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Ananas

I ricordi ignorano lo scorrere del tempo. Affiorano come ferite sul tessuto del presente, veicolati da improbabili armi.

Quella mattina l’ingorgo fece riversare un’orda di clacson e metallo su un pezzo della tangenziale non adatto a contenerlo. Pioveva sulle fredde capotte delle automobili mentre nei caldi abitacoli i guidatori spargevano livore dagli angoli della bocca. Ethan era solo infastidito, non aveva appuntamenti e all’agenzia sapevano di certo prenotare un viaggio online senza la sua supervisione. Si passò una mano sulla nuca, con l’altra slacciò la cintura di sicurezza e controllò nello specchietto retrovisore: macchine incolonnate condividevano lo stesso destino. Una sirena sopraggiungeva confondendosi nel lamento generale.
No, nessuno si interessava a lui; inoltre era sicuro di aver lasciato Caterina distesa sul letto quando era uscito da casa. Il bussare della pioggia sul parabrezza lo costrinse a evadere dai suoi pensieri e tornare al suo ruolo di pilota immobile. Stuzzicava la manopola dello stereo e, nell’attesa, si decise a comporre il numero dell’agenzia per avvertire dell’inconveniente. Arrivò appena al prefisso: un cartellone pubblicitario oscenamente grande invadeva un marciapiede. Al suo interno, una famigliola si abbracciava e sorrideva nonostante il maltempo, lo smog e il frastuono.
Erano gli unici a sorridere.
La pubblicità esortava a provare la felicità della famiglia ignota nei nuovi centri abitativi, a pochi chilometri dal grande raccordo anulare. Ethan vagliò distrattamente la perfetta abbronzatura del padre, il sorriso avorio della madre, i dispetti del figlio più piccolo verso la sorella maggiore, già ebbra di ormoni. Ciò che lo colpì fu il volpino: aveva un’aria trafelata, la pioggia portava refrigerio bagnandogli la lingua. I suoi occhi, invece, parevano asciutti e vigili. Ethan protese il collo verso il finestrino. Sarebbe rimasto sospeso in quel limbo se le auto lì attorno avessero condiviso con lui quel fotogramma del passato. Presero invece a muoversi. Finì di comporre il numero sul cellulare. Un sorriso disegnò delle rughe sul suo volto baciato ancora dalla giovinezza.
Il cane era identico a Bobby.

