Bolle di sapone

Bolle di sapone

La prima volta che l’ho visto era in mezzo a un negozio, solo. Non fisicamente solo, ma capite cosa voglio dire. È stato il commesso a presentarci: io gli ho chiesto se avesse cellulari in offerta, e ha tirato fuori lui, con la sua cover nero lucida, il riconoscimento tramite impronta digitale, lo spazio per le nano sim, e quella fotocamera… mi ha mostrato anche altri modelli, generi più in voga, più comuni, ma lui era diverso. Anche il prezzo era diverso: ottanta euro subito, il resto sarebbe stato scalato dal conto cinque euro al mese per i prossimi due anni.
Era così semplice, così perfetto.
Non ero senza cellulare, avevo un vecchio modello di tre anni, bianco. Mi ci era voluto un po’, ma avevo capito che le cose stavano cambiando: sembrava non mi ascoltasse più, e mentre tutti scaricavano nuove app con cui passare le giornate lui mi diceva: “No, non puoi. No, non posso, no, no, no” solo no.
Sempre no.
Stavamo bene insieme, ma poi tutti quei problemi… per questo sono entrato in quel negozio da solo.
Quando il commesso mi ha chiesto se avessi una nano sim gli ho detto di no, se volevo portare la vecchia però avrebbe pensato a tutto lui; gli ho detto se poteva farmene una nuova e l’ha fatta, lì, nel negozio.
Quando ha preso il telefono e aperto l’alloggio della scheda, ho chiesto se potessi inserirla io. Ha riso, ma ha capito, ci ha lasciato un momento di privacy, e gliel’ho messa dentro.
Gentilmente, s’intende! Prima ho compilato tutte le carte necessarie per il consenso: non sono uno di quelli che fa le cose strane.
Non l’ho rimesso nella custodia, ho lasciato che mi accompagnasse nella tasca dei pantaloni. Era così sottile, sembrava che non fosse nemmeno lì.
Una volta a casa sono andato dall’altro cellulare e l’ho fatta finita. Lo so, avrei dovuto prima chiudere con lui e poi prendere quello nuovo, ma nessuno è perfetto. Sono un mostro forse, giudicatemi, ma se tornassi indietro lo rifarei. Siamo stati insieme un ultimo pomeriggio, ho preso le foto, i contatti che mi servivano, e qualche nota che avevo lasciato da lui. Mi ha guardato attraverso quella crepa nella fotocamera un’ultima volta… improvvisamente sembrava più leggero, più veloce, aveva di nuovo voglia di fare le cose insieme a me… ma tutti quei “no” sono tornati presto a farsi sentire, e sapevo dentro di me che ci sarebbero sempre stati. Sempre.
L’ho riposto nella scatola, non ci siamo più rivisti da allora.
Ho passato la serata con il mio cellulare nuovo, ho scaricato quello che dovevo scaricare, ho avvisato gli amici del nuovo numero, ho impostato l’impronta digitale… era tutto nuovo e perfetto. Per il primo mese siamo stati mano sullo schermo. Era fantastico, potevo fare anche le cose che non facevo prima. Potevamo stare in piedi tutta la notte, come due ragazzini. Abbiamo fatto anche un viaggio insieme, così, una settimana dopo, senza prenotare niente siamo partiti. Lo so, da pazzi.
Decisi che sarei stato sempre attento, che non gli sarebbe mai successo niente, per questo non gli comprai una custodia, lui stava bene così, non aveva bisogno come tutti gli altri di farsi vedere con un vestitino nuovo ogni giorno, il nero gli stava proprio bene.
È stato quello il mio errore.
Lentamente le cose hanno iniziato a peggiorare, ma voglio dire sin da subito che è stata colpa mia, non sua. Me ne prendo la piena responsabilità.
Eravamo in città, ero appena uscito da un negozio quando l’ho sentito cercarmi. Una piccola vibrazione non serviva altro. L’ho preso distrattamente e lui è caduto. È stato orribile. Quando l’ho rialzato il retro aveva una crepa, il suo didietro era scalfito… l’avevo già sbattuto in precedenza, soprattutto sul letto, ma sempre in maniera dolce, mai distrattamente. Quella volta invece… distrazione, il principio di tutto ciò che accade di sbagliato in una relazione. Distrazione.
