Foto di Alessia Damiani

Happy hour

Sono seduto sulla terrazza di questo bar puntuale come al solito. Mi hanno assegnato un piccolo tavolino proprio al centro, anche se avrei preferito essere più appartato. Fa molto caldo oggi e il riparo degli ombrelloni di tela bianca non basta. L’aria è ferma, nulla smorza i raggi del sole che arrivano dritti sulla mia camicia. Sposto un po’ la sedia e mi rifugio completamente all’ombra, traendo un po’ di sollievo.

Guardo l’orologio. Con Serena abbiamo appuntamento alle 13.00 ma è già in ritardo. Non mi stupisce. Cinque minuti sono il minimo per lei, le piace farsi attendere. Abbiamo deciso di vederci qui, nel nostro bar di sempre, perché è vicino ad entrambi i nostri uffici. Una volta lo sceglievamo per il panorama mozzafiato e il senso di intimità e accoglienza che ci trasmetteva.

Pino, il cameriere, viene a chiedermi se voglio intanto ordinare ma gli rispondo di no. Voglio aspettare Serena e nell’attesa apro il giornale. Scorro qualche titolo, ma non riesco a concentrarmi. Non vedo Serena da quasi due mesi, da quando mi ha detto che a casa di Maria si trova bene e che non devo preoccuparmi per lei. Di quell’occasione non ricordo nemmeno una parola, riuscivo solo a pensare che si fosse già tolta la fede. Io la porto ancora oggi.

Vederla fare le valigie è stata la cosa più facile. Semplice, pratica, lineare, ha preso ciò che le serviva e se n’è andata, chiudendo delicatamente la porta alle sue spalle. Il difficile è arrivato dopo. Avrei preferito che quella porta la sbattesse sonoramente. Le sarei potuto correre dietro, urlarle che l’amavo, che mi dispiaceva, che era stata solo un’insulsa, stupida, e nemmeno troppo piacevole scopata. Le avrei potuto strappare la valigia dalle mani, dirle che avrei licenziato Alice quel giorno stesso, a patto che lei tornasse, perché per vederla varcare di nuovo la soglia del nostro appartamento perfetto avrei fatto qualsiasi cosa. E invece no. Ero rimasto lì, in piedi, con la mia camicia inamidata senza una piega, a fissare il bel divano bianco in pelle che Serena aveva così fortemente voluto. Quello in valigia non le era entrato.

Dopo qualche minuto mi ero affacciato alla finestra per vederla uscire dal portone, e tutto quello che ero riuscito a pensare era che non sapevo di chi fosse la macchina su cui stava salendo. Mi mettevo pure a fare il geloso, proprio io. Io che con Alice non solo mi ci ero fatto la scopata di cui sopra, ma che mi ci facevo interi week end di finto lavoro e allegre serate di immaginarie riunioni coi clienti esteri, da mesi. E sì che erano piacevoli, quei giri di letto: Alice aveva a malapena trent’anni e tanta voglia di scoprire nuovi mondi. Non come Serena, la cui gioia più grande provata negli ultimi anni al momento di infilarsi a letto era sentire il calore dello scaldasonno De Longhi. E, ovviamente, staccargli la spina.

Quel giorno, mentre sceglieva con cura cosa portarsi via, non mi ha detto nemmeno una volta che sono uno stronzo. Cosa che penso di meritare, invece, visto che sto anche cercando di convincermi che l’aver cercato Alice sia dipeso solo ed esclusivamente da lei. Nel periodo che ha lavorato con me l’ho sempre spogliata con gli occhi, ma essere passato a farlo con le mani, non è stata certo solo colpa di Serena. Potevo fermarmi, potevo fermarla. Ma era la scelta più difficile.

Sono già le 13.30 e Serena non si fa vedere. Controllo il telefono, magari ha provato a chiamarmi per avvertirmi del ritardo e non l’ho sentito. Il display è pulito, né chiamate, né messaggi. Strano. Me l’ha chiesto lei di vederci oggi, alzando bandiera bianca di fronte alle mie grandi pressioni degli ultimi giorni. Voglio che lei torni e glielo sto dicendo senza mezzi termini. Dopo le prime settimane di stordimento, misto al sollievo di non dover più fare il giocoliere per tenere in piedi il mio castello di carte false, l’ho cercata e le ho chiesto di tornare a casa in tutti i modi. Mazzi di rose, scatole di cioccolatini, e-mail romantiche di chiara ispirazione googleiana, sit-in sotto casa dei suoi, appostamenti fuori dal suo studio. Nulla di tutto questo ha funzionato. Serena non mi voleva vedere, e me l’ha sempre detto chiaramente, con calma e rispetto. Senza mai alzare la voce, nemmeno una volta.

Casa però l’ha cambiata, adesso. Sta da Maria, sua sorella, che è tornata di nuovo single dopo aver mollato malamente l’ennesimo malcapitato. Aveva bisogno di dividere le spese e Serena era perfetta come coinquilina. Un tuffo indietro all’adolescenza.