Ethan entrò nell’agenzia quando l’orologio a muro, raffigurante la torre di Londra, segnava le 12:47. Poster di destinazioni esotiche e divanetti accoglievano il giovane capo, seguiti dai saluti di Elena e Anna. Le due donne sedevano ai lati opposti della sala centrale, protette da scrivanie e monitor; entrambe si soffermarono sull’involucro che Ethan teneva sotto il braccio. La terza scrivania in fondo era vuota. Due porte chiuse, su pareti differenti, si presentavano in maniera asimmetrica rispetto all’intero arredamento.
«Buongiorno Anna. Ciao Elena, mi ha cercato qualcuno?»
«Buongiorno sig. Aloisi.» disse Anna.
«Ethan, Amid mi sta tempestando di chiamate. Vuole parlarti dei pacchetti viaggio per il Libano.» disse Elena.
«Come fai a ricordarti il suo nome ogni volta! Oh scusa le spalle Anna! Come va?»
«Sig. Aloisi, sono tutti molto…»
«E dai! Chiamami Ethan. Giorgio è andato in missione?»
«Non ne ho idea. Lo sai com’è fatto: farfuglia qualcosa prima di uscire e non si capisce mai nulla!» scherzò Elena mentre riordinava i suoi appunti.
«Peccato. Sto per disfarmi della finta pendola a muro e volevo fosse presente.» Ethan prese una sedia, poggiò l’involucro contenente il nuovo orologio sulla scrivania di Giorgio, mise una delle pagine del giornale del mattino sul sedile, per salvaguardarlo dal fango e ci salì sopra. Aveva da poco completato la sostituzione, quando sentì la voce maschile a lui così familiare:
«Perché esco dall’ufficio con il Big Ben che mi protegge le spalle e torno trovandomi davanti una signora verde, esaltata, con una torcia in mano, a ricordarmi quante ore mancano alla mia libertà?»
«Ciao poeta. Bello vero?» Disse Ethan scendendo dalla sedia.
«Si, ma perché hai dovuto togliere il Big Ben? Puoi metterlo nel tuo ufficio il “donnone del sogno americano”.» disse Giorgio avvicinandosi.
«Non voglio orologi nel mio ufficio.» disse Ethan continuando a osservare la parete.
«La British Airways l’anno scorso ha costituito, da sola, un buon 30% del nostro fatturato. Non pensi dovremmo pubblicizzarla con ogni mezzo?»
«Mettiamolo nello sgabuzzino e quando passa un promoter della British lo riattacchiamo.»
«Non abbiamo uno sgabuzzino.» incalzò Giorgio.
«Nel bagno.» indicò Ethan.
«Sentite io vado in pausa pranzo, Anna tu vieni?» disse Elena.
«No grazie. Io mangio qui.»
Annuendo Elena si fermò sulla soglia alcuni istanti, indossò il cappotto e uscì.
Ethan approfittò dell’interruzione e si diresse verso il suo ufficio: aprì la porta, piantò i piedi e lanciò come un cestista le chiavi dentro il secchio della spazzatura, eternamente vuoto. Annuì soddisfatto del suo canestro. Attese il bussare alla porta con un ghigno; il ritmare delle nocche sul legno arrivò puntuale: Giorgio indossava un completo a righe con un papillon che sviava l’attenzione dalla sua incipiente calvizie.
«Quando ti è venuta l’idea dell’orologio?» Giorgio chiuse la porta.
«Un’oretta fa.»
Iniziò a stropicciare con le dita gli angoli delle brochure sulla scrivania. «C’è altro che dovrei sapere?» disse Giorgio senza alzare lo sguardo. «Credevo che le decisioni si prendessero assieme.»
Stiracchiandosi Ethan si avvicinò alla finestra che affacciava sul cortile condominiale. «Qui non ho nulla di casa, volevo… non so… un’immagine che me la ricordasse.»
Giorgio fermò le mani: «Non ci avevo pensato, scusa.» abbandonò la postazione e raggiunse Ethan alla finestra «Alla fine il tuo cuore è a stelle e strisce.»
«Non siamo ai giardinetti. Non devi più preoccuparti di un bambino che frignava e non capiva la lingua.» Ethan scansò la mano di Giorgio: «Sto bene, anzi ho sbagliato a portare il discorso sul personale. Hai ragione tu. Rimettiamo l’orologio della nostra torre salvadanaio nella hall.» ammiccò all’amico. «Troverò posto per la statua della libertà in questo mio angolo di paradiso.»
«Il bambino che frignava ora è più alto di me di 20 centimetri. Il mio non era altruismo ma un investimento a lungo termine.» risero assieme.
Dalla chiacchierata con Giorgio era passata appena un’ora, quando Ethan ripensò a Bobby. Era stato il suo cane quando era bambino, il suo unico cane. Glielo avevano regalato i suoi più per sfinimento che per convinzione. Assieme alle dieci candeline trovò una piccola palla di pelo saltellante. La torta franò a terra formando un Picasso appiccicoso. Ethan rideva lanciandosi appresso a Bobby, mentre la madre si pentiva del regalo e il padre si chinava per evitare che il cane insegnasse al figlio come si lecca un pavimento. Era stato uno dei giorni più belli della sua infanzia.
Dopo l’incidente, Bobby divenne tutta la sua famiglia: iniziò a sentirsi responsabile per lui, e quando zio Enrico lo adottò, la condizione era: dove andava Ethan andava Bobby.
La nave impiegò dodici giorni per portalo dall’America in Italia. Ogni notte, per farsi forza, Ethan abbracciava Bobby sotto le coperte. Desiderava che quel Titano degli oceani si inabissasse, portando con sé la mandria di buffoni. Li odiava i vacanzieri: con loro non condivideva nulla. Durante il giorno era anche peggio. Ethan evitava di uscire dalla sua cabina per frapporre il maggior numero di metri possibili tra le sue orecchie e le risa festose di gente in piscina, sul ponte o al cocktail bar. Arrivò a credere che la nave da crociera fosse un mostro bramoso dal ventre gonfio: ingannava i passeggeri con vizi e illusioni in attesa di divorarli tutti.
Si portò via l’unica e ultima vita importante per lui.
Enrico gli lasciava molta libertà. Lo andava a trovare quando non era nella sala controllo o non stava sfruttando il suo grado di capitano per scopi personali. A Ethan facevano piacere le visite dello zio: gli mostrava foto di mete esotiche in cui aveva lavorato, sotto la sua supervisione poteva toccare il timone e comandare il mostro. Poco importava, se in presenza dello zio, Bobby non potesse stare sulla cuccetta: «Puoi prenderti delle malattie.» ripeteva Enrico intonando un’ode all’igiene.
Quel mattino il mare era agitato e con lui Bobby. Ethan cercava di distrarlo proponendogli giochi e carezze. Fu allora che la vide: una capocchia di spillo vermiglia, circondata da peli giallo cenere alla base del collo dell’animale. Si gonfiava lentamente. Sembrava un minuscolo palloncino colorato. Incuriosito Ethan chiese delucidazioni al suo inseparabile amico; in risposta ottenne qualche salto e leccate sulla mano. Cercò lo zio per mostrargli lo strano neo rossastro. Enrico disse che era semplicemente una zecca e andava tolta. Ethan non capiva: perché andava tolta se Bobby l’aveva voluta su di sé? Provò a parlare ma non uscirono suoni dalla bocca da latte. Lo zio si fece aiutare da alcuni inservienti: portarono alcol, pinze e asciugamani. Quattro braccia tenevano fermo un involucro di pelo che, a stento, raggiungeva i 5 chili. Il piccolo Ethan scorse negli occhi del suo cane un profondo pozzo, colmo di colpa. Il contatto con quella certezza lo pietrificò. Con la scusa del parassita, Enrico vietò al cane di dormire con il suo padrone.
Due notti dopo, Bobby era morto.