Quando lo mostravo ai miei amici li tranquillizzavo, gli dicevo che era stato un incidente, che non l’avevo fatto di proposito, che non sarebbe successo ancora. Mi mostravano i loro modelli, ma lui non aveva niente da invidiargli. Dopo quel colpo capii che aveva bisogno di più attenzione, dunque lo pulivo regolarmente, svuotavo la memoria, cambiavamo lo sfondo per ogni giornata insieme… dopo uno screzio siamo tornati giovani e forti come prima.
E durante la pace, c’è sempre un calo di tensione.
Cadde ancora, questa volta di schermo. Fu terribile.
Un metro, non di più. A volte basta un metro. È caduto a faccia in giù, ho sentito il rumore del vetro infrangersi. Mia sorella ha urlato. Mio padre mi ha guardato disgustato; avrei potuto leggere nel suo sguardo le parole “È così che tieni a lui?” scusa papà, scusa.
L’ho raccolto lentamente, e quando l’ho voltato la crepa era nell’angolo, poco più di un centimetro, ma si vedeva. E l’avrebbero sempre vista tutti.
Iniziai a sentirmi un mostro.
Cominciai a non farmi vedere in giro con lui. Non volevo che tutti gli altri vedessero cosa avevo fatto, che mi giudicassero. Avevo sentito di un posto dove potevano cambiarti il vetro a un prezzo agevole, ma quando mi hanno detto la cifra sono rimasto senza parole. Sono andato via indignato. Ho cominciato a cercare qualche soluzione su internet, ma anche lì niente di troppo economico. Se non potevo mandar via quelle cicatrici, l’avrei protetto come meglio potevo: ordinai una custodia nera e un vetro temprato. Consegna prioritaria.
In ventiquattro ore era bello come il primo giorno.
Ci svegliavamo al mattino insieme… Titititti… titititiii… tititti… titititiii… ci addormentavamo insieme.
Purtroppo però continuò a cadere. Non so perché, c’era qualcosa che non andava. Le crepe iniziarono a comparire sul vetro temprato, sulla custodia nera… eravamo sempre insieme, ma ormai qualcosa era cambiato. Non erano più i primi mesi di gioia e felicità, c’era distrazione, c’era noncuranza.
Quando mi decisi a togliere il rivestimento notai che le cicatrici che aveva accumulato sotto erano più profonde e più gravi di quanto pensassi. Ed ero stato io a farle.
Il prezzo per la riparazione invece di scendere era salito, quindi l’unica cosa che potevo fare fu comprare un’altra custodia. Gli chiesi scusa, ma non mi disse niente. Ovvio, non mi avrebbe mai detto niente. La custodia che scelsi era trasparente, così mi sarei accorto subito se altre crepe venivano a galla.
Non mi importava che gli altri le vedessero, che le guardassero, se proprio volevano. Tutti guardano sempre le crepe degli altri senza occuparsi delle loro, beh volete vederle? Guardatele per dio, guardatele! Guardate la crepa sul vetro che va da parte a parte, sono stato io a farla!
Tutti ridevano ma io lo presentavo come un guerriero indistruttibile. E lo era davvero. Il mio guerriero indistruttibile.
Una mattina un colpo fece saltare via un pezzo di vetro così da iniziare a mostrare quello che c’era sotto la superficie. Quel giorno mi tagliò un dito, ma non dissi niente. Era stato un incidente, solo un incidente. Con tutto il male che gli avevo fatto io, cos’era un piccolo taglio? Lo riposi in tasca e andammo avanti.
Dentro di me iniziai a guardare il giorno che avrei finito di pagarlo come l’opportunità di prenderne uno nuovo, di iniziare un altro viaggio… ma quando il momento arrivò non ce la feci. Ne avevamo passate tante insieme, con tutto il male che ci eravamo fatti a vicenda, eravamo diventati compagni ormai. Magari la fotocamera non era più come all’inizio, la luce era sfocata, ma non importava. Non avremmo più fatto le foto come i primi giorni ma le avremmo comunque fatte, non è questo l’importante? Non accontentarsi, ma sapere che quello che si ha perché si è conquistato è più importante di qualcosa che potremmo avere solo buttando via dei soldi. Quelle foto sfocate erano il risultato dei nostri anni passati insieme, e in qualche modo erano bellissime.
A volte mi domando se con l’altro cellulare bianco non abbia commesso l’errore di chiudere troppo in fretta… ma accantono quei pensieri, non voglio vivere ripensandoci.
Comunque, iniziò a rallentare anche lui, come tutti. Ha smesso con gli aggiornamenti, qualche volta evitava di farsi sentire, altre lo ritrovavo in una stanza senza nemmeno sapere come c’era arrivato. Ma insieme ne ridevamo.
