Cosa ho davanti? Non riesco più parlare.
Se posso, taccio. Detesto la mia voce e per fortuna, pur essendo un medico, le mie interazioni con gli altri sono minime: nessuno mi richiede lunghi discorsi, non sono necessari. D’altronde per lavoro addormento la gente: accolgo l’angoscia del mio paziente, la faccio accucciare quatta quatta in un limbo ovattato e la allontano con dolcezza e pietà dal terrore del tavolo operatorio. Poco mi importa se al risveglio potrebbero vomitare anche l’anima. Succede anche a me, e mica devo smaltire dosi più o meno massicce di sevoflurano. A me basta riportare alla memoria ciò che non ho più; sono orfana, orba del mio bene più grande, tu, e il vuoto mi risucchia lo stomaco.
Io, poi, non dormo mai. Almeno non nel senso comune del termine. Non ho un rituale, una noiosa routine di pigiami inguardabili o tenute sexy, a casa mia non c’è nessuno. Il telefono non squilla, la TV gracchia poco o niente. Detesto stendermi a letto, la stanza è intonsa. Ci sono il letto dei miei genitori e i loro maledetti mobili in noce scuro; quella camera è loro, io preferisco il mio salotto affacciato sul lungomare di S. Girolamo, molto meno nobile e famoso di quello della Bari da cartolina, eppure stupendo nella sua umanità selvaggia e genuina.
Mi butto sul divano e crollo, spesso non mi cambio nemmeno quando rientro: il tempo di una cena veloce e di un bicchiere di vino, attraverso rapidamente il calvario del mio inconscio e poi mi sveglio, per fortuna.
Anche oggi hai bussato alla porta del mio sonno, sempre più tormentato. Mi alzo dal divano e apro la finestra che dà sul mare. Respiro intensamente, cercando di ingoiare il tuo pensiero che si è affacciato con prepotenza dentro me.
Respiro come insegno ai miei pazienti quando si svegliano, gonfiando la pancia per tentare di placare una tensione invincibile. Il telefono squilla, sono reperibile e in clinica hanno bisogno di me. In pochi minuti sono per strada.
Come sempre guido senza fare caso alla velocità: il mio è un mestiere di equilibrio, devo sapere perfettamente cosa somministrare e quando farlo, se non voglio gettare i miei pazienti nell’oblio di un sonno senza risveglio, e il tempo spesso è la variabile fondamentale del mio successo.
Direziono il getto dell’aria condizionata sul viso, devo svegliarmi e riprendere a respirare. Accendo la radio.
Cosa ho davanti? Non riesco più a parlare. Dimmi cosa ti piace, non riesco a capire dove vorresti andare. Vuoi andare a dormire?
Intorno a me una nebbia totale, profonda, improvvisa.
Mai vista a Bari una nebbia così. Questa non è la mia macchina, gli interni sono di stoffa e pieni di macchie di dolci e il clacson in plastica è inguardabile. Lo stereo è alimentato da una musicassetta che diffonde canzoni americane degli anni Sessanta. Questa non è la mia macchina, è la tua. Apro lo sportello, la carrozzeria azzurra e la maniglia rotonda mi tolgono ogni dubbio.
E tu che ci fai qui? Vattene, fammi scendere!
Scendo, perdo l’equilibrio. Buio.
Apro gli occhi e rivedo il mio suv, stavo guidando io. Sono ferita ma non è niente di grave, è solo un graffio un po’ più profondo del normale. Del resto è colpa mia: la cintura di sicurezza non è un optional. La macchina è a posto, credo: non sarà mica l’urto contro un muretto a distruggere una macchina così grande. Si avvicina una piccola folla spaventata.
Sì, sono vigile, non preoccupatevi. La ferita non è grave, so quel che dico. Sono la dottoressa Vicari, lavoro al Policlinico. Davvero, non ho bisogno di nulla. Sì, so che giorno è oggi. Sì, vi ho già detto come mi chiamo. Sono la dottoressa Vicari, Elettra Vicari.
Elettra è un nome inconsueto che mi ha creato non pochi problemi a scuola, io però l’ho sempre portato con orgoglio perché l’hai scelto tu. Hai sempre desiderato una bambina, speravi diventasse una classicista come te. Molti avevano eccepito che non fosse un buon auspicio chiamarmi come l’eroina di una tragedia, ma tu avevi risposto che la scelta spettava a te, a te soltanto. Avevano ragione, in nomen est omen, e nel mio nome porto il destino di amarti e desiderarti per tutta la vita.