«Sig. Alo… Ethan?»
«Come?»
«Mi scusi, come le stavo dicendo c’è una chiamata in attesa.»
Ethan vide il led numero due pulsare di luce viva.
«Anna, non ti ho sentita. Chi è?»
«Caterina.»
«Grazie. Puoi andare. Oggi chiudo io.»
Come fosse diventata sorda, Anna restò in attesa.
«Dico sul serio e vale lo stesso per Elena.» ribadì Ethan.
«Grazie! Vado a dirglielo subito.»
Lo stupito sorriso di Anna lasciò la stanza mentre quello simulato di Ethan continuava ad appestargli la faccia. Gli ci vollero alcuni secondi per riuscire a indossare nuovamente la maschera da Saltimbanco e alzare la cornetta:
«Hi my shine.»
«Parlo con lo smemorato che doveva chiamarmi?» esordì Caterina.
«Credevo fossi ancora a letto.»
«Vivendo in America, forse. Sono le 15:40, se fossi ancora a letto sarei in coma.» lo canzonò Caterina.
«Beh vista l’intensa attività fisica…»
«Oh piantala scemo! Non voglio parlare di quello.»
«Allora io non voglio parlare di tutto quello avvenuto prima di quello.» sentenziò Ethan.
«Sono mesi che sfuggi all’argomento.»
«Perché tu mi fai sempre la stessa domanda. Dovresti essere più creativa: prendi lezioni da Giorgio.»
«Va bene» sospirò Caterina. «Allora trovalo tu un sinonimo di convivenza e poi dammi la risposta. Magari l’ispirazione ti verrà a cena da me?»
«Non posso. Enrico è a Roma e mi ha già prenotato.»
«Il capitano di marina si degna di venire a trovare il figlio. Come mai non provi a chiamarlo papà?»
Un sommesso respiro fu la risposta dall’altro capo della cornetta.
«Ethan?»
«Perché lui è mio zio. Caterina devo andare. Ti chiamo dopo.»
«Sappiamo entrambi che dovrò farlo io.»
Attaccando il telefono, Ethan raccolse le chiavi da dentro il cestino. Si sistemò nello spazio dell’invisibile lunetta e si isolò. Aveva bisogno di un altro canestro.

