Glukupikron di Bianca Favale

GLUKUPIKRON

 

 

Ἔρος δηὖτέ μ’ ὀ λυσιμέλης δόνει,
γλυκύπικρον ἀμάχανον ὄρπετον

Eros che scioglie le membra mi scuote nuovamente,
dolceamara invincibile belva.

Saffo

 

Quando ti ho chiuso gli occhi non sapevo che avrei cercato le tue pupille in ogni buco del mondo, che avrei bloccato la mia cassa toracica alla ricerca del tuo respiro.
Non tornavi più in camera, mi avevi detto: Preparo qualcosa da mangiare e te la porto a letto.
Ti ho trovato per terra, in cucina, con un mezzo sorriso stampato in faccia.

Mi dicevi sempre: Finché non sarai solida sulle gambe tue, io non chiuderò mai gli occhi. È per questo che sei morto con gli occhi spalancati: tu lo sapevi che io non ho la forza e la voglia di camminare senza averti accanto.

Mi sono chinata per soccorrerti ma eri già ghiacciato. Ho provato in ogni modo a trattenerti un altro istante, ma sei scivolato dalle mie dita troppo lisce; ti ho chiuso gli occhi senza versare nemmeno una lacrima, ho risposto al tuo sorriso e sono rimasta lì vicino a te per familiarizzare con il disgusto intollerabile della tua assenza.

Hai avuto paura mentre te ne andavi?

Dopo qualche ora ho creduto di impazzire, quando quell’uomo vestito di tutto punto mi ha detto una sola sillaba: su. Era il suo modo per dirmi che dovevo lasciarti andare, mettere uno spesso strato di legno tra la tua pelle e la mia. Tu sei tutto ciò che conosco e il mondo intero, tolta la patina di borghese cortesia, mi fa orrore.

Da allora ho il fiato corto, i miei polmoni vogliono gonfiarsi ma si rifiutano di introdurre un’aria che non sia stata assaggiata prima da te: che ne so io di dove si va e dove si porta il mio corpo?

La vita che mi hai lasciato è un maledetto gorgo di routine e mancanze dove tutto è rimasto al suo posto tranne me e te: apro lo studio, visito i pazienti, mi prendo cura dell’acquario e torno a casa. Guardo per qualche minuto il mondo che scorre indifferente dall’altra parte del vetro, apro una bottiglia di vino bianco fermo ghiacciato e mando giù due bicchieri, intervallati da un paio di bocconi di robaccia precotta che tiro fuori dal freezer a casaccio e rendo edibile con un passaggio nel microonde. Due tiri alla sigaretta, un Tavor sotto la lingua e ciao, tutto si ferma per riprendere uguale a se stesso il giorno successivo.

Poi, all’improvviso, l’ho sentito di nuovo.

Tu dicevi sempre che ero tutta strana, ma non era colpa mia. Io ero tutta una terronata, dal nome in poi: mi avevano chiamata Elia come il nonno che era morto da poco, per non scontentare la nonna che mi aveva accolto in nero stretto e una spilletta di perle per darsi uno sprazzo di bianco e non portarmi iella. Ogni volta che la vedevo cercare spasmodicamente in me qualche traccia di suo marito la prendevo per una povera disperata con troppo tempo libero, e ora che anche io faccio le stesse cose la sua immagine mi massacra la testa come una melodia continua e ridondante, una serenata di Dvorak suonata pianissimo per sconquassare il cervello.

Lei sì che era una forza, non come me: era la vera anima del ristorante del nonno ma non si vedeva mai; lui usciva a prendere gli applausi, ma senza lei l’Elia sarebbe stato una stamberga di quart’ordine.

Quanto mi hai preso in giro perché mi chiamo come un vecchio e un ristorante, ti sento ridere tra le mie orecchie e la tua eco mi rimbalza nella testa e tutto si fa cupo, inutile.

Tu non torni e io che vivo a fare?

Era lì, esattamente al centro della mia lingua, un brivido brevissimo e profondo, un terremoto dai talloni alla testa, un movimento ondulatorio che mi ha sballottato più in là. Eppure io non ci credevo, non volevo dare retta alle storie che mi raccontavano da bambina: le cose che ritornano, le mancanze che ti ingoiano da dentro, i momenti belli che non vedi mai mentre li vivi e ti ritornano addosso come uno sputo lanciato verso il cielo.
Non ricordavo più, era un’ossessione scivolata in qualche vecchio cassetto e rimasta ferma e vuota, uno scarto della mia memoria.
La prima volta che ho sentito la scossa avrò avuto tre o quattro anni: ero in cucina con la nonna, stava preparando la zuppa di cozze. Mi ha chiamato avvicinando la mano alla bocca: Vieni, vieni. Ha aperto una cozza e me l’ha appoggiata sulla lingua: ho sentito prima il freddo della lama e poi una bava dolce sul solco mediano.
Non mandarla giù, Elia, senti prima il mare, a nonna. È la ricchezza tua, queste cozze ti faranno studiare. È salata, dolce e poi amara; quando diventa amara falla scendere e schiocca la lingua sul palato. Ah! – lo fece anche lei, sorridendo e minacciandomi di non farmi assaggiare più nulla se avessi rivelato qualcosa ai miei genitori o a chiunque altro.
Io ero in estasi, che me ne fotteva di parlare se potevo vibrare da dentro? Quel brivido era il centro geometrico del mio universo, la sola cosa che mi interessasse davvero. Mia nonna pensava che fosse amore per il cibo, ma si sbagliava: era la lingua il punto nodale di tutto. Avevo preso l’abitudine di portare con me uno specchietto per guardarmela: dopo ogni assaggio mi fermavo a bocca aperta e guardavo senza sosta il mio pezzettino diventare più chiaro o più scuro, incresparsi o coprirsi di bolle, inaridirsi o sudare. Poi prendevo il dito e toccavo sempre più in fondo, fino ai conati di vomito. Mi fermavo un istante e ricominciavo, in un rondò che impiegava ore intere a concludersi.

