Mi sono trasferito in questa casa modesta, umida e vecchia un mese fa.
Sono nuovo a Roma e stabilendomi qui volevo due cose: vivere lontano da una periferia confezionata ed esportabile ovunque e poter evitare di salire per sempre su un’automobile dal lato del guidatore. Volevo stare lontano dai quartieri dormitorio, così simili a quelli di Napoli che mi stavo lasciando alle spalle insieme alla mia vecchia vita.
Ho trovato lei, con le sue macchie di muffa agli angoli del soffitto, l’arredamento polveroso di un’altra era e la sinfonia di scricchiolii notturni. Una casa da film dell’orrore, si direbbe.
Quando ho raccontato ai miei nuovi colleghi la sistemazione trovata, hanno avuto le reazioni più varie: chi si è stupito della convenienza, vista la posizione centrale e il prezzo modesto; chi si è sconvolto per la difficoltà di parcheggio; chi si è mostrato invidioso per il carattere storico di Trastevere e chi prima di esprimersi mi ha domandato dettagli sulla vista che se ne gode.
Nessuna vista, ho risposto.
Scusa, Valerio, ma non hai finestre?, hanno incalzato.
Sì, ne ho, ma non c’è vista.
Qualcuno ha ipotizzato fosse questo il motivo della convenienza; altri hanno osservato che senza parcheggio e senza vista, tanto valeva sceglierne un’altra. Chi sospirava comunque, pensando a Trastevere, e chi taceva.
Ho mentito. Quando mi affaccio dalla cucina – la stanza dove vivo di più – vedo una fila di finestre, tutte uguali, avvolte in barre di ferro incrociate. Al di là dei miei vetri, a cinquanta metri di distanza, c’è un muro liscio, interrotto da buchi regolari protetti da grate spesse, scure e a tratti arrugginite. Non hanno tende a nascondere la luce.
Quella finestra è stata per un sacco di tempo la mia preferita. Negli ultimi tre anni, da quando sono intrappolato dietro queste cazzo di sbarre, è stata spenta. Ora, ogni tanto, una luce gialla si accende. Vedo finestre migliori su cui posare sguardo e attenzione, specialmente se si vuole un po’ di divertimento extra, non so se mi spiego. Mi piace sbirciare oltre i loro vetri, immaginare cosa possa esserci dietro e indovinare dove corre tutta la gente mi diverte. Cosa me ne fregherà poi. Tanto qua dentro ci resto lo stesso, non è che farmi i cazzi degli altri mi aiuterà a venirne fuori prima. Anzi, me li fossi fatti a suo tempo, i cazzi miei, sarebbe stato meglio. I tre scalini me li sarei risparmiati volentieri, non mi serve la patente da romano: altro che sette generazioni, i Proietti l’hanno fondata Roma!
Ma adesso me ne sto qui e non posso fare a meno di guardare quelle finestre. Le guardo quando le pareti di questa stanza di merda, dove stiamo buttati in due, non mi bastano più. Per cui le guardo spesso. Per molte ore al giorno restano immobili. Solo la mattina presto si animano, o la sera tardi, quando la luce artificale accende ombre fugaci.
Sono state loro a farmi propendere per questa casa. L’idea di vedermi davanti le file di grate ogni giorno mi ha dato un senso di sollievo. Era da tanto tempo che non mi sentivo così. Mi rendo conto di fissarle ogni volta che posso, nei rari momenti in cui sono libero dal lavoro e posso stare a casa, da solo, in pace. Sembra che in azienda non possano mai fare a meno di me: mi tengono lì dieci ore al giorno, anche dodici nei periodi di picco, a ridosso delle chiusure di bilancio o degli adempimenti amministrativi inderogabili. Non gli dico mai di no perché quando scorro le mie griglie, piene di numeri, fino a far quadrare ogni conto, mi sento in pace, utile, potente, quasi vivo.
All’inizio ho esplorato un po’ anche i dintorni del mio nuovo quartiere. Qui ce n’è tanta di storia, con le chiese e i luoghi caratteristici da visitare di giorno che di notte diventano punti di ritrovo per gente di ogni età. Ma già il mio tempo libero è poco, non voglio tradire il motivo per cui ho scelto questa sistemazione. Me la voglio godere, far crescere quel senso di libertà che monta quando guardo dall’altra parte del vuoto, verso le loro finestre ingabbiate.
Tra un taglio di qua e uno di là mi sono rimasti nove anni. Omicidio volontario, hanno detto. Non è stato volontario manco pe’ il cazzo, gli avrei voluto dire, ma la stretta al braccio del mio avvocato mi ha fatto capire che non era il caso. Gliel’avrei voluto spezzare in due, quel braccio, ma l’aggravante me la sono voluta risparmiare. Che stronza! Solo a uno sfigato come me poteva capitare un giudice donna. Non aspettava altro che dare addosso a me e a tutti gli uomini che non se la sono scopata. Sarà contenta adesso che m’ha spedito a Regina Coeli.
La mia unica colpa è di non essermi tirato indietro: io lo sapevo che Luca stava facendo una cazzata, ma quel ragazzino l’ho visto crescere e non l’avrei lasciato da solo a fottersi la vita.
Quando mi ha proposto il piano filava tutto liscio, era una roba perfetta, diceva. Ma lui che ne sapeva? Fino a quel momento la madre e il padre erano riusciti a tenerlo fuori dai giri del quartiere: la sua era una brava famiglia, non come la mia, pure se stavamo sullo stesso pianerottolo. Poi il padre un giorno è venuto giù, afflosciandosi sul pavimento del bar in cui lavorava, e tutto è cambiato: s’è messo in testa d’essere diventato lui il capo famiglia e l’unico modo per lasciare la situazione come stava era scegliere la strada più corta. Ma lui sapeva solo da dove partiva, quella strada, mentre io conosco pure i bivi, e allora glieli ho raccontati tutti, uno per uno, ma era sordo, cieco, era come impazzito. Mi stava per mandare affanculo, mi ha detto che di gente pronta a prendere il mio posto ce n’era tanta in giro. E allora va bene, gli ho detto, la rapiniamo insieme la gioielleria. Lui mi ha sorriso e si è rilassato.
La sera è il momento che preferisco: rientro dal lavoro, con qualcosa da mangiare presa lungo la strada e mi preparo. Apro la finestra, apparecchio la tavola e mentre mangio guardo le grate. È la mia televisione, con un canale solo, l’unico su cui mi voglia sintonizzare. Ho accettato presto il compromesso di lasciare entrare il chiasso della movida, mi è sembrato un giusto prezzo da pagare per il lusso di godermi quella vista. All’inizio i colleghi mi invitavano a uscire, ma a forza di declinare hanno smesso di chiedermelo. Anche Anna ha lasciato cadere ogni tentivo, credo che abbia messo in giro la voce che sono gay, ma non me ne importa niente. Pago anche questo prezzo se mi ridà la libertà.
A volte mi capita di prendermi un giorno di ferie o qualche ora di permesso per rimanere a guardarle. Ultimamente ne ho voglia sempre più spesso: ho deciso che le prossime vacanze estive le passo qua. Non c’è nessun altro posto in cui vorrei essere. È la prima volta che mi sento così da un milione di anni, da prima dell’università, da prima di Laura, da prima dell’incidente.
Sua madre mi ha pregato di fargli cambiare idea, le sorelle me l’hanno chiesto in ginocchio: nessun discorso l’ha smosso. Lui aveva la capatosta come suo padre, peccato che la stava usando male. L’unica promessa che ho fatto alle sue donne è stata che ci avrei pensato io a lui. In un certo senso sono stato di parola: Luca sta fuori e io sto dentro. Addossarmi la sua colpa è stato facile, non ho dovuto nemmeno faticare per convincerli che ero stato io a tirarcelo dentro: erano prontissimi a puntare il dito contro di me. Per fortuna la rapina era il suo primo reato e l’hanno graziato. Per un recidivo come me non c’è stata pietà. Ma mi va bene così, ha avuto senso, perchè adesso, quando viene a trovarmi, gli vedo la paura negli occhi: sta rigando dritto, l’hanno assunto nello stesso bar dove lavorava suo padre, e io glielo vorrei dire che non c’era bisogno di alzare questo bordello per far campare la famiglia, ma so come la prenderebbe. Quando non abbiamo più un cazzo da dirci, pure se sta zitto, lo sento che mi sta chiedendo scusa. Invece dovrebbe chiedere scusa alla moglie del gioielliere. Luca urlava, gli tremavano le mani per quanto le stava stringendo intorno alla pistola: se non avesse sparato lui per primo, pure per sbaglio, lo avrebbe fatto quell’altro. Li ho anticipati: lui è morto, io mi sono fottuto la vita, Luca sta fuori. Si vede che era così che doveva andare.
Ero uscito a festeggiare: avevo passato il test di ingresso per Economia e sarei stato il primo della mia famiglia a laurearmi. Mia madre avrebbe voluto che rimanessi a casa, quella sera, dopo la cena in famiglia, ma non mi volevo accontentare: c’erano gli amici, Laura, ne volevo stringere ancora tante di mani, sentire le pacche sulle spalle, godermi quei giorni di libertà prima di essere sepolto dai libri. Non ero mai stato un tipo da superalcolici e quella sera non feci eccezione. Mi bastava vedere Laura che bicchiere dopo bicchiere si accendeva di orgoglio e desiderio. Facemmo l’amore in macchina, nascosti meglio che potevamo due traverse dopo casa sua, in un vicolo che credevamo buio ma che solo dopo molti anni scoprii essere parecchio abitato. Non ci beccò nessuno e riuscii addirittura a riaccompagnarla a casa in tempo per il suo coprifuoco. Fu fortunata, o magari se lei fosse stata ancora con me non sarebbe successo.
Misi a palla l’ultimo CD, un suo regalo: era un mix di Nirvana e Pearl Jam che me l’aveva fatta amare ancora di più. Abitavamo a venti chilometri di distanza – Laura non era di Napoli – ma la distanza non mi pesava: la strada del ritorno mi permetteva di ripassare ogni suo sorriso, i suoi gesti, il suo tocco… tornavo sempre a casa più eccitato di prima. Approfittai del semaforo rosso per accendere una sigaretta e fu allora che si accostò. Abbassando anche il suo finestrino, mi chiese se ne avessi una anche per lui. Gli risposi che purtroppo era l’ultima ed ero sincero. Appena scattò il verde iniziò a fare il coglione: mi si affiancò più volte, approfittando della corsia opposta libera, senza mai superarmi. A ogni macchina che ci veniva incontro mi tornava dietro, per poi accelerare di nuovo. Rideva. Lo fece, due, tre volte e lo lasciai fare senza reagire, ma poi mi stancai: iniziai ad accelerare anch’io e diventammo sempre più veloci. Non vide i fari da lontano, non fece in tempo a rientrare e io non frenai per permettergli di superarmi una buona volta. Sfilai via per qualche metro, finché non accostai, uscendo dall’auto per guardare indietro. Lui morì sul colpo, l’altro se la cavò con poco. Io ne uscii indenne. Dissero che era lui il coglione, che aveva messo in pericolo anche la mia vita: era un cattivo elemento, aveva dei precedenti penali mentre io ero un bravo ragazzo, pulito e con una vita brillante davanti. Mi tuffai nei libri e soddisfai le aspettative. Diventai il dott. Russo: il brillante laureato in Economia che poteva aprirsi qualsiasi porta. I sorrisi di Laura restarono solo nella mia testa.
Luca oggi mi ha detto di aver chiamato suo figlio Mario, come me. Per fortuna era finito il tempo che avevamo a disposizione, perché non sapevo che rispondere. Quel ragazzo ha la coscienza più pesante della mia. L’ho scontata prima di arrivare qui, la mia colpa, non me ne frega un cazzo di che dicono i giudici, perché loro non lo sanno che c’ero io quando il padre di Luca si è accasciato su quel pavimento e che l’infarto è stato colpa mia, delle continue richieste di pizzo che gli facevo ogni giorno, da mesi, sempre più grandi, sempre meno soddisfabili.
Ormai è estate e passo sempre più tempo a fumare alla finestra, appoggiato alle grate piene di ruggine. Mi è preso a urlare, ogni tanto, quando le guardie sono lontane. Che cazzo mi urlo non lo so nemmeno io. Non sono proprio parole, non ancora almeno, ma buttare fuori mi fa sentire bene. Vanno via un sacco di O e di A, le mando via finché non mi fa male la gola. Prima il mio compagno di cella si incazzava, adesso mi fa compagnia. Dice che gli serve, che è quella la sua vera ora d’aria. Ogni tanto, mentre sto sdraiato al letto, lo sento fare pure dalle altre celle, e non so se essere felice o pensare che qui dentro stiamo diventando tutti più animali.
Ho consumato qui dentro metà delle mie ferie d’agosto e sto seriamente pensando di non tornare a lavoro mai più. Le tende sono sempre aperte, ormai fisso le grate di continuo, non mi pare di aver dormito negli ultimi giorni. La mia finestra è spalancata, fa passare quel poco d’aria che circola, impregnata dell’umidità del Tevere. Mi sembra di riconoscere delle figure familiari, vedo braccia che si affacciano, sigarette che si consumano, volti indistinti. Da un po’ di tempo dalle grate sento uscire dei suoni, ma non riesco a distinguere le parole. Tre giorni fa si è alzato il vento, tirava verso di me e mi è sembrato di sentire il mio nome. Forse mi stanno chiamando, forse sanno chi sono. Oggi ho iniziato a rispondergli.
Copertina di Doctor Tale & Mr Shot
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