Il tempo di rassicurare i presenti e corro in ospedale: a me basteranno degli steril strip per suturare la ferita, ma chi mi aspetta per il bypass ha decisamente più fretta.
Quel taglio sulla mia fronte ti ha fatto uscire e la mia mente ha occhi solo per te, sei tu il paziente a cui accenno un sorriso mentre gli calo la mascherina sul viso.
Quanti capelli che hai, non si riesce a contarli. Lasciami guardare se di tanti capelli ci si può fidare.
Sei ancora stupendo, nudo. Hai un fisico asciutto e appena scolpito, la carnagione olivastra ti rende attraente, un fascino quasi arabo se non fosse per gli occhi verdi, anzi, cervone. Ti stanno aprendo il torace, sento l’odore di carne bruciata che mi entra nelle narici. Ti stanno sacrificando a chissà quale dio, magari lo stesso che ti ha fatto sbucare dalla mia autoradio. Vorrei leccare quella pelle lacerata, sentire il sapore ferroso del tuo sangue sulla mia lingua e respirare il profumo della tua pelle bruciata dal sole mentre ti strappo il cuore e lo ingoio.
Una vertigine mi costringe a poggiare le mani sul tavolo operatorio. Pensano sia un trauma cranico, invece è il piacere a scuotermi.
Le ore passano ma tu resti immobile al centro della mia mente, ti vedo ma non ci sei. Torni senza essere tornato e io non mi rassegno, ho imparato a far dormire tutti ma non me, il mio corpo e la mia anima non conoscono riposo da quella mattina in cui mi hanno detto che non saresti mai tornato. Sono morta con te a quindici anni e ho vissuto da allora con il solo obiettivo di rivedere i tuoi resti per poter finalmente dire al mio cervello in ipossia che tu non tornerai più. Rivivo costantemente la stessa scena, con mamma che mi tiene stretta dalle spalle mentre urlo che voglio vederti e la cassa chiusa che mi strappa dagli occhi ogni speranza; da allora cerco il solito palliativo e ti raggiungo dove tu continui a esistere. Via Crispi, cimitero di Bari. Attraverso silenziosa le strade di quella città dei morti, l’odore acre dei fiori marci mi dà la nausea. Arrivo davanti alla tua lapide sporca e consumata dagli anni. C’è solo il tuo nome e il tuo cognome, Alberto Vicari. Il tuo nome, il tuo cognome e una fotografia in ceramica. Dio mio, quanto sei bello!
Bacio la foto e sento ancora le tue labbra appena carnose, il viso perfettamente rasato e profumato con arte.
Mi dicevi che ero una res nullius, una cosa abbandonata che diventa di tutti perché ha smesso di appartenere a qualcuno, ma dal primo istante mi hai marchiata come tua res. Mi tieni inchiodata a te e io sono stata di tanti altri dopo di te, ma a ciascuno di loro ho dato solo i tuoi scarti, sei sempre stato solo tu a possedermi. Sono e resto una tua res, d’altronde le coincidenze non esistono e tu hai disintegrato lo spazio che ci divide per mettermi alla prova: domani la Legge mi consentirà di traslare il tuo corpo, io potrò toccarti di nuovo e tu volevi comprendere se fossi ancora interessato a te.
Sciocco vecchio egoista, mio meraviglioso amore.
Aprire una tomba è un atto amministrativo di enorme delicatezza, ci sono decine di fogli da firmare e un rituale che il popolino pensa sia creato per la solennità del momento. In realtà, aprire una bara fa schifo ed espone i presenti a effluvi e immagini poco piacevoli. I miei colleghi dell’obitorio hanno tentato in ogni modo di dissuardermi e delegare l’operazione a qualche anonimo impiegato di pompe funebri, ma io sono un medico e sono tua figlia e voglio rivederti ancora e ancora. Mi sono perfino messa in ferie per il nostro appuntamento, mi sono tirata a lucido e i becchini hanno pure fatto dell’ironia, pensando che mi aspettasse chissà chi per portarmi a pranzo fuori. Sono qui per te e sono bellissima, voglio che tutti lo sappiano. Rimuovono la lastra di marmo, picconano la striscia di mattoni e si scostano, nel timore di prendersi in piena faccia le ultime tracce della tua putrefazione. L’odore di cemento asciutto li lascia perplessi, si scambiano uno sguardo colmo di perplessità. Rimuovono la barriera che ho visto tirar su in preda alla disperazione, rivedo la tua cassa di legno ricoperta di polvere ma priva di qualsiasi onta, nemmeno una macchia ha offeso la tua memoria.
