Mi sono svegliata con una gamba informicolata. Ho preso la coscia e l’ho spostata con le braccia dal bordo del letto al centro del materasso, devo smetterla di addormentarmi con le gambe accavallate. Ho aspettato che l’intorpidimento passasse.
Non è passato.
Funziona così. Una mattina ti svegli e la vita che conoscevi finisce.
Il nome della malattia è una parola composta, lunga, c’è un’influenza esotica nel finale che fa produrre uno strano schiocco alla lingua quando la si pronuncia. Ci ronzano intorno tante altre parole. “Degenerativa”, “Precoce”, “Midollo”. Già dal secondo giorno non faccio che pensare a quella manciata di parole. Sono nella mia testa. Rotolano come biglie e proprio come biglie le raccolgo, le tengo nel palmo della mano, le inverto e le mischio, le metto in fila, le cambio di posto, prima all’inizio, poi in coda, come un gioco per bambini. Mi illudo che, così facendo, almeno qualcuna di loro possa cambiare significato, perdere d’importanza, rotolare altrove.
Pazzesco di come si alterino le percezioni. Le persone, gli orari, le priorità, i rumori… tutto si trasforma, diventa altro.
Pazzesco, sì.
Già il secondo giorno li riconosci.
Il cigolio del treppiede delle flebo è diverso da quello di una barella. Il primo è uno stridere frenetico, il secondo somiglia più a un sibilo, un sussurro sinuoso. Le ruote scivolano sul rivestimento sintetico ed è come ascoltare una danza tra latex e silicone. Il ruminare del tritarifiuti non ha nulla a che spartire con il borbottio del carrello dei pasti o di quello delle medicazioni.
Già il secondo giorno capisci chi ti circonda. Chi è la mummia che non smette di parlare al telefono neppure di notte, la timorosa delle iniezioni, la finta spavalda, quella che scorreggia disseminando scie chimiche in tutto il reparto, la litigiosa, la martoriata d’aghi, quella che comunque non ce la farà.
Suddividi tutti in base a quel criterio: chi uscirà, chi resterà.
Gli ospedali sono ecosistemi autosufficienti. Città nelle città. Hanno regole indipendenti. Le persone all’interno delle stanze bianche sorridono diversamente. C’è un modo di curvare occhi e bocca che rimanda a qualcosa di incrinato, cedevole. Anche nelle situazioni più comiche, le risate ti lasciano in bocca quel retrogusto amarognolo di acqua che ristagna in vecchie tubature. Quasi ti senti in colpa, per essere riuscito a ridere lì dentro.
Gli infermieri hanno orari diversi da quelli di qualsiasi altro lavoro, anzi, «Gli infermieri, qui, gli orari non ce li hanno proprio.» Me l’ha detto Svilen, il mio nuovo amico.
Già il secondo giorno vorresti scappare.
Ogni tanto crollo. Mi sorprendo a urlare per le cose più assurde. Questa mattina il telecomando della televisione non funzionava più e così l’ho lanciato contro il muro. Ho premuto il tasto della chiamata di assistenza. Non riuscivo a staccare il dito. Ho sentito il rumore di un paio di zoccoli con la suola in poliuretano, strisciavano sul rivestimento antiscivolo delle piastrelle, plastica contro plastica, sarà passato meno di un minuto.
«Che fine ha fatto l’altra infermiera?»
«Claudia?»
«L’altra, sì.»
«“L’altra” si chiama Claudia.»
Io non ribatto e Svilen mi dice che Claudia si è presa il raffreddore, ai nuovi arrivati succede spesso.
«Un po’ come quando i bambini incominciano la scuola», spiega Svilen. «Sono esposti a un mucchio di germi nuovi, all’inizio si prendono di tutto.» Parla senza smettere di rifare il letto. Ha approfittato della mia chiamata per portarsi avanti con il lavoro, continua a raccontare di Claudia mentre mi chiede se lo schienale è abbastanza alzato, eppure a me, del raffreddore di Claudia non importa nulla. Il secondo giorno non mi importa più niente di nessuno.
Già il secondo giorno non mi rendo conto di quanto sono diventata egoista, cinica, spietata. Mi sembra normale, ogni pretesa. Mi sembra dovuta, ogni attenzione.
Gli altri non esistono. Potrebbero andarsene tutti all’inferno. Esiste la mia sofferenza, gli altri possono aspettare, gli altri devono aspettare, perché gli ospedali non sono posti in cui si può restare più di un giorno.
È semplicemente inumano.
Mi pare d’impazzire al solo pensarci e quella puzza di medicine e disinfettanti di cui sembra impregnata pure l’acqua del rubinetto, non mi abbandona nemmeno un istante.
Sono solo una massa di panico, l’aria manca. Vomito, nausea, il cuore salta, tachicardia, flebo, Plasil, spingo il pulsante, flebo, alza lo schienale un altro po’, flebo, soluzione salina, manca il respiro, spingo il pulsante, flebo, Tachipirina 500, alza quel cazzo di schienale! Il respiro non c’è più. Non c’è nessuno capace di alzare uno stramaledetto schienale!? Cristo, non vedete che non respiro! Non vedete che così mi state solo ammazzando più in fretta?!
Già il secondo giorno mi ritrovo improvvisamente bambina.
Già il secondo giorno la crepa è voragine.
Già il secondo giorno e vorrei che fosse l’ultimo.
Poi.
La carezza di un infermiere, arriva così, senza preavviso. Un gesto di una semplicità imbarazzante e poche parole «Ci tenevo a farti un saluto, prima di andare a casa». Mentre Svilen-infermiere-venticinque-anni-nato-a-Chiclayo appoggia la sua mano sulla mia che ancora sta tremando e il cuore non ne vuole sapere di rallentare, mentre ogni cosa sembra sul punto di essere risucchiata dentro i bordi del mio lettino, mi sorprendo a pensare, con improvvisa lucidità, che quella mano ha il palmo che profuma ancora di borotalco e che: “tutta questa umanità, già il secondo giorno, è davvero qualcosa di speciale”.
Copertina di Gianmarco De Chiara
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Stefano Bonazzi è nato a Ferrara, dove vive e lavora.
Di professione grafico pubblicitario, realizza composizioni e fotografie ispirate al mondo dell’arte surrealista. Le sue opere sono state esposte, oltre che in Italia, a Londra, Zhengzhou, Miami, Seul e Monaco.
I racconti “Forse abbiamo esagerato”, “Niente Coma” e “Chi urla più forte” sono stati selezionati tra i finalisti del premio Nebbia Gialla 2015, 2016 e 2017 a cura di Paolo Roversi, è presente in numerose antologie, tra cui Gli Stonati (NEO editore).
A marzo 2014 è stato pubblicato il suo primo romanzo A bocca chiusa per Newton Compton Editori di cui è stata pubblicata una nuova edizione a Gennaio 2019 (Fernandel).
Nel 2017 è uscito il suo secondo romanzo L’Abbandonatrice (Fernandel).
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