Copertina "Controsole"

Controsole

“Vado a vedere com’è l’acqua”.

Fu l’ultima frase che sentii pronunciare a Sofia. Dopo qualche minuto la raggiunsi sulla battigia e trovai le sue ciabatte abbandonate in modo scomposto. Ne seguii la direzione in acqua, aspettandomi di veder spuntare la sua testa riccia, ma non apparve. Aspettai qualche secondo, nell’attesa che riemergesse da una delle sue nuotate subacque, ma ovunque guardassi non riuscivo a scorgere il suo profilo.

Spostai lo sguardo a destra e a sinistra, passando in rassegna i bagnanti, agitandomi via via sempre di più. Gridai il suo nome, provai a tornare sotto l’ombrellone – non mi sarei stupito al vederla gustarsi la scena da lì – ma di Sofia non c’era traccia.

Restavano solo le ciabatte scomposte. E la sua borsa da mare a fiori, in cui aveva lasciato portafogli, cellulare, chiavi di casa e qualsiasi altro oggetto potesse segnalarne il ritorno.

Mi profusi in tutte le operazioni di ricerca del caso: allertai il bagnino e il personale dello stabilimento, che richiesero l’intervento della polizia e della guardia costiera. Mi sforzai di descriverla in modo più accurato possibile agli addetti alle ricerche: riuscii a fornirgli tutti i dettagli fisici, l’unica cosa che non ricordai fu il colore del suo costume. Cercarono Sofia a lungo, battendo la spiaggia e i primi metri d’acqua fino alle boe e oltre, ma non la trovarono, né viva né morta. Per recuperare il corpo c’era ancora tempo, ma avevo il sentore che quell’esperienza me la sarei evitata. Li vedevo avvicendarsi, sudare sotto al sole di fine agosto, con le divise impeccabili e il cappello d’ordinanza. Io me ne stavo immobile, seduto sul pattino di salvataggio scolorito, quello di riserva, ad aspettare. Non riuscivo a pensare a nulla, non sapevo neanche cosa sperare. Mi sembrava di stare a guardare la giornata di un altro. Era tutto sbagliato.

“Lo vuoi il mio gelato? Tanto a me non mi va più”.

Un ragazzino mi stava porgendo un cono quasi del tutto leccato, diventato di un colore indefinibile. Era la prima persona che mi faceva un discorso normale da quando avevo perso Sofia, se normale si possa definire l’offerta di un cono di seconda mano. Non feci in tempo a rispondere che intervenne la madre per portarlo via, sbrodolandomi tre o quattro frasi di scuse contrite e smozzicate. Era imbarazzata dal disturbo che mi stava dando suo figlio in quel momento. E pensare che io stavo per accettare l’offerta. Mentre lo allontanava a forza, il ragazzino si girò a guardarmi e mi salutò con la mano.

“Ciaooo!” urlò “Io sono Tommaso!” aggiunse sovrastando i tentativi della madre di zittirlo.

Tommaso, mi ripetei nella mente. Quando torna Sofia questa gliela devo raccontare. Poi mi dissi che ero un coglione, perché ormai era chiaro come il sole che Sofia non sarebbe tornata. In quel momento la sua assenza mi sembrò la svolta più normale del mondo. Era vero o no che ci eravamo avviluppati in un empasse da cui non riuscivamo a uscire? E durava da mesi, da anni avrei azzardato. E importava davvero qualcosa se era stata rapita o se era scappata? Anzi, me ne fregava davvero qualcosa? Mi sentii soffocare da quella necessità di esser lì a metter su una faccia con la giusta percentuale di contrizione, speranza e preoccupazione: volevo ripiegare l’asciugamano, abbottonare la camicia, scacciare via la sabbia dai piedi e mettere in moto. In mezz’ora sarei stato davanti alla TV, pronto per la prima di campionato. Ecco, anche quest’ultimo sgarro dovevi farmi, Sofia. Che finezza.

Me ne sarei tornato a casa nostra, che a quel punto sarebbe stata mia, e tutto sarebbe filato liscio, molto più liscio di prima. Certo, qualcuno mi avrebbe chiesto “Ma Sofia?” e io avrei potuto rispondere “Sofia chi?” oppure più diplomaticamente “Sofia l’ho lasciata al mare” e la gente non avrebbe più fatto domande, presa a cercare di capire se intendessi dire che l’avevo lasciata o che era ancora al mare. Certo, al limitare di ottobre la cosa non avrebbe più retto, forse, e allora sarei tornato al piano A, e avrei risposto “Sofia chi?”.

“Signore? Vuole un bicchiere d’acqua?” mi chiese la divisa bianca.

“Grazie” accettai abbozzando un sorriso.

Mi restituì uno sguardo interdetto, forse non era conveniente sorridere, nella mia posizione.

Mi alzai dal pattino, andai a riordinare le mie cose e raccolsi anche le sue ciabatte.

“Scusatemi, io torno a casa” un silenzio imbarazzato calò tra coloro che coordinavano le ricerche, poi il Capitano lo ruppe.

“Certo, abbiamo i suoi recapiti e la chiameremo non appena sapremo qualcosa”.

Appena, non se. Erano certi di trovarla, pur non sapendo in che stato. Contenti loro.

“Grazie” non sapevo che altro dire.

“L’attesa potrebbe essere ancora lunga, la capiamo se ha bisogno di riposare” disse il Capitano dandomi una pacca sonora sulla spalla.

Non immaginava quanto fosse lontano dal capirmi, pensai allontanandomi sulla passerella con il sole che insisteva a battermi sulla nuca.

Uscendo dallo stabilimento rividi Tommaso. Nessuna traccia della madre.

“Ciao!” gli dissi “Io mi chiamo Giancarlo”.

Mi guardava controsole, senza parlare. Mi sfiorò il dubbio che già non ricordasse più chi fossi.

“Le vuoi?” gli chiesi porgendogli le ciabatte di Sofia. “Quando ero piccolo le usavo per fare la pista per le biglie”

Tese le mani cicciottelle e prese quel rimasuglio di plastica rossa. Nemmeno un grazie. Da parte di nessuno dei due. Infilai gli occhiali da sole e puntai verso l’auto. La partita stava per cominciare.

Foto di copertina di Ileana Moriconi

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