Un racconto di Francesca Addei
«Sono al baretto di viale Giulio Cesare, vieni per favore».
Lancio una veloce occhiata verso la mia amica Elisabetta, che finisce il caffè in un sorso mentre io mi alzo per avviarmi verso la macchina, tirando un sospiro di sollievo.
«Almeno è viva» dico con tono deciso. Lei poggia la tazzina, afferra le chiavi e mi segue.
Lungo tutto il tragitto tengo lo sguardo fuori dal finestrino, mentre il luccicore dell’asfalto umido mi ricorda le innumerevoli e inutili corse fatte per raggiungere mia sorella, sempre nei guai e sempre convinta di non esserlo.
Ma stavolta è diverso. Stavolta la salvo.
Entro nel bar anticipando Elisabetta di qualche passo, ma di mia sorella nessuna traccia.
Setacciamo ogni angolo come cani da tartufo, finché non scorgo il suo riflesso sullo specchio del bagno. È appoggiata al muro, intenta a stendere del fondotinta sulla pelle livida del viso. Le dita le tremano.
Mi tengo al bordo di un lavandino affinché le gambe non cedano davanti all’immagine del suo volto tumefatto, poi con una mano le afferro la spalla e la stringo.
Mi ricordo quando a otto anni si spaccò il sopracciglio sbattendo contro lo spigolo del marciapiede, mamma era dal fornaio e io la persi di vista solo un attimo.
Ricordo ancora lo sguardo deluso di mia madre mentre esce di corsa con le buste in mano dal negozio.
Il sangue scorre meno copioso di quel pomeriggio ma i suoi occhi sono più spaventati di allora.
«Stavolta ha esagerato, eh?», dice senza distogliere lo sguardo dallo specchio.
Cerca in me una conferma che possiede da anni ma che fatica ad accettare. La verità non le basta mai, accumula prove su prove a garanzia di una realtà che si ostina a negare.
«Solo stavolta?» mi lascio sfuggire con rabbia che non riesco a soffocare. Ne abbiamo già parlato. So che non è la modalità giusta, me lo hanno insegnato i tanti litigi fatti insieme negli ultimi anni.
Non è aggredendola che la convincerò ad andarsene, a uscire da quella casa dove ogni parola, gesto, passo, pensiero devono essere misurati. Una casa le cui stanze diventano rifugi effimeri perché non esiste serratura che possa tenere mia sorella al sicuro.
Le afferro la mano per portarla fuori da quel cesso, che puzza di piscio e deodorante scadente.
«Sì, ma prima damose ‘na sistemata» dice Elisabetta, interrompendo un silenzio che mi è parso lungo quanto l’inverno.
Mia sorella ride e dalla luce apparsa nei suoi occhi capisco, ancora una volta, che non riuscirò ad aiutarla. Non le darò ciò di cui ha bisogno, non la convincerò ad andarsene da quella casa.
Mentre lo penso, mi rendo conto che più della mia rabbia, delle raccomandazioni e della meticolosa pianificazione su come cambiare lo stato delle cose, a lei sta a cuore godersi la leggerezza regalata da una riga di eyeliner.
Piano piano, puliamo il nero lasciato dalla matita indossata ieri, ormai sbafata sotto gli occhi come informi sentieri sterrati e cerchiamo di coprire con il trucco i segni delle percosse. Io le tampono il viso con l’acqua fredda, sperando che questo riduca il gonfiore, mentre Elisabetta stratifica fondotinta e correttore.
Ogni tanto, quando eravamo piccole, pettinavo i suoi capelli spessi e neri, raccogliendoli in una voluminosa coda alta. Dapprima prendevo quelli sopra le orecchie, poi quelli all’altezza della nuca, portandoli in cima alla testa e bloccandoli con due giri di elastico. Mi rimproverava di tirarli sempre troppo, quindi adesso cerco di usare tutta la delicatezza che fatico spesso a riservarle.
Saliamo in macchina, la destinazione è casa mia; il piano è fare la spesa, rinchiuderci lì qualche giorno, staccare telefoni e citofono e, se dovesse servire, chiamare la polizia anche se in fondo nessuna di noi crede nell’utilità di un loro eventuale intervento.
«Sarà sotto casa sua adesso, doveva vedersi con Emiliano», dice improvvisamente mia sorella con un tono così pacato da pungermi il fianco.