Sarebbe rimasto tutto nel passato, se l’ennesimo paziente a cui ho curato gratis qualche carie non avesse scelto di sdebitarsi lasciandomi una cassetta stracolma di pesce.
Ho preso una delle vaschette senza farci particolarmente caso, mi sono gettata sul divano, e ho iniziato a mangiare con le mani: erano gamberi crudi, freschissimi, con un po’ d’olio e il loro meraviglioso sugo encefalico. Ne ho preso uno e non l’ho masticato, ho lasciato che mi scivolasse in gola. Quasi mi strozzavo per quanto ero eccitata. Qualcosa che avevo nascosto era lì, finalmente, di nuovo al centro del mio cervello.

I gamberi sono molli, amari in testa e dolci in coda. Hanno la stessa consistenza della tua lingua, ora me lo ricordo alla perfezione. Ciò che tu mi davi era così, pieno e privo di asperità, rotondo nella mia bocca e nel mio cuore e ovunque ti poggiassi, e da quando te ne sei andato è stato tutto insopportabilmente ruvido e privo di desiderio. Nero di seppia nella gola, una cosa che non ti fa male ma ti disturba se privata del suo senso.
L’assaggio aveva ridestato il mio sentire attraverso quel pezzettino di carne viva che sa farsi strada nei corpi altrui e cavarne l’anima a colpi di bava.

Ma tu, di preciso, che sapore avevi?
Riesco ancora a percepire il ferro freddo di carne cruda e la cenere amara della brace, ma non puoi essere stato solo questo.
L’avrò ripassato mille volte nella testa e ora non me lo ricordo più, sei acqua.
Se solo potessi sentirti in bocca ancora una volta, forse la mia condanna sarebbe più lieve. Devi pur essere da qualche parte, nascosto nel gelo della menta o sdraiato sulla dolcezza avviluppante del mascarpone.

Se solo ci avessi fatto caso, se solo fossi stata meno stupida ora ti troverei in un istante e non sentirei il sangue che mi pulsa senza sosta nella testa.
È che non lo sai mai, quando sei felice. Lo scopri puntualmente un secondo troppo tardi e passi il resto della vita a ispezionarti la bocca per riportare su un bolo di felicità.

Indosso una tua camicia, quella che avevi indosso l’ultima sera. C’è ancora il tuo profumo fresco di bosco con le note amare del tè. C’è la tua risata cristallina dispersa nel vento, ma tu non ci sei.
È tutto bianco qui, bianco e insipido e io non riesco a staccare le pareti della mia gola da te.

Stappo la bottiglia di champagne che avevamo tenuto in serbo per anni e la bevo fino all’ultima goccia, ha il sapore amaro dell’occasione speciale a cui era destinata.
È il momento.
Frugo nella borsa da lavoro e mi sistemo davanti allo specchio con le lampadine intorno, mi sento una diva del cinema.
Apro la bocca, la ispeziono a occhi chiusi. I polpastrelli si inebriano della possibilità di esplorazione senza gli odiosi guanti che li privano di ogni sensazione. Almeno loro sono liberi.
Sollevo la lingua, mi tocco il frenulo, incido.
Di nuovo ferro in gola, quello della carne di cavallo che serviva a rimettermi in forza dopo le malattie da bambina.
È caldo e viscoso, il sangue mio che non hai portato con te.
Lo ingoio e lascio che sporchi la tua traccia.
Taglio più a fondo e rido. Il sangue scivola, è tornata l’estate in cui ho creduto che sarebbe durata per sempre. Non ho più freddo in mezzo a questo buio.
Gli occhi si chiudono, sono felice e ci faccio caso.

Sto arrivando, aspettami.
Aspettami, sono solo io.
E la mia lingua che zampilla è una spugna intrisa di sangue e giorni inutili.

Copertina originale di Gianmarco De Chiara

*****

Bianca Favale, barese di quarant’anni, bancaria, innamorata persa della mia compagna e delle parole.
Leggo e scrivo per dare un senso alla quotidianità e vivere pensieri e desideri senza finire in galera.
Ho pubblicato un racconto, Esodo, sulla rivista Risme nel 2019 e un romanzo, Il Posto dei Santi (ed. Scatole parlanti), nel 2020.
Ho scritto questo racconto ascoltando la Serenata per archi in Mi maggiore, Op. 22 – secondo movimento (tempo di valse) di Dvorak.
Giudicate di me teneramente.

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