Amelia

Amelia

“È tornata Amelia”.
Siamo distesi sul letto da quasi un’ora. I suoi capelli lunghi mi fanno il solletico al braccio ma spostarmi richiede troppe energie. È la prima frase che le sento pronunciare da un sacco di tempo ed era l’ultima che avrei voluto ascoltare. Ora capisco perché non siamo riusciti a fare l’amore.
Le prendo una mano e me lo lascia fare. Sento la pelle liscia, calda, interrotta solo dal metallo freddo della fede che le avvolge il dito. Le va larga, più di quando gliela infilai la prima volta, e giocandoci arrivo quasi al punto di sfilargliela.
“Me ne sono accorta da qualche giorno ma avevo paura a dirtelo” fa una pausa e abbassa la voce. “L’ultima volta è stato difficile”.
Suona come un eufemismo ma evito il sarcasmo. Il dottore ha detto che non serve, anzi. L’ironia sì, il sarcasmo no.
“Ti ricordi perché l’abbiamo chiamata così?” le chiedo.
“No”.
“Ma come no? Eppure è stata una tua idea!” mi stupisce che non se ne ricordi, anche se la chiamiamo così da talmente tanto tempo che ci sta. O forse è un effetto collaterale di Amelia. O dei farmaci, malgrado non ne prenda più da mesi. Forse è l’effetto della mancanza dei farmaci.
“Aspetta” mi dice. Si porta un braccio sulla fronte, a coprirsi gli occhi. Vorrei allungarmi per spegnere la luce, magari le dà fastidio, ma mi sforzo di non intervenire. Il dottore dice di lasciarle più spazio, non ha bisogno di essere protetta, è adulta.
“Me lo sono ricordata. Per la strega di Topolino”.
Sorrido. Lei ha ancora gli occhi coperti e non può vedermi. Le stringo la mano e mi avvicino “Amelia, la strega che ammalia” le sussurro.
Sorride anche lei. Questa è ironia, sto andando bene.
“È proprio il nome giusto. Quando arriva sembra come il canto delle Sirene di Ulisse” dice togliendosi il braccio dagli occhi e appoggiando anche l’altra mano sulla mia.
È un’immagine perfetta: quando arriva Amelia la attira a sé senza lasciarle scampo e con il suo sortilegio la fa smettere di mangiare, la fa inabissare in un sonno profondo nemmeno fosse la Bella addormentata nel Bosco. Quella che insieme chiamiamo Amelia e che io chiamo depressione me l’ha già strappata tre volte. Stranamente, la nascita di Luca non è stata tra queste. Il dottore ci aveva avvertiti che per lei sarebbe stato rischioso avere un bambino, sembra che le donne con una storia clinica di depressione siano più predisposte a quella post partum. Per lei però è stato diverso, lo voleva talmente tanto. È stata una madre fantastica, finché ha potuto.
“Hai paura?”
È strano che me lo chieda, è la stessa domanda che vorrei farle io. Mi mordo le labbra, perché se fossi io a farla sarebbe una domanda stupida. Ci penso su prima di rispondere.
“Un po’”.
Storce il naso, forse ho sbagliato. Il dottore però dice che bisogna essere sinceri, solo così si crea un legame profondo e una vera intimità relazionale. Lei inizia a piangere. Vorrei che il dottore fosse qui ora per asportarmi il senso di colpa che mi sta soffocando. Penso a tutte le lacrime che le ho asciugato e al fatto che sono solo una piccola parte delle lacrime uscite da lei e sento crescere un forte senso di nausea. Respiro profondamente cercando di tenerlo a bada e lei deve accorgersene perché smette di piangere. Dovrei essere contento ma penso che l’abbia fatto solo per me.
“Scusa” mi dice.
Adesso so per certo che mi romperò in tanti pezzi, rotoleranno sul pavimento in tutte le direzioni fino a sbattere contro i muri. L’ultimo pezzo sarà quel malloppo di colpa, impotenza e disperazione che alberga nelle mie viscere e si nutre delle sue lacrime, dei suoi chili persi e delle sue ore di sonno, dei suoi “non mi va”, dei “resto a letto un altro po’” e dei “come vuoi”. Sarà il pezzo più grande.
“Non devi chiedermi scusa, lo sai. Non c’è niente di cui scusarsi”. E invece scusa vorrei urlarlo io, vorrei stringerla tra le braccia, sbatterle in faccia tutta la frustrazione, dirle che non la capisco, che questