Il professor Alberto Rami era molto popolare tra gli studenti di filosofia, che apprezzavano l’accattivante aspetto bohémien, più da artista che da pensatore. I vaporosi capelli ricci e il barbone nero, la giacca sempre aperta e la camicia rigorosamente scura da cui spuntava una peluria arruffata davano al corpulento professore un aspetto maschio, che attirava nelle prime file quasi tutte studentesse.
Rami abitava in periferia, non faceva il pendolare da qualche altra città come la maggior parte dei professori del dipartimento, e girava voce che fosse vedovo. Durante una discussione alle Due spade, l’osteria vicino all’università frequentata dagli studenti, qualcuno aveva affermato che non poteva essere vedovo, infatti portava la fede, una classica fede bombata d’oro all’anulare sinistro. Ma Silvia, una delle studentesse più carine della prima fila, che si era riproposta di chiedere a Rami di farle da relatore, aveva speculato che anche i vedovi avrebbero potuto conservare la fede al dito, sia per rispetto alla moglie defunta, sia per scoraggiare nuovi rapporti. A noi maschi la seconda ipotesi sembrava impossibile, a meno di non soffrire di una grave forma di depressione, che il professore non pareva mostrare. Silvia ci aveva derisi per la nostra inesperienza dei rapporti umani.
La notizia che qualcuno aveva visto il professore infilarsi in un portone che sembrava essere la sua abitazione riportò in auge il tema dei rapporti matrimoniali di Rami. Venne fuori che su uno dei campanelli del palazzo era scritto: “Alberto ed Elisabetta Rami”. Da lì un nuovo soggetto di discussione: chi era Elisabetta? La moglie, sembrava la soluzione più ovvia, ma Silvia riteneva che non potesse esserlo perché ormai le donne, argomentava, si firmano con il cognome da nubile, a maggior ragione lo indicherebbero sul campanello per poter ricevere la posta personale. Elisabetta non poteva che essere la figlia di Rami. Noi maschi ritenevano questa spiegazione pretestuosa, controbattendo che l’età del professore faceva presumere la consuetudine di attribuire lo stesso cognome a moglie e marito. Nondimeno, lasciavamo aperta l’ipotesi che Elisabetta potesse essere una delle presunte figlie di Rami, quella che abitava ancora con il professore.
Un giorno, io e Francesco eravamo nei dintorni della casa di Rami alla ricerca di un appartamento da affittare per il successivo anno accademico, quando vedemmo uscire dal portone Rami assieme a una donna che il professore prese per la vita con il possessivo braccio gorillesco. In confronto a Rami, appariva fragile e minuta. Vestita con dei semplici jeans e una maglietta chiara, la donna indossava un ampio cappello da uomo, un Panama in paglia bianca e nastro nero, così largo da nasconderle del tutto la capigliatura. Rami chinò il testone ricciuto che scomparve a metà sotto l’ala del cappello. Per un bacio? Per sussurrare complici melensaggini? Poi la coppia sparì dietro l’angolo del palazzo. Eravamo in auto ed era impossibile cambiare direzione o fermarsi per inseguirli. L’antico fervore inquisitorio riprese. Era quella Elisabetta?
Silvia non lo credeva. Ragionava in modo apparentemente plausibile che la scena che avevamo visto non si adattava a un’intimità del tipo padre e figlia, e che la donna, a quanto poteva dedurre dalla nostra descrizione (jeans, maglietta, cappello incongruo), era presumibilmente giovane, giungendo alla conclusione che quella che avevamo visto non poteva che essere l’amante del professore. Non la figlia Elisabetta, ma neppure l’eventuale moglie Elisabetta (se era corretta l’ipotesi che era in disuso l’abitudine di non indicare il cognome della moglie sul campanello). Obiettai che Rami poteva essere sposato con una moglie molto giovane, ma Silvia rispose che allora non avrebbe attirato nelle prime file tutte quelle studentesse. Non sarebbe successo lo stesso nell’ipotesi di una giovane amante? Quello è un caso diverso, disse Silvia con l’indulgenza di chi ribadisce verità ovvie. Ma se Rami è vedovo non può avere un’amante (che presuppone un rapporto ufficiale), ribattei ostinato, avrebbe piuttosto una fidanzata. Amante è più intrigante, mi rispose Silvia con una goffa rima: per lei l’enigma era risolto. E Francesco, seppure ansioso di continuare la conversazione, fu più propenso ad accettare l’invito di Silvia a studiare nel suo appartamento, libero dalle coinquiline che sarebbero rientrate il giorno seguente.