Il sole compiva il suo esilio notturno; Ethan sperò di confondere, con le ombre della sera, l’inappetenza che giocava coi suoi dubbi. Non vi riuscì: odori di carni e frittura gli aggredirono il naso e lo misero di fronte a Enrico. Non lo vedeva da oltre un anno. Era più abbronzato dell’ultima volta, e più grasso.
«Ethan sei tu? Come vedi mi ricordo i tuoi orari, è quasi pronto.» disse Enrico.
«Si ok, mi cambio e arrivo.»
Sedendosi a tavola Ethan trovò il solito Enrico: «La caprese, la carbonara e il pollo con i peperoni ci aspettano in forno. Per una sera mangerai in maniera decente.»
«Sono anni che mangio cucina italiana.» disse Ethan.
«Sei sicuro? Ho controllato il frigo. Ci sono le peggiori schifezze dentro.»
«Ma se è quasi vuoto.»
«Infatti te l’ho riempito io. Domani chiamo la colf e faccio pulire tutto.»
«E tutto si sistema giusto?» mormorò Ethan.
«Come?»
«Niente.»
Ethan non voleva alimentare il disagio e addusse una scusa: «Henry è tutto buonissimo ma sono pieno e tra poco mi vedo con Caterina.»
«Ma è la stessa dell’anno scorso?»
«Si.»
«Sai come la penso: sei giovane, dovresti divertirti. Però ti vieto di andare via se non assaggi qualche prelibatezza dei tropici. E non sto parlando delle prugne che ti spacciano come papaie al mercato rionale.»
«Sono pieno. Assaggio giusto l’ananas.»
«Ma io non l’ho portata.»
«Nel frigo dovrebbe essercene ancora.»
Enrico servì la portata conclusiva. Aveva ripreso a parlare, sfoderando i suoi aneddoti e le conquiste sotto le lenzuola. Il brulicare di parole si disperdeva e periva inascoltato: Ethan tormentava l’ananas. Non riusciva a mangiarla. Trovava disgustosi, all’interno del frutto, i minuscoli semini rossastri. Cosa ci facevano lì? Non c’era sangue che potessero succhiare.
«Ethan mi stai ascoltando?»
«Scusa, ero distratto da questi stupidi semi.»
«Che semi?»
«Dell’ananas.»
«L’ananas non ha semi.» ridacchiò Enrico.
«E allora come li chiameresti?»
Il piatto, con sopra il vascello giallo, andò a speronare i relitti delle portate passate e si infranse ai piede della scogliera di vetro ricolma di vino.
«Ma che fai? Sei scemo?»
«E’ proprio lì il problema: tu pensi siano tutti scemi. Non solo credi di avere sempre la risposta a tutto, ma pretendi sia anche quella giusta!»
Ethan piantò le braccia sulla tavolata.
«Non ti è mai venuto il dubbio che sia stato tu a ucciderlo?»
«Ethan ma di che parli?»
«Di Bobby.»
«Bobby?»
«IL MIO CANE!»
Enrico trattenne il respiro e deglutì: «Ethan,» alzò le mani «Il cane…»
«Si chiama BOBBY!»
«Si si Bobby. Bobby aveva una grave malattia. Non lo ha ucciso nessuno. Ti prego calmati.»
«Te la cavi così? Da oggi conieremo un nuovo termine: la “Henrysposta”, la risposta definitiva.» Ethan scoppiò a ridere.
«Ethan basta, stai sbavando.»
«No zio non capisci, tu sei sprecato come capitano. Dovresti fare il negoziatore, no, che dico, il terapeuta!» alle risate di Ethan iniziarono ad aggiungersi lacrime. «I miei muoiono in un incidente aereo e tu cosa fai? Mi metti a lavorare in un’agenzia viaggi. FOTTUTO SADICO!»
«Come mi hai chiamato? Io ti ho cresciuto. Io sono tuo padre.» Enrico si alzò a sua volta.
«Padre» disse Ethan passandosi una mano sulla bocca. «Ti ricordi quando mi hai parlato per la prima volta della tua infertilità? Avevo 12 anni e ti sei messo a raccontare come, nei tuoi viaggi, risparmiassi molti soldi in preservativi. Ti sei mai chiesto come mai sei sterile? Perché se esiste un Dio, ha voluto evitare avessi dei figli!»
Quando la porta sbatté, Ethan stava già correndo verso la macchina usando il pollice della mano per una chiamata rapida.
«Già finita la cena?» disse Caterina.
«Ho deciso che risponderò alla domanda. Ma non a casa tua.»
«Ethan che succede? Hai il fiatone.»
«Ti risponderò sull’aereo.»
«Quale aereo?»
«Quello che ci porterà in America. Voglio farti conoscere i miei genitori.»