Se un programma era troppo grosso per lui semplicemente dicevamo che non faceva per noi, che potevamo farne a meno. Lo pulivo costantemente, nelle sue crepe, gli svuotavo la memoria, lo mettevo sotto carica solo il tempo necessario…
Non eravamo perfetti, ma funzionavamo.
E poi… poi ho compiuto gli anni.
Mia madre e mio padre mi hanno regalato i soldi per un nuovo telefono “Così ti compri quello che vuoi. Quello è tutto rotto.”
“Ah sì? Ma pensate, non l’avevo notato. Lo so che è tutto rotto, non sono cieco, ma funziona lo sapete? Forse non è quello di una volta, ma a me piace. Vorrei solo che la smetteste di giudicarci una buona volta.”
Presi i soldi e dissi che ci avrei pensato, così da farli tacere.
Però intuii subito che qualcosa non andava come avrebbe dovuto.
Trovai un pezzo di vetro, quando guardai il telefono capii: un enorme pezzo dalla testa si era staccato, portando alla vista i sensori e la fotocamera. Era impossibile da vedere.
Mi portai una mano alla bocca, dicendo che sarebbe andato tutto bene, che era tutto a posto.
Pochi giorni dopo, in un momento in cui era scarico iniziai a guardare i prezzi su internet. Me ne vergogno, me ne vergogno amaramente.
Sì, stavolta mi sono sentito un mostro.
Ne ordinai uno antiurto, impermeabile, con una memoria enorme, quattro fotocamere… lo feci senza pensare, in un momento di debolezza.
Quando riaccesi lo schermo ho fatto finta di niente, che tutto andasse bene.
Ma lui lo sapeva. Lo sanno sempre.
Ci siamo guardati qualche video insieme, poi un attimo prima che lo mettessi sotto carica, lo schermo si è spento. Ho provato a riavviarlo, ho provato, vi giuro che l’ho fatto, più e più volte, ma non è successo niente. Qualcosa dentro di lui ancora funzionava, ma lo schermo se ne era andato.
C’era ancora vita, ho provato a metterlo sotto carica… ma l’unica cosa che potevo fare era staccare la spina.
Così la staccai.
Lo lasciai sul tavolo di cucina, ad aspettare. La mattina sentivo ancora la sveglia suonare. Titititti… titititiii… tititti… titititiii… ogni cinque minuti, per trenta minuti, dalle sette alle sette e trenta. E sapeva che quei trenta minuti mi servivano tutti. Era lì per me e io l’avevo già tradito comprandone uno nuovo. Nonostante avessi deciso di staccare la spina, lui continuava a fare quello che poteva per me. L’ho portato di nuovo al negozio, nel posto in cui ci eravamo conosciuti, ma il commesso mi ha detto che non c’era niente che potesse fare.
“Lo so,” ho detto comprensivo “però c’è niente che lui può fare per altri telefoni?”
Ha capito, ha annuito, ha iniziato lentamente a smontarlo. Ha tolto il vetro e il retro, ormai in pezzi e li ha messi da parte. Ha preso la batteria, la fotocamera, andranno a un altro telefono. Mi ha ridato la nano sim, così che la potessi inserire in quello nuovo, ma quando è stato il momento di estrarre la memoria non ho resistito. Gli ho chiesto se potevo averla. C’erano ancora le nostre foto lì.
Sono uscito dal negozio con una piccola busta di plastica in mano, una busta piena di ricordi.
Quattro anni insieme. Quattro anni e tante avventure.
La storia finiva lì, dove era cominciata.

Uso il nuovo telefono ora. È fantastico: belle foto, bello sfondo, indistruttibile… sembra perfetto e forse lo è. Non mi ha ancora detto di no, mi lascia fare quello che voglio. Ha la protezione incorporata, ma io lo tratto come se così non fosse. Voglio pensare di aver imparato qualcosa… voglio pensare che ciò che c’è stato tra me e il mio vecchio cellulare abbia significato qualcosa e che non sia andato tutto in bolle di sapone.

Foto di copertina di Marina Cerquetti.

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Federico Bastianelli è studente di Italianistica, a un pungo di pagine dalla fine della tesi magistrale, e impiegato in un’azienda che realizza software. Potete trovare altri suoi racconti su Narrandom, Bomarscé, Malgrado le mosche, Sulla quarta corda, e a breve anche L’equivoco.

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