Il camper ha le ruote del lato sinistro sullo spartitraffico, sbilenco; il semaforo davanti, rosso. Una donna ci guarda, ha il casco, i capelli neri svolazzano da sotto mentre riparte sullo scooter. Il rantolo del portellone scorre orizzontale, siamo a terra, il tram riparte – Firenze Nova – e lo guardiamo lento passarci davanti. Attraversiamo le rotaie, siamo svelti, abbiamo una strana fretta che non ci diciamo. Puntiamo all’ingresso laterale della stazione, una ragazza ci viene incontro, la petizione, firmare per qualcosa o qualcuno. Imbocchiamo i gradini mentre due asiatici ci tagliano la strada.
Indossano mascherine.
Santa Maria Novella è nell’ora di punta, primo pomeriggio. Abbiamo deciso di anticipare la partenza. Il biglietto ha la data di domani ma noi vogliamo rientrare oggi.
«Allora me lo dica lei, me lo dica lei, come devo fare?!».
Al punto informazioni una donna si agita, vuole partire, deve partire. Ha l’accento napoletano e si sbraccia davanti al banco, tre ragazze in giacca rossa dall’altra parte provano a calmarla, l’agitazione sui loro volti mascherata dall’uniformità a un protocollo diverso dal solito – annuncio ritardo: quaranta minuti da Bologna. Siamo in fila, prendiamo il ticket, una marea di gente allo stesso punto informazioni. Il nostro numero è lontano nel tempo e nello spazio, ci guardiamo perplessi.
«Io devo tornare per forza, non ha capito?» Ancora la donna. «Io devo rientrare e ora lei mi dice come devo fare!».
Cambiamo fila, sportello, punto informazioni. Guadagniamo una buona posizione, c’è una ragazza con la coda bionda che spiega qualcosa a un signore di mezza età, muove le dita in direzione del tabellone degli arrivi. Mi caccio il bigliettino dell’altra fila dentro al giubbotto e aspetto il mio nuovo turno – annuncio ritardo: sessanta minuti, Torino. Con il pollice scorro sulle icone, digito, cerco, Trenitalia, Italo, incroci, coincidenze, treno più bus, solo bus, Flixbus o quell’altra compagnia che parte da Firenze, altra stazione, come si chiama? Possibile che non ci sia un modo? Quando alzo la testa la ragazza alla biglietteria è in piedi, ha girato il cartello Chiuso, mi fa segno di lato: il collega, dice – non dice, è un labiale.
La donna nella fila accanto, la terza, parlotta con l’addetto ai biglietti: è un ragazzo giovane, l’aria efficiente di chi sostituisce le risposte con cenni del capo, scorrendo sul monitor, proponendo alternative una dopo l’altra e parlando veloce. Siamo dietro la donna, abbiamo il diritto di ritrovarci davanti agli altri passando sotto la transenna, la biglietteria ci ha chiuso in faccia e comunque, nessuno protesta – annuncio ritardo: centoventi minuti da Milano.
«Signora, mi scusi» faccio «però non possiamo aspettare che lei decida il treno qui, alla biglietteria, abbia pazienza».
La donna si sposta, passiamo, neanche ci guarda. Ha la nostra stessa faccia, la mia.
«Avevamo il biglietto per domattina ma vogliamo sostituirlo con il primo treno di oggi».
«Tutti i treni sono in ritardo».
«Che ritardo?».
«Circa due ore, ma aumenterà».
«Come mai?».
«È tutto bloccato, sopra, i treni partono tutti da Milano o da Torino».
«Il primo?».
«Quello delle sedici e quarantacinque, forse, se non aumenta il ritardo… Guardo se c’è posto? Bisogna pure vedere, non è detto».
Annuncio ritardo: centosessanta minuti, per Roma.
«Sì, c’è posto, procedo?».
Qualcuno dietro di noi si lamenta, lo smartphone ha poca carica, faccio un rapido schema mentale delle coincidenze: Firenze via Roma per Napoli e da lì, forse, in Puglia. Coincidenza a rischio. Tiro fuori il bigliettino della fila-ticket di poco prima, lato opposto della stazione. Mi scosto, lascio passare: un uomo alto con una bambina accanto, entrambi hanno la mascherina – settanta minuti di ritardo il treno per Bologna, centotrenta quello da Milano, ottanta da Torino.