Dottoressa, possiamo aprire? Faccio un cenno con la testa ma vorrei strappargli gli strumenti dalle mani e spalancare la porta che ti tiene nascosto alla mia vista. Ho pensato ogni giorno a questo momento, a come ti avrei ritrovato, non avrei mai immaginato di aprire uno scrigno privo del tuo tesoro.
Il tuo cadavere non c’è e io sto per impazzire. Detesto la disorganizzazione e gli imprevisti, sono furibonda. Urlo che è impossibile, che li porto tutti in tribunale, che ho tempo e soldi sufficienti a far passare un guaio a tutti ma vorrei gettarmi per terra e dire: aiutatemi, sono sola e devo rivederlo.
Torno a casa, sono annientata: non puoi essere sparito nel nulla.
Entro in camera da letto, i mobili hanno lo stesso odore di mia madre. Sono circondata dal suo passato ma lei non è qui a consolarmi e darmi delle risposte. Abbraccio il suo cuscino e verso tutte le lacrime che ho in corpo; mentre sono stretta a quel feticcio umido, mi viene in mente il giorno in cui mia madre è morta e le sue ultime parole: l’ho fatto per te.
Quel ricordo mi schiaffeggia.
Inizio a mettere tutto a soqquadro, qui dentro ho tutti gli oggetti di mamma. Trovo finalmente quel cartone malconcio, sopra mamma ha scritto solo ALBERTO AMORE MIO. Lo apro con foga.
Dentro c’è tutto: gli accordi di divorzio, le minacce di denunce e i costanti aggiornamenti che si scambiavano. Decine di lettere, foto, racconti della mia vita che mi sono stati strappati per regalarli a te. Lei ti amava e tu lo sapevi, l’hai tenuta nella tua rete per non perdere né me, né la tua fottuta dignità.
Se ripenso alla messinscena, a quel fottuto funerale, allo strazio di ogni singolo istante mi sembra di impazzire.
Maledetto, maledettissimo vecchio. Maledetto amore mio.
Ho dato fondo a tutte le mie conoscenze e riscosso qualche credito in giro: a qualcuno ho salvato la vita, loro devono salvare la mia.
Dopo qualche giorno ho ricevuto una busta gialla imbottita con dentro tutte le risposte: ti sei risposato subito dopo il divorzio, insegni in un liceo classico a pochi chilometri da qui. Ti pensavo al di là del mare e invece eri a venti minuti di auto.
Hai una moglie e quattro figli, tutti maschi. Non sei riuscito ad avere un’altra femmina.Hai una moglie.
Tua moglie non sono io.
Non sei morto, non sei sparito nel nulla. Ti sei risposato, ti sei rifatto una vita.
Hai tutto ciò che volevi, ne sono certa. Hai tutto con una moglie, tua moglie, e con dei figli, i tuoi figli. Di me, neanche una traccia.
Tra le foto e il report degno della Stasi, un biglietto vergato a mano da chi ha risposto a tutte le mie domande: Elettra, chiuda col passato. Lo straccio in mille pezzi e lo ingoio, ho fame di giustizia e verità e non ho tempo per le stronzate: devo rivederti e lo farò.
Mi metto in auto, so dove insegni e ti guarderò dritto negli occhi. Ti schiaffeggerò e poi ti tirerò a me, ti bacerò e ti chiederò di fare l’amore come tu mi hai insegnato.
Mi fermo nel cortile della scuola, la tua classe è al piano terra, riesco facilmente a vederti. Stai spiegando Orazio e il suo invito ad amare senza inibizioni. Ad amare come io ti amo da sempre, a desiderare come io ti desidero.
Sei invecchiato ma resti sempre bellissimo, e i capelli brizzolati hanno solo accresciuto la tua bellezza. Chissà quante donne avrai avuto. Le troverò e le ucciderò. Devi essere mio, mio e basta. Il nostro amore, il mio amore, per te è stato solo un peccato dal quale ti sei redento semplicemente voltando pagina. Io no, io sono rimasta colpevole e ora devo pagare la mia ὕβϱις, la tracotanza che muove tutte le tragedie classiche.
Elettra muore alla fine? Euripide chiude la storia sul più bello, ma che importa?
Mi volevi e mi hai avuto, mi hai gettata e hai ricominciato. Vorrei strapparmi gli occhi come Edipo pur di non vedere più la crudeltà del mio destino, ma ho ancora un briciolo di coraggio e lo userò per me, per noi.
Maledetto vecchio, tu hai una vita mentre io ho passato la mia a cercare di non morire senza di te.
Maledetto vecchio, sei il mio litopedio, un feto calcificato che mi è rimasto dentro e mi ha impedito di mettere al mondo qualsiasi vita, perfino la mia. Devo asportarti per sopravvivere. Sempre che io voglia vivere.
I miei muscoli si sono contratti. Non ho aspettato che uscissi da scuola, sono salita in macchina e sono andata al mare.
Intorno a me un paesaggio irreale. In pieno giorno si è fatta notte, il sole è esploso, dando vita a un tappeto di stelle già pronte a cadere per fare innamorare qualcuno come è successo a noi, una vita fa. A me, perché tu hai una moglie e quattro figli e io ho solo il tuo ricordo e il bagliore di quelle scie luminose.
La spiaggia meravigliosamente solitaria di Torre Quetta mi accoglie, l’ha fatto sempre quando il dolore era insopportabile. È qui che questa storia deve finire.
Guardo l’orizzonte per cercarti, come ho fatto milioni di volte in questi trent’anni: pensavo fossi lì, nella terra che nasce dove il cielo e il mare si baciano. Invece sei qui a pochi passi da me, maledetto vecchio.
Grido e sento la voce fuoriuscire dal mio ventre, dal mio passato. Tiro calci a vuoto e le pietre schizzano via, terrorizzate da una furia ignota anche a me stessa.
Grido il tuo nome e ti maledico, e maledico la mia ostinazione che mi ha costretta a rimanere ad aspettarti.
Passo dopo passo mi avvicino al mare, mi siedo sul molo e piango, pensando al sogno che tu, maledetto vecchio, hai deciso di non vivere con me. Il mare mi osserva e tenta di consolarmi, mentre si fa strada tra le pietre.
Frigge, il mare, quando incontra i ciottoli: cerca di aggrapparsi a loro nel vano tentativo di conquistare anche un solo centimetro nella sua eterna guerra di trincea con la costa. Frigge di vergogna, ogni volta che le pietre lo illudono di avercela fatta, lasciandolo scivolare nel suo letto immutabile. Il mare frigge come le bustine di idrolitina che usavamo per bere l’acqua frizzante, tanti anni fa: le bottiglie sfrigolavano sotto l’onda d’urto della chimica, rendendoci un’acqua salata che tutti fingevamo di amare. Frigge il mare di dolore e di vergogna e io friggo con lui, rea di averti dato un tempo che non tornerà.
Non ci penso più su.
Mi spoglio ed entro in acqua, lasciandomi sbilanciare dal fondale sdrucciolevole. Faccio un passo alla volta, poi mi do lo slancio e mi tuffo. Le mie mani fendono l’acqua e ti tocco, ti sento. Sento il tuo corpo abbronzato e forte, il battito del tuo cuore, la tua risata aperta, la stretta sicura delle tue mani grandi. Ti vedo e una vertigine mi confonde ma non ho paura. Non ho più paura di niente, nemmeno il sale in bocca mi fa paura. è solo idrolitina, non ho paura. Un ultimo sforzo e ce la farò.
Esco dall’acqua e abbandono il mio corpo gelido al caldo abbraccio delle pietre.
Il mare mi parla e alla sua risacca affido il mio parto.
Respiro.
Il mondo continua a esserci anche senza di te, e ora mi appartiene.
Finalmente esisto io, e tu sei in fondo al mare.
Illustrazione a cura di Carmela Linda Leuzzi
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Bianca Favale, barese di quarantadue anni, bancaria, innamorata persa di mia moglie e delle parole. Leggo e scrivo per dare un senso alla quotidianità e vivere pensieri e desideri senza finire in galera. Ho pubblicato un racconto, Esodo, sulla rivista Risme nel 2019 e un romanzo, Il Posto dei Santi (ed. Scatole parlanti), nel 2020. Quest’anno sono Autrice Aggiunta di Spazinclusi, che ha pubblicato nel 2021 il mio racconto dal titolo Glukupikron.Ho scritto questo racconto ascoltando il Notturno n. 20 in Do diesis minore di Chopin. Giudicate di me teneramente.
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