Non avendo nulla di meglio da fare andai alle Due spade dove raccontai ad alcuni studenti dell’incontro con la presunta Elisabetta, enfatizzando l’eccentrico Panama bianco che mi aveva così colpito. Questo non fu senza conseguenze.
Una settimana dopo, a una festa di laurea, uno studente di storia mi chiese se avevo sentito che la figlia di Rami era lesbica. Caddi dalle nuvole. Lesbica? Mi spiegò che l’avevano vista passeggiare a braccetto con il professore per le vie del centro. Indossava un grande cappello bianco e un completo in lino dello stesso colore, il volto era spigoloso, maschile. Ero stato scippato di un’informazione che ritenevo di mia proprietà. Esposi allora con supponenza che io e un mio amico avevamo visto di sfuggita una ragazza, forse una donna, con il professore. L’unica informazione certa era riguardo al cappello, non eravamo riusciti a vedere altro. Lo studente di storia non mi credette. Successivamente ascoltai altre versioni. Rami era stato visto con la sua amante, una tizia alta, una specie di virago con la quale aveva rapporti sadomaso. Oppure: la moglie di Rami era stilista (in un’altra versione, proprietaria di un negozio di cappelli) e lavorava con la figlia. E, più incredibile: Rami era stato visto mano nella mano con un travestito.
Quando accennai a Francesco della ragazza che avevamo visto con Rami lui mi chiese: Chi? L’amica? Capii che ormai si era persa ogni possibilità di stabilire una qualche verità, così mi divertii ad aumentare la confusione, raccontando episodi inventati: sapevo che qualcuno aveva visto il professore baciare appassionatamente una giovane donna con un enorme cappello bianco, era l’amante che nascondeva alla figlia Elisabetta, la quale, dopo la morte della madre, aveva avuto una forte depressione e usciva di rado. A poco a poco, ciò che raccontavo si amalgamava ai miei deboli ricordi e li corrompeva, creandone di nuovi, più vividi e dettagliati, anche se falsi.
Tutto finì con l’estate. Le vacanze ci allontanarono dall’università e dalle disquisizioni su Rami. Silvia e Francesco, che si erano ritrovati più spesso assieme per elaborare delle strategie per scoprire l’identità di Elisabetta (chiedere ai vicini di casa del professore, suonare il campanello a ore strane, cercare nell’elenco telefonico), avevano scoperto di piacersi. Quando si misero assieme, il loro interesse verso Elisabetta calò drasticamente. L’inizio del nuovo anno accademico portò altri cambiamenti: il professore si trasferì in un’altra università, qualcuno si laureò, le Due spade cambiarono gestione, così tutti gli studenti emigrarono in un’altra osteria.
Non so come mi ritrovai dalle parti dell’abitazione del professore. Quando me ne accorsi mi sembrò che la smania dell’anno precedente per scoprire se Rami avesse una moglie, una figlia oppure un’amante fosse stata solo un’inutile perdita di tempo. Mi avvicinai comunque al portone del palazzo e lessi sul campanello: “Prof. Alberto Rami”. L’etichetta ingiallita doveva essere lì da un pezzo, come quelle degli altri inquilini.
Copertina di David Werbrouck da Unsplash