprima smarrita, ritrova la disperazione di un animale braccato e carica al rallentatore il marito. Aldo la placca e ne devia l’impeto, fino all’uscio di casa. Giurerei che l’ha morso, lungo il tragitto.
«Piaciuto lo show?» Diego è tornato carico di robaccia che non assomiglia lontanamente ai pop-corn.
«Oddio ma è orribile. Tu lo sapevi?»
Diego fa spallucce «È una delle cose che succedono da queste parti. Tu, dal balcone di casa, mi indicheresti i monumenti o la spazzatura per strada?»
«Che intendi?»
«Hai capito.» Smette di cullare la robaccia che si è portato appresso e la poggia sul tetto.
Ho dei brividi e mi accarezzo le braccia «Saliamo alla terrazza de “La Perla”?»
Scuote la testa «Non ti voglio sulla coscienza. E poi devo dirti ancora il terzo problema di Felipe.» Dalla robaccia estrae una seggiolina da mare color tetano. «Te ne sei dimenticata vero?» La apre in un cigolio e mi fa segno di sedermici sopra. Vedo un centrino di muffa sulla stuoia. «C’è altro che è successo da queste parti. L’interstatale 90 costeggia la litoranea e ha molti punti da selfie. A volte capita che qualcuno, prendendo male una curva, precipiti di sotto. Sul fondo, ad accoglierlo, può trovare cespugli, oppure rocce. A Sinalusa c’è un detto “andare a raccogliere fichi d’india sulla 90”. Ma a casa mia il motto era “Tempo che cincischi e hai perso il treno” e a me quel motto piaceva. Faceva sentire utili. Così mam…» Diego si interrompe e prende fiato «Marilisa e io diamo una mano a Felipe a riempire il furgone perché stavolta ci porta con lui, lui vola alto, lui sa come andarsene dal Dirupo.» Diego fissa i confini del buio. «Bisogna prendere la 90. Eccolo il grande mistero.» Si siede sulla seggiola. «Quando il furgone è uscito di strada ho pensato a Felipe infilzato sulle rocce, più che a Felipe con in mano un cesto di vimini. Ho pensato che si sarebbe vergognato a farsi trovare in quello stato dagli altri. Quante cose ho pensato.»
«E con questa storia vorresti attirare le persone?» Mi pento subito dell’acidità con cui mi esce il disagio.
Diego fischia sommesso «In realtà ne voglio attirare una sola… confusa eh!» Si tira su e fa il gesto di lanciare in direzione del “Blue Oasis” una boccia di plastica color arancia «Il terzo problema: Felipe sopravvive, senza niente di rotto. Un Miracolo. Un miracolo da titoloni sui giornali.» La lancia e il vetro del solaio va in frantumi. «Ma lui se n’è andato comunque e non è più tornato.» Solo adesso si accorge che sono rimasta in piedi. «A cosa pensi Stella?»
Penso alle matriosche e a Diego come una marea che trascina via le certezze. Mi scappa la pipì. «Che per quella finestra rotta possiamo incolpare Aldo?»
Subisco lo sguardo condiscendente di Diego «Tzè! Sei troppo ingenua. Ciò che si fa al buio viene sempre alla luce.»
È la sua aria di supponenza, da chi è cresciuto in fretta, forgiato dal dolore, a farmi arrabbiare: «Penso che Felipe avrebbe dovuto perdere la testa per mia madre anziché per Marilisa, così ci saremmo tolti di mezzo due coglioni con un viaggio solo.»
Forse si aspettava abbracci e commiserazione perché mi ritrovo a parlare con una triglia. Dalla bocca aperta di Diego esce un «Come?» seguito da «Tua madre?»
E io mi aggrappo a quella curiosità e gli riverso addosso un passato condensato che sono i miei dieci mesi in città a rotazione negli ultimi tre anni. Gli parlo di mia madre. No. Lo assedio con la guerra tra me e il ricordo di mia madre. Rotto il sigillo è un attimo, non la finisco più di parlare e lui di assorbire. Mi interrompo giusto per fare pipì dietro un comignolo e per convincerlo a sbarazzarsi della sua robaccia, raccattata dal Dirupo, custodita come un feticcio. Alla ricetta della felicità aggiungiamo: parlare l’uno sull’altra a volontà, dosi di spintoni e sfotterci Q.B. . Gli occhi che mi si chiudono mi segnalano l’arrivo dell’alba e un’intuizione: «Quindi Felipe Maciado…»
Dopo una notte di simbiosi, Diego conclude la mia frase «Se posso scegliere chi seguire, posso anche cambiargli nome. E poi…» sghignazza «i nomi italiani per alimentare una leggenda fanno schifo.» Starnutisce come se volesse nascondere una bugia. «Tua mamma invece?»
L’umido della sera passata mi si deposita addosso. Ma non starnutisco: «Non è più mia madre.»
«Ehi! Idea geniale» Diego schiocca le dita e immagino un altro vetro andare in frantumi. «Potremo far mettere insieme Marilisa con tuo padre.»
Io e Diego sotto lo stesso tetto? L’immagine di lui, così eccitante, che si riduce a una specie di fratellanza forzata, è la fine di un incantesimo; la sostituisco, chiudendo gli occhi, con il miele e le monoporzioni di marmellate che Marilisa servirà a breve, insieme al suo sorriso, da imburrare sui toast.

Copertina di Gianmarco De Chiara

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *