Fame

Fame

Lui parla. Infila una parola dietro l’altra ma io non lo ascolto neanche. Vedo le sue labbra muoversi, si incontrano per chiudersi e si allontanano, scocciate, per aprirsi di nuovo. Veloci, senza sosta, implacabili. E io mi sento stupida.
In questa valanga di sillabe, parole, frasi, concetti, mi chiedo lui dove sia. E dove sia io. Ci separa il tavolino di un bar, piccolo e tondo, coperto da una tovaglia bianca macchiata di caffè in più punti. Lo osservo, avrà un diametro di appena trenta incolmabili centimetri. Se unissi tutte quelle macchie chissà cosa ne verrebbe fuori.
Adesso accompagna i suoni con gesti precisi, sempre uguali, come a voler sottolineare gli importanti concetti espressi. Chissà quali saranno. Lo guardo, sorrido e aggrotto la fronte. Appoggio il mento sulla mano destra, sorretta a sua volta dal bracciolo della sedia, e annuisco. Spero di aver indovinato la successione.

 

E’ passato un tempo abbastanza lungo, ora posso guardarmi intorno. Nel tavolo accanto al nostro, al sole, c’è una giovane coppia. Avranno vent’anni, sono seduti vicinissimi. Hanno ordinato due cannoli, la cosa più famosa che producono in questo bar della Roma bene, ma non li hanno nemmeno toccati. Tengono in mano un telefono, ridono guardando le foto scattate poco prima. Lei appoggia la testa sulla spalla del ragazzo, lui si gira a baciarle i capelli. Chiudo gli occhi un istante e mi volto dall’altra parte.
Ci sono due signori distinti, seduti in silenzio davanti alle loro tazze, protetti dall’ombra. Lei sbocconcella la pasticceria da tè che le hanno portato, pulendosi a più riprese le labbra invase dalle briciole. Lui si rigira tra le dita la lingua di gatto, sembra quasi non la veda, poi si ferma, apre la bocca e il biscotto sparisce.

 

“Cosa prendete?” Ci chiede il cameriere. Non ho nemmeno elaborato il pensiero di cosa voglio che lui risponde sicuro: “Due caffè americani e due pancakes”. Il cameriere prende nota e se ne va. “Va bene, no?” Mi chiede lui. Accenno un sorriso. Gli basta per riprendere a parlare. Mi concentro di nuovo sulla bocca, sottile e mobile, che prima si arriccia e poi si distende, plastica e flessibile. E’ l’unica cosa di tutto il suo volto a non essere ferma. Le guance, gli occhi, il naso, la fronte, sono totalmente asserviti alle labbra. Giacciono in attesa del loro momento, forse. O magari nemmeno loro le stanno ad ascoltare.

 

Arriva la nostra ordinazione: la tazzina pulita, il cucchiaino lucido come uno specchio, il pancake geometricamente tondo e lucido in modo uniforme. L’ordine perfetto. Mi infastidisce, rivolgo di nuovo lo sguardo ai tavoli accanto. Madre, padre e bimbo piccolo stanno consumando il loro brunch, con fatica e animazione. Il loro spazio è inondato di briciole sparse, non solo sulla tovaglia, ma anche sulle sedie, per terra. Il bambino si sbraccia e urta la tazza del padre, rovesciandola. La macchia di tè si allarga sul bianco della tovaglia, sembra un’enorme goccia, poi mi pare l’Africa. Il bambino, con gli occhi bassi, sembra pentito. Alza lo sguardo e mi fissa, gli sorrido. Lui ricambia per un attimo, poi torna serio.

 

Le parole si fermano e la bocca scompare. Viene interrotta per un momento dal calore del liquido scuro che le scorre dentro. Una sosta breve, sta già riprendendo. Racconta cose, una dopo l’altra, sputa idee, pensieri, aneddoti. Alterno espressioni semiserie ad aperti sorrisi e sguardi interrogativi. Sembra funzionare, lui prosegue sempre più fitto. Fuggo bevendo il caffè, mi diverto a sezionare sadicamente quel pancake tanto curato. Ne recido con lentezza un pezzetto per volta e lo mando giù. Non mi basta. Alzo la mano per chiamare il cameriere. “Ne porta altri due per favore?”
Finisco il mio caffè, la sua bocca è chiusa. Mi osserva per un attimo, lo guardo anch’io, e gli basta per riprendere a raccontare, prima un po’ incerto, poi con maggiore convinzione. Parlando ride, penso sia giusto ridere a mia volta, guardando con aspettativa la porta del bar da cui spero esca presto il mio piatto. Eccolo che arriva, più alto del precedente, ma ugualmente perfetto e lucido. Con la stessa lenta e studiata meticolosità seziono i cerchi dolci e vischiosi. Finisco con gusto anche questi due, ne chiedo altrettanti. Il flusso di parole si interrompe per un tempo più lungo, viene sostituito dal suono di un sospiro che trovo molto più piacevole. Le parole tornano, non si scoraggia. Parla, parla, parla. Il tono di voce mi sembra più basso, vorrà evitare di attirare l’attenzione. A questo ci penso io, ordinando un altro piatto. Ne voglio altri due, sono buoni questi pancakes. Sento il silenzio imbarazzato di lui, dagli altri tavoli ci guardano, mi guardano. Lui tossisce, poi riprende. Ora non parla, chiacchiera, infila battute divertenti nel fiume di parole, cerca di distrarmi.

 

A cadenza regolare alzo lo sguardo dal mio piatto di nuovo pieno, lo fisso senza interesse pescando espressioni casuali. Forse questa volta non indovino la sequenza. Si muove sulla sedia, pare non trovare una posizione comoda. Svuoto il mio piatto, alzo una mano, si riempie di nuovo, sorrido.
Finalmente tace. Mi fissa, scuote la testa e si infila una mano in tasca. Ne esce una banconota da cinquanta euro che si sdraia comoda sul tavolino. Lui la ferma sotto a un bicchiere e mi guarda. Non mi faccio distrarre, sto raccogliendo lo sciroppo sparso sul piatto, è un’operazione delicata.
Forse aggiunge qualcosa, forse quello che sento è solo il rumore della sedia che si allontana dal tavolo, scorrendo sulla ghiaia. Si gira e se ne va.
Lo sciroppo è finito, alzo una mano, chiedo un altro piatto. E un altro caffè.

 

Il racconto è contenuto nell’antologia “La Fine di un amore!” (Montegrappa edizioni, 2016).

Foto originale di Alessia “Stamp” Damiani.

10 pensieri su “Fame

  1. Molto divertente. L’ironia che sorregge tutto il racconto stempera lo sconforto della situazione. E quando leggi una storia che ti piace hai sempre il timore della fine, di solito misera, che troppo spesso arriva, mentre qui no, non è per niente misera anzi è ricca inaspettata ed appagante. Brava.

  2. Brava Ileana. Credo che molte coppie si siano riconosciute, spero che sia anche servito a trovare la consapevolezza a molti rapporti ormai al capolinea. Il punto di vista psicologico che c’è nei tuoi racconti è sempre evidente, continua così.

  3. Suspense sempre presente. Humor spesso affiorante. Curiosità del lettore sempre viva. Situazione dolorosa risolta in maniera poco economica ma molto valida. Mi è piaciuto.
    Ciao, grazie

  4. Grazie anche ad Erika e Nicola! Questo racconto mi sta molto a cuore e sono felice sia piaciuto anche a voi! Spero davvero di continuare così Erika… 🙂

  5. Ben descritto, intenso. Nel momento in cui lui ordina anche per lei ho pensato “ma quando se va questo?” Il finale è stato dunque per me un sollievo. Anche se la protagonista ha trovato un modo, anticipandolo, per non “sprecare tempo.” Modo che condivido con gioia 😉 Mi piace molto per come è scritto. Mi sembra quello con più stile tra tutti i tuoi che ho letto. Bello.

    1. Grazie Francesca! Lo scrissi quasi un anno fa, tutto d’un fiato. E’ un racconto che sento molto mio, per questo forse ci rivedi così tanto stile. Mi fa piacere sentire come ti sia arrivata la sensazione di ingombro che prova anche la protagonista, così come il sollievo finale, mi fa pensare di aver reso bene l’idea che avevo… grazie per aver letto e lasciato una traccia dei tuoi pensieri! :*

  6. Dal titolo mi aspettavo Knut Hamsun e invece mi ritrovo pancake su pancake 🙂
    Mi piace l’idea del tavolino dal “diametro di appena trenta incolmabili centimetri”. E in generale mi piacciono i bar!
    Un racconto sulla fine di un amore insomma, sull’incomunicabilità (mi pare, però, in questo caso, voluta). Credo che questo “Fame” me lo ricorderò.

    1. Intanto ammetto la mia ignoranza: non conoscendo a chi ti riferissi sono andata ad informarmi e ho conosciuto qualcosa di nuovo, che tra l’altro mi ha molto incuriosita!
      Sai che non so quanto sia voluta l’incomunicabilità? E soprattutto da chi… Il tuo è uno spunto su cui rifletterò.
      Il fatto che lo ricorderai, nel bene o nel male, credo sia il più grande complimento che si possa fare a chi scrive. Mi fa pensare di aver fatto qualcosa che abbia un senso. Grazie!!

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