Copertina di William Bersani

12 pensieri su “Ananas

  1. Racconto che rende bene, con toni vicini alla commedia, la difficoltà di confrontarsi col passato. Il ritmo della narrazione è appropriato, ho apprezzato in particolare l’ottima calibratura del flashback sul viaggio in mare e le parti descrittive, brevi sì ma estremamente incisive.

    1. Grazie per i complimenti motivati 🙂
      Mi ha fatto molto piacere che tu abbia voluto mostrarmi il tuo punto di vista sul racconto.
      Mi farebbe molto piacere se volessi partecipare con un tuo testo nella sezione Ospite.

  2. Bella definizione, romano dalla carnagione friulana, fortissima, ammiro la volontà di tramutare in scrittura il lato indefinito, alle volte il nostro DNA ci ricorda che noi siamo il continuo dei nostri avi, scoprendo la nostra storia, le nostre origini scopriamo che facciamo parte di mondi splendidi che segretamente portiamo dentro di noi, confermo che i ricordi rimangono per sempre impressi nella mente, belli o brutti sono sempre un insegnamento che ci sprona a vivere meglio.
    La narrazione del racconto ANANAS mi piace molto, ricco di particolari che accompagna la fantasia del lettore all’interno della storia con garbo e scioltezza, come in un film il finale bellissimo, il ritorno alle origini per riprendere il filo della propria esistenza, i ricordi se rievocati per una crescita diventano miracoli, arricchiscono il percorso della nostra vita.
    Un in bocca al lupo per il percorso scelto di scrittore che nessuna pagina rimanga bianca ma che sia riempita di magnifici contenuti.

    Renata Marcella Capriz di Cigliè

    1. Ciao Renata.
      Grazie per questo tuo commento del tutto inaspettato. Sono contento ti siano piaciute la presentazione e il racconto.
      Sicuramente i mondi interiori che si possono creare con l’immaginazione sono senza confini imposti, ricchi di luce e ombre.
      Il finale di Ananas viene vissuto in maniera diversa, a volte spiazza. Ethan avrà una crescita? Forse un giorno lo scoprirò continuando la sua narrazione.
      Crepi il cacciatore!

      Ancora grazie, per un commento così ricco.

  3. Un racconto tecnicamente perfetto e un’analisi lucida cinica e tagliente (seppur fantasiosa) di uno spaccato di vita del nostro tempo! Traspare inoltre, un verismo leopardiano alla ricerca ossessiva di concretezza, di sicurezza del vivere in una visione surrealista nostalgica alla ricerca del colore, della pop art …. dove la vita comincia ad avere un sapore straordinario e un odore meraviglioso !!! Vai e vola sulle ali dei i tuoi progetti, della tua creatività, delle tue aspirazioni più belle e più fantasiose ….. corri con i tuoi pensieri e vedrai che tutto sarà possibile …….
    zio Max

    1. Parto dalla fine per ringraziarti di un augurio che esula dal singolo testo ma sfocia in una prospettiva di futuro pieno di testi e bozze da completare.
      Voglio anche invitarti a leggere i futuri racconti del collettivo perché è sempre bello vedere stili differenti fra autori esordienti.

      Un abbraccio

      P.S: Poi mi spiegherai del verismo leopardiano che è un aspetto dove ho serie lacune!

  4. Bel racconto con flash su alcune situazioni:la tangenziale intasata al mattino,l’interno di un ufficio,e dialoghi che finiscono sui ricordi.
    L’iter narrativo va dallo spazio esterno verso quello interno dell’anima.L’esito è affrontare il dolore,per cominciare una nuova vita.
    Come ne “L’abbraccio”,anche in questo racconto la natura,rappresentata dall’ananas,ha una funzione positiva,liberatoria.
    Il prevalere dei dialoghi,quindi del tempo reale su quello abbreviato,rende vivace la narrazione.

    1. Ciao Annamaria.
      È bello poter leggere i tuoi pensieri dopo averli sentiti a voce. Mi piace il tuo confronto sui miei primi due racconti e,in generale, su come hai sviscerato l’intero testo, andandolo ad analizzare in una forma più oggettiva.
      Ananas è stata una liberazione per me sotto tanti punti di vista.

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