«La cosa migliore che può fare è anticipare la partenza con il primo treno di domattina».
«Ce l’avrei alle tredici».
«Sarà un casino, mi creda, prenda il primo, così anche se fa ritardo ha la sua coincidenza al sicuro».
«Ma possiamo farlo? Ho provato dal sito e mi è venuta fuori questa cosa…».
La donna è una ragazza, avrà a mala pena trent’anni, è bruna. Siamo di nuovo dall’altra parte, fila iniziale, stesso numerino ma avanti agli altri. Impugna il mio telefono, fa una smorfia. Dice che ci può provare, non è sua competenza ma si può tentare qualcosa: il codice, le serve il codice. Accanto a lei, in una delle tre postazioni del punto informazioni va a sedersi una collega: è la ragazza bionda con la coda che poco prima ci ha chiuso lo sportello, dall’altra parte, alla biglietteria. Dietro di noi, la fila aumenta.
«È che di solito se ne occupa il centro operativo di queste cose, ma se li chiamo, per come sono messi oggi, mi mandano a quel paese».
La ragazza digita, telefona, digita ancora. Il vociare della gente intorno si alza e si abbassa in strane ondate mentre gli annunci della stazione si accavallano l’uno sull’altro, ormai perdendo di significato, inseguendosi tra i ritardi e fagocitando i commenti, le ipotesi, gli sbuffi. Dalla vetrata che separa il punto informazioni vedo passare una comitiva di asiatici, tutti con la mascherina. A seguire, turisti con gli zaini, i trolley, biondi e bianchi come se ne vedono in mucchi nelle città d’arte italiane, passeggiare con il naso all’insù e le bottigliette d’acqua in mano. Le loro facce però oggi sono diverse.
Sabato i casi si contavano sulle dita, penso, domenica erano una quarantina ma la cosa sembrava circoscritta, da verificare, da valutare. Da capire. Abbiamo mangiato e bevuto insieme a gente sconosciuta, stretto mani, salutato vecchi amici. Ci siamo abbracciati. Baciati.
«Ci sono quasi» mi dice la ragazza, i capelli tirati indietro. «Un po’ di pazienza».
Un uomo e una donna, lei incinta, qualche metro dietro di noi, aprono una cartina geografica di quelle grandi, a fisarmonica, vecchio stampo. Aspettano il loro turno, sono accigliati, la cartina copre loro i volti, poi si abbassa, li scopre. Hanno la faccia di chi non riconosce un luogo, di chi non si ritrova, come quando qualcosa non corrisponde, l’appartamento appena varcato rispetto a quello della foto riportata sul sito, la macchina a noleggio che non è quella della prenotazione, il menu di pesce cambiato solo il giorno prima.
È il 24 febbraio del 2020 e anche per me, da stamattina, il mondo non è più quello della foto.
Nel treno di rientro da Firenze, per Napoli, ci addormentiamo. Qualche ora prima, nella stessa carrozza, una donna al telefono ha detto di non essere riuscita a contattare i numeri indicati dal Governo in caso di allontanamento dalle zone a rischio. “Dove ci sono già casi accertati”. Vorrebbe avvisare che sta andando fuori dalla propria regione, il Piemonte, in direzione Sud, ma non è riuscita. Si lamenta ma ride al telefono.
«Senti, io la mia parte l’ho fatta» dice «adesso non mi venissero a dire…».
Noi abbiamo indossato mascherine di fortuna per tutto il viaggio di rientro e non siamo stati i soli – pensare che venerdì, prima di partire, neanche volevo portarmele dietro, una cosa così stupida, così allarmista. Il treno è partito puntuale, l’addetta al punto informazioni è stata gentile, previdente. Coincidenza al sicuro, rientro garantito. Al mattino presto abbiamo salutato gli altri amici nel camper, dicendo loro di non accompagnarci fin dentro alla stazione: inutile rischiare, abbiamo detto – ma rischiare cosa, di preciso? Uno guida i bus, l’altro lavora in un albergo: tanto rischieremmo lo stesso, hanno risposto. Allora abbiamo preso un caffè in un bar nei pressi, di fronte l’ingresso laterale di Santa Maria Novella, la foto di Frank Ribery al centro di un quotidiano sportivo locale, su un tavolino – il titolo: “Ma quando torna?”.
«E adesso, il pallone?».
«Il pallone continua, lo show prosegue».
«Però alcune partite sono state rinviate, così ho capito».
«Io non c’ho capito un cazzo».
Ho chiesto del bagno alla barista, ho varcato una porticina sul retro, le scale, giù, sin dentro un cesso piccolo e tenuto così così. Con le mani sotto l’acqua e il sapone abbondante penso a quanti, prima di me, in quel bagno, in quei giorni. Quanti. Bar, stazione. Stazione, bar. Centinaia, migliaia, anche in quelle stesse ore. Lì dentro. È il 25 febbraio 2020.
Il giorno prima, dopo aver incassato il diniego della partenza anticipata, in stazione, abbiamo deciso di affacciarci sulla città. Piazzale Michelangelo. Ci siamo sporti, tutti e quattro, le mani sulle altre mani, impronte su impronte, in mezzo a gente di tutto il mondo che ancora non ha realizzato, continua a fotografare, a sorridere, ha forse solo il sospetto, il pungolo.
«Stasera meglio stare a casa».
«Non usciamo? Ragazzi è l’ultima sera che ci vediamo, poi chissà…».
«Prendiamo un po’ di pizza e buonanotte, sentite a me».
E l’abbiamo fatto. Tutta la sera a guardare le auto della polizia, dei carabinieri, ferme ai confini di alcune città dichiarate zone rosse – gli automobilisti che abbassano i finestrini, che chiedono, firmano autocertificazioni, tornano indietro. I contagi sono un centinaio, tutti nella stessa zona, Lombardia, Veneto, e qualcuno, qualcosa, anche in Piemonte. E poi ci sono sempre i due cinesi, a Roma.
«Ma sono morti?».
«Macché, sono allo Spallanzani».
«Spalla…?».
Parliamo poco, beviamo molto. I politici, il Presidente del Consiglio, i ministri. Una carrellata in prima visione TV scorre davanti ai nostri occhi, dietro bottiglie vuote e fumo di sigarette. Il capo della protezione civile del quale apprendo per la prima volta il nome, Borrelli. Da quel momento diventerà un appuntamento fisso, ogni giorno, non più un semplice cognome: Borrelli Borrelli Borrelli.
Nella notte, poco prima di addormentarmi, leggo del primo caso sospetto proprio lì, a Firenze. Un tizio proveniente da Singapore, un imprenditore. Il giornale online locale pubblica una foto dell’ospedale di Firenze, il pronto soccorso momentaneamente chiuso, una tenda, una tensostruttura piazzata davanti – anche questa parola, da quel momento, tornerà spesso: tensostruttura.
Mi alzo, non dormo, vado in bagno. Allo specchio realizzo che il terrore più grande non è il contagio – pare che non sia ancora così pericoloso qui in Italia, che non sia ancora accertata la sua mortalità – qualcuno l’ha chiamato indice di fatalità. Il terrore è restare bloccati, lì, in un’altra città, durante un week-end lungo che forse, a sentire qualcuno, avrei fatto bene a rimandare. Se i treni non partono, penso, se li bloccano. Se il contagio si allarga nella notte e immobilizza anche l’Emilia-Romagna, ad esempio, o il Lazio. Se salta fuori un focolaio qui, a Firenze, o a Prato, città cinese, o nei dintorni. Se la Toscana diventa Codogno, questa città che ora tutti conoscono, e se Codogno non è solo Codogno. Se fermano il Nord poi, se la cinta di sicurezza si abbassa drasticamente, se arrivano misure pesanti. Cinesi.
«Tu l’hai visto ‘sto video?».
«Quale?».
«Quello dell’irruzione nel condominio, in Cina?».
Nel pullman che prendiamo da Napoli, nella nostra ultima coincidenza, passo lo smartphone al mio amico. Per tutto il rientro in treno, da Firenze a Napoli, non abbiamo parlato di Coronavirus. Non abbiamo parlato proprio, ognuno dentro la sua fallibile mascherina. Adesso, però, ci riteniamo in salvo: qui non ci sono casi, non ancora perlomeno. E c’è anche un bel sole.
«E se diventa anche qua come là?».
Nel video si vedono delle persone in tuta da astronauta, vaporosa. Tute coibentate. Entrano di forza in un condominio stretto, bianco, asettico, da ospedale. Si sentono grida, parole cinesi. Prendono con la forza un tizio, un ragazzo, un uomo, non si capisce bene l’età. Irrompono dentro il suo appartamento – una soffiata, una telefonata di un vicino forse, perché una donna sembra affacciarsi sul pianerottolo sbucando da una porta laterale, l’apre e subito rientra. Qualcosa deve averli portati a tanto, sono cinque persone ad agire, quattro fanno il lavoro sporco e uno, con una mascherina diversa, li guida. Il ragazzo perde la maglietta, è a petto nudo, si contorce, urla, lo trascinano per il corridoio del palazzo e lo schiaffano di getto nell’ascensore. È una cattura.
«Se finisce così, ti tendi conto?».
«Là sono pazzi, c’è una dittatura».
«Dici che sono pazzi?».
Siamo adulti, andiamo verso i quaranta, ma la paura ci fa parlare come bambini.
Nell’aula magna mandano i New Order, “Blue Monday”. Perfetto.
Se proprio dev’essere, mi dico, che almeno ci sia buona musica sotto.
Oltre trecento ragazzi sono assiepati ad ascoltare l’intervento di un famoso scrittore, la docente che lo introduce, il preside che interviene. Il saluto delle istituzioni: l’assessore sorride ma non smette di guardare il cellulare. Il banco degli ospiti piazzato sul palco sovrasta la distesa di studenti del liceo, di professori, di lettori comuni. Ci sono anche io.
Il giorno prima ho salutato il mio amico, augurandogli buona quarantena. Così, per scherzare. Scesi dal pullman, sotto un sole già di marzo, ci siamo dati il gomito, non la mano.
«Tu passerai dai tuoi?» Mi ha chiesto facendosi serio. «Io non credo, meglio stargli lontano per un po’: dicono quattordici giorni, dicono. Alla fine, non si sa mai».
Guardo altra gente entrare in aula magna, giornalisti, spettatori, altri liceali, e ascolto la musica dagli altoparlanti che sfuma man mano che i relatori battono con le dita sui microfoni piazzati sul lungo tavolo in legno, pronti per iniziare.
La giusta colonna sonora per un contagio di massa, i New Order.
A pranzo, più tardi, passerò dai miei, a casa loro. Nel frattempo saranno arrivate notizie di contagi funesti, in provincia, poco lontano da qui. Avrò una voce inedita nel riferire le notizie a mia madre.
«Uno stronzo di medico legale ha autorizzato il funerale di un vecchio prima di verificare il tampone».
«E quindi?».
«E quindi hanno scoperto soltanto dopo che era morto di Coronavirus, il vecchio, e al funerale c’erano trecento persone».
«Ma come?».
«Fate una buona spesa, statevi a casa, papà è il primo che muore».
«Ma qua non ci sono casi, non c’è niente».
«Per ora, ma può succedere di tutto: mi arrivano notizie di merda, dice che forse diventiamo zona rossa per colpa di quel medico legale».
Guardo gli ultimi arrivati che prendono posto, i New Order che terminano. È la mia giornata libera, è lunedì, è il 26 febbraio del 2020 e il telefono tace, gli audio non sono ancora arrivati, le chat mute, gli articoli fake e non fake non si rincorrono tra loro, nessun link. Guardo i ragazzi darsi di gomito, sorridersi, far chiasso. Molti con la testa dentro gli smartphone, alcuni impiegati per il servizio d’ordine dell’evento, a gestire le file, le uscite, il bagno. Sedici, diciassette, diciotto anni.
Li osservo e penso che, tutto sommato, la trama è giusta. È bella e fatta. Funziona.
L’ultimo grido d’allarme inascoltato lanciato da un’adolescente con le treccine, una leggera sindrome di Asperger a guidare la sua ostinazione santa, inviata dal cielo per dare la chance finale all’umanità. Un paese piccolo piccolo e con la neve, il luogo ideale nel quale calare la Cassandra dei nostri tempi, martire laica versione 2.0. Una nazione neutrale ed ecologica, la sua, una scuola con le assi di legno disertata per protesta ogni venerdì della settimana, giorno sacro per eccellenza: il cartello di cartone scritto a mano che rimbalza nelle condivisioni social del resto del pianeta e poi un giro del mondo reale, fisico, quasi una piccola, secolare rivoluzione che giunge a un passo dal compiersi. Il discorso nel palazzo di vetro, i padroni del mondo ad ascoltarla, qualcuno a deriderla e persino il Nobel per la pace, persino, avanzato dai giornali progressisti d’Occidente: una candidatura che non avrà un seguito, non ci sarà nulla dopo perché il dopo è adesso ed è un mostro invisibile del quale con ogni probabilità non si individuerà mai l’esiziale causa e che comincia a mietere vittime nel luogo più popoloso del mondo, più inquinato del mondo, più affogato d’aria malsana del mondo. Che ironia, che puntualità, che precisione. Il virus serpeggia, si espande, si trasmette. Viene taciuto, denigrato, esaltato, ridimensionato, enfatizzato, localizzato, isolato, assimilato. È qui ed è ovunque, dicono, potrebbe essere già arrivato, è arrivato e l’abbiamo preso, è arrivato e sta tornando, è arrivato e sta aumentando. È qui e ora, non se n’è mai andato. Costringe l’umanità intera a un unico, beffardo precetto: non toccarsi. Tutti dietro uno schermo, per sempre. O fino allo sterminio completo della razza umana a causa di un mostro che non si vede ma che si uccide lavandosi le mani col sapone.
«Pare che il fratello di una collega l’abbia preso».
«Una docente?».
«Suo fratello, ma vive in provincia».
«Ma è qui la docente?».
«No, per fortuna no, oggi no, ma c’è la sua classe».
Una professoressa mi rivela la notizia, è preoccupata: guarda verso una direzione precisa, alcuni studenti parlottano tra loro, un gruppo compatto, colorato, sbracciato. Al termine dell’incontro con lo scrittore famoso sale una certa agitazione nell’aula magna, mentre i ragazzi si allontanano e Blue Monday riprende dagli altoparlanti, a palla – pare che il protagonista del romanzo dello scrittore famoso ascolti i New Order, svelato il cazzo di arcano.
Un quotidiano locale, quello stesso pomeriggio dell’incontro con l’autore, del mega assembramento, avanzerà il sospetto che sia una professoressa della scuola quella contagiata, non suo fratello. Il preside invierà una circolare, una nota stampa, parlando di calunnie, di procurati allarmi. L’indomani, su ordinanza provinciale, tutte le scuole superiori della zona verranno chiuse per essere sanificate: tre giorni di chiusura prima di nuove disposizioni in merito. Intanto, si viene a sapere che sono entrambi, i contagiati. Fratello e sorella. E che lui è grave, è in ospedale. Morirà.
È il 27 febbraio del 2020.
Proprio una bella trama.
Racconto e foto di Alessandro Galano
*****
Alessandro Galano (Foggia, 21/07/1982). Si laurea in Lettere Moderne con lode e prende un Master in Giornalismo. Giornalista pubblicista dal 2006, idoneo all’esame di Stato come giornalista professionista dal 2008. È docente di italiano. Dal 2001 collabora con testate giornalistiche. Ha pubblicato racconti su diverse riviste letterarie. Dal 2009 è responsabile eventi per Ubik Librerie, curando le attività culturali della Ubik di Foggia. È responsabile comunicazione del concorso Leggo Quindi Sono-Le giovani parole, rivolto agli studenti. Dal 2016 organizza il Foggia Festival Sport Story – lo sport attraverso le arti.