Non si era mai sentita così stremata. Il dolore le lacera la schiena, quasi che le ossa venissero strappate dal corpo. E là sotto, le brucia tutto. Si sente bagnata, appiccicosa, deve sanguinare ancora forte: avrebbe bisogno di lavarsi e cambiarsi di nuovo, ma non ha tempo, deve finire di rassettare. È un giorno come un altro, non deve sognarsi di aver meritato riposo o apprezzamenti.
Spazza e riordina sforzandosi di fare meno rumore possibile. Nella cesta, la piccola comincia a muoversi. Presto aprirà gli occhi e sarà ora di darle il seno, ma c’è la cena da mettere sul fuoco, prima.
Ha preparato lo spezzatino di pollo piccante come le ha insegnato la madre, da bambina era il suo piatto preferito; è convinta di essere diventata brava a cucinarlo, anche se suo marito non sembra mai soddisfatto. È di lei che non è soddisfatto, lo sa bene. A volte si domanda perché l’abbia scelta, non le ha mai detto una parola gentile.
«Non sai fare nulla, nemmeno il tuo dovere di femmina.»
Quante volte lo ha ripetuto? La prima volta erano sposati da pochi giorni: con gli occhi bassi, l’aveva implorato di rinunciare ai diritti di letto per una notte o due. Provava ancora troppo dolore tra le cosce, perdeva gocce di sangue ogni volta che faceva pipì. Aveva risposto con quella frase e un ceffone, e lei aveva ceduto, sdraiandosi a sua disposizione. Gli aveva creduto: doveva essere colpa sua, c’era qualcosa di sbagliato in lei, se compiere il suo dovere di sposa la faceva soffrire in quel modo.
Fu la madre a spiegarle qualche giorno più tardi, durante la prima visita dei genitori agli sposi, che era una questione d’età, di corporatura: con i suoi tredici anni e quei fianchi smilzi, anche il suo foro di donna doveva essere stretto, immaturo. Era normale che sentisse dolore, come una ferita.
«Passerà con il tempo, vedrai: crescerai, il tuo corpo s’irrobustirà, ti abituerai. Non soffrirai più, o non così tanto.» Anche per lei era stato così, l’aveva rassicurata con una carezza sulla guancia. Poi aveva scosso la testa e aveva concluso: «Dai, Sarita, finiamo di preparare il pranzo.» Sarita: il nome con cui quasi nessuno l’ha mai chiamata, tranne sua madre.
Proprio dalla madre era corsa a cercare sostegno dopo aver saputo di essere stata promessa, di dover lasciare l’infanzia per farsi sposa. Sua madre aveva abbassato gli occhi in silenzio. Si era giustificata solo più tardi, al momento di darle la buonanotte: «Lo so che hai paura, sei così giovane… ma è il momento. Tuo padre ha deciso. Dice che è un uomo come si deve, colui a cui t’ha concessa, ha una posizione e una casa solide. Non potresti sperare meglio. Non sono io a decidere, figlia mia. Posso solo pregare che sarà un buon marito.»
No, non era sua madre a decidere, non lo è mai stata. Come lei non lo sarà mai.
«Non posso più mantenerti, devi compiere il destino per cui sei venuta al mondo: sposare un uomo, obbedirgli, dargli dei figli, occuparti della casa. È così che deve essere, è la volontà di Dio.»
Furono le ultime parole a lei rivolte dal padre prima che ne lasciasse la casa, la risposta al suo disperato tentativo di rifiutare le nozze, di restare bambina, di continuare a frequentare la scuola come i suoi fratelli. L’unica volta in vita sua in cui aveva tentato di opporsi a un suo ordine. Non le aveva più parlato, fino alla benedizione durante il rito nuziale.
Ubbidire, al padre prima, al marito poi: di questo è fatta la sua vita.
Un gemito della piccola la richiama al presente. Tra poco si sveglierà e inizierà a piangere. Quando piange sembra un gattino che miagola. Il suo gattino affamato. La ragazza scoperchia leggermente la pentola perché lo spezzatino non debordi mentre sarà occupata ad allattare.