“Mi hai cancellato con un colpo di spugna” le ho detto quella volta che dopo mezz’ora di attesa sotto casa di Maria è finalmente uscita per andare a studio. Lei si è fermata, mi ha guardato e nei lunghi attimi di silenzio ho letto scorrere sul suo viso “A te è bastato un colpo di reni. Almeno io l’ho fatto con un po’ più di classe”. Mi sono girato e me ne sono andato senza aggiungere altro.

Sono le due e dovrei essere già di ritorno in ufficio. Provo a chiamarla, ma il cellulare squilla a vuoto. In lontananza sento il rumore della sua suoneria e mi volto. Sta uscendo in terrazza, avvolta nel completo borgogna che le ha sempre donato. Con andatura lenta e misurata viene verso di me, scosta la sedia dal tavolo, si siede. Esita solo un attimo e si toglie gli occhiali da sole, infilandoseli nella camicetta blu. Perfettamente truccata, come sempre, capelli raccolti secondo le ultime tendenze, nulla di nuovo. Ma io perché ho cercato Alice, mi chiedo.

Il cameriere si avvicina per prendere le ordinazioni e Serena non gli risparmia un sorriso. A me non ha ancora nemmeno rivolto la parola ma a Salvatore lo sgarbo di non salutarlo, chiedergli come stanno moglie, figlia e nipote, non lo farebbe mai. Ordina anche per me, tanto sa cosa voglio, chiedo il solito Spritz da anni. Appena Salvatore se ne va, appoggio i gomiti sul tavolino e mi sporgo verso di lei. Non spero certo in un bacio, ma questa distanza voglio accorciarla.

Serena si sistema sulla sedia scivolando in avanti, incrocia le braccia al petto e appoggia le spalle allo schienale, reclinando un po’ indietro la testa.

“Ti ascolto” mi dice.

Mi spiazza l’assenza di convenevoli, faccio vagare lo sguardo per la terrazza in cerca di appigli, ma non ne trovo. Sembra che camerieri e avventori siano tutti dalla sua parte e trattengano il respiro in attesa che io parli. Li accontento.

“Torna a casa, non ha più senso restare separati… E’ stato l’errore di una notte…” inizio io.

“Di lei non t’importa, mi ami, Alice non ha significato nulla, è stato solo uno sbaglio, la crisi di mezza età, avevi paura, io mi ero raffreddata, non possiamo rovinare tutto, non si butta via un matrimonio di quindici anni per una che in confronto a me è una ragazzina… E’ questo che stavi per dirmi, no? Sembri un disco rotto. Dici sempre le stesse cose da settimane, non ce la fai proprio a essere originale eh? Ma guarda che io, ad Alice, le farei una statua. Ci ha liberati, Roberto, tu non te ne rendi conto. Esci, vivi, scopa, parti, torna, fai quello che ti pare, a me non me ne frega più nulla.”

Ho la gola secca, questa non me l’aspettavo. E’ il discorso più lungo che le sento fare da quel maledetto giorno. Ho immaginato molte volte l’istante in cui anche la sua diga si sarebbe aperta, ma non credevo che l’acqua prendesse questa direzione. Per fortuna, a farmi guadagnare tempo arriva Salvatore a portarci i bicchieri. A me lo Spritz a lei un calice di bianco, semplice e raffinato. Ci porta anche qualche stuzzichino, ma né io né lei consideriamo l’idea di mangiare.

“Io non voglio uscire, vivere, scopare, partire, tornare. Cioè lo voglio, ma non senza di te, Serena” ritento, prendendole la mano che a malapena riesco a sfiorare. La ritrae immediatamente.

“Sì che lo vuoi Roberto, è quello che hai fatto negli ultimi dieci anni. Non dico che sia stato un errore sposarci, il primo periodo lo salvo, ma poi… Dai, vai e sii felice, goditi il presente, lascia andare tutto il resto. E’ meglio per tutti, Roberto, dammi retta.”

Ci crede davvero. Lei ne è convinta e lo capisco da come mi guarda. Ha gli occhi limpidi, senza la fronte aggrottata che le forma quelle piccole rughe d’espressione quando mette rancore in ciò che dice. La sua fronte è perfettamente liscia.

Serena chiama Salvatore, gli chiede il conto, e io non riesco ad aggiungere altro. Nemmeno quando prende la borsa e la poggia sulle gambe, nemmeno quando tira fuori il portafoglio e paga anche per me. Nemmeno quando si alza, mi guarda, mi sorride e se ne va.

Continuo a girare con la cannuccia l’aperitivo nel tentativo di sciogliere il ghiaccio e farlo durare più a lungo. Dopo qualche secondo, con la complicità dell’afa, ottengo quello che voglio. Porto la cannuccia alle labbra e tiro su il liquido pallido. Mi viene una smorfia, è solo la versione annacquata di quello che mi aspettavo.

Foto di copertina di Alessia “Stamp” Damiani

2 pensieri su “Happy hour

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