Lo specchietto retrovisore raccoglie lo scambio di intesa tra il mio sguardo e quello sfuggente di Elisabetta.
La macchina in effetti è sotto casa, proprio dove ci aspettavamo di trovarla e ci sono dei robusti bastoni di legno, recuperati nel bosco dopo una scampagnata, che ci aspettano da sempre nel portabagagli. Sono passati mesi da quella gita in mezzo al verde, che ricordo come l’ultima volta in cui, con una scusa, sono riuscita a strappare mia sorella dalla sua routine, fatta di solitarie domeniche ad aspettare il ritorno a casa del suo ragazzo.
Quel pomeriggio andammo in una pineta a pochi chilometri da casa e lì, io ed Elisabetta, riuscimmo a farla sentire finalmente a suo agio, al punto da farla parlare di lui. Raccontò che quella cosa, così aveva definito la violenza subita quasi temesse di chiamarla con il suo nome, non era successa una volta sola. Lui perdeva la pazienza sempre più spesso per motivi che mia sorella non riusciva né a comprendere né a prevedere.
«Magari anche io qualche volta sbaglio alzando troppo i toni», disse mentre il sole scendeva dietro gli alberi. Quel mea culpa del tutto immotivato fu troppo per me.
Urlai, con tutta la voce che avevo in corpo, sentii il sangue nella gola tanto fu lo sforzo.
Mia sorella pianse e non ebbe il coraggio di dire nulla, mi pregò semplicemente di smetterla, temendo potessi sentirmi male. Non aveva tutti i torti, le mie vene friggevano come filamenti immersi in olio bollente mentre il senso di colpa per averla spaventata iniziò a mordermi lo stomaco.
Improvvisamente, Elisabetta ci lanciò addosso parole fredde come acqua ghiacciata: «Raga’, finitela. Anzi, guardate che bei bastoni, secondo me dovremmo portarceli via, coi tempi che corrono possono sempre essere utili», disse con la risolutezza di un giudice che ha appena emesso sentenza.
Ne prendemmo uno ciascuna, prima di risalire in macchina e andarcene da quel bosco ormai divenuto scuro e umido.
Siamo ferme sotto casa del fidanzato di mia sorella. Nessuna di noi osa dire una parola mentre appanniamo i finestrini con i nostri aliti caldi.
Continuiamo a fissare la macchina dell’uomo che ha reso la vita di mia sorella un campo minato, di quella persona che la possiede e non le permette di curarsi vecchie ferite, né intende rinunciare a fargliene di nuove.
Chiudo gli occhi per un attimo e vedo noi, tre figure scure, apparire dal buio e correre intorno all’auto e poi come picchi impazziti colpire ovunque coi bastoni. Furia cieca che riesce ad andare a segno. Le mazze adesso sono macchiate di rosso dopo aver abbattuto il parabrezza che avrebbe dovuto proteggere la faccia dello stronzo alla guida. Un urlo roco accompagna il tutto. Schizzi di sangue su quello che rimane dei finestrini.
E un vetro gli infilza la gola.
Spalanco gli occhi e l’aria immobile avvolge ancora il nostro silenzio.
«Andiamo via prima che si accorga che siamo qui» dice mia sorella senza nessuna paura nella voce.
«Chissà che si stanno dicendo quei due coglioni» le rispondo io.
Allungo un braccio verso il sedile posteriore e le prendo la mano, forse cerco un perdono che in realtà non occorre o solo un modo per dirle che non è sola e mai lo sarà.
In realtà non so davvero se ci sarà mai un posto sicuro per mia sorella o se un giorno deciderà di divenire un porto sicuro per se stessa. Ci spero sempre.
Le passo una mano sui lividi che sono ancora lì caldi.
«Passiamo a prendere le pizze?» propone Elisabetta. Mi volto verso mia sorella e vedo una specie di sorriso guizzarle fuori dagli occhi.
Copertina di Clopine Malausséne
Francesca Addei nasce a Roma nel 1977. Nel 2013, insieme a suo marito decide di trasferirsi a Berlino, città nella quale non si immagina invecchiare. Lo farebbe al mare, se non fosse per l’umidità. Ama i cani, la procrastinazione e la sintesi.
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Lucia Colombo in arte Clopine Malausséne, anno domini 1987, ex fuori corso di Brera mai laureata. Fotografa, illustratrice e tutto fare a vostra disposizione
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