Solleva la bambina dalla culla insieme alla copertina che l’avvolge, gliela stringe attorno perché non prenda freddo e se la porta al petto. Non ha quasi il tempo di sedersi e scoprire il seno che la minuscola bocca l’ha già afferrato. Succhia con forza e le fa male, ma è un dolore che le trascina sul volto un sorriso: ha forza di volontà, quell’esserino. Non un gattino, ma un cucciolo di tigre.
Quando la guarda si sente travolta da sensazioni che non ha mai provato prima. Quasi la spaventano: sente che potrebbe fare di tutto per lei. Vorrebbe saperla sicura e felice, null’altro le importa. Piccola, bambina… non ha nemmeno un nome ancora.
«Ci penserò», ha detto suo marito.
Non c’è fretta, non è importante: è femmina. Anche la levatrice e la sua aiutante sembravano deluse annunciandoglielo, il loro è una femmina era lordo di rammarico. Hanno voluto consolarla: «Questa volta ci sei riuscita, hai messo al mondo una creatura viva e sana. La prossima volta sarà un maschio, vedrai.»
Sì, c’è riuscita. Dopo anni di fallimenti aveva quasi perso la speranza. Annegata nello scoramento e nel rimprovero sul volto del marito ogni volta che un bambino le scivolava via dal ventre in grumi di sangue e dolore a spasmi. Sembrava che i figli non attecchissero dentro di lei, incapaci di mettere radici abbastanza forti da reggerli fino alla nascita. Si è sentita così in colpa, così inutile. Ma ora c’è riuscita. Ha dato la vita.
Accarezza la peluria morbida sul capo delicato, mentre sposta la bambina da un seno all’altro. Sente una lacrima scivolare lungo la guancia e l’asciuga stupita: erano anni che non piangeva. Nemmeno sotto i colpi di suo marito. Nemmeno quando le scivolavano fuori i figli.
È una lacrima versata per il destino che attende sua figlia. Un destino scritto da altri, senza poter decidere o rifiutare niente. Destino di femmina.
«Sarita — se avessi il diritto di decidere — ti chiamerei così, con il nome che mi dava mia madre. Significa ciò che scorre.»
Le sarebbe piaciuto scorrere come l’acqua limpida del fiume, ma è rimasta intrappolata nella vita che le hanno imposto. Il suo destino. Quello che toccherà anche alla piccola. Vorrebbe proteggerla, salvarla, lo vorrebbe più di quanto abbia mai voluto nulla in vita sua, persino di continuare la scuola. Ma cosa potrebbe mai fare?
La neonata ha smesso di succhiare, solleva verso la madre un occhietto pesante di stanchezza e di latte, la bocca ancora stretta intorno al capezzolo.
Sarita la guarda sprofondare nel sonno contro il suo seno, perfetta e indifesa, carne della sua carne.
Per la prima volta in vita sua, sente di avere una scelta tra le mani. Mani che avvolgono la coperta intorno alla bambina fino a ricoprirla tutta, anche il volto, e stringono. Stringono. Stringono ancora, senza ripensamenti, senza esitazioni, senza un battito delle ciglia. Smettono solo quando il corpicino è inerte.
Abbassa la coperta e ammira il volto sereno di sua figlia. Sembra che dorma. Nulla ne turba più il riposo, nemmeno il respiro.
La culla teneramente e sorride: ora è libera, la sua anima scorre. Ne è sicura. Deve essere così.
Non sa cosa succederà adesso. Cosa sarà di lei quando scopriranno ciò che ha fatto? La puniranno? Suo marito la scaccerà? La farà rinchiudere come pazza? O forse non farà nulla, non s’arrabbierà più di tanto, non è come se gli avesse ucciso un figlio maschio.
A Sarita non importa, si sente stremata ma serena: ha compiuto l’unica scelta che le apparteneva. Sua figlia non vivrà una vita di femmina.
Illustrazione originale di Amelia Agnusdei
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Marezia Ori, modenese trapiantata in Provenza, si occupa in freelance di creazione di contenuti, correzione testi, ghost-writing e traduzione. Nel tempo libero… più o meno uguale. Un paio di suoi racconti hanno vinto concorsi, altri sono apparsi su siti e riviste come Blam!, Piccoligrandisognatori.com, Piegàmi, DistruttoriDiTerre, Spazinclusi, di cui sarà anche, per un anno,autrice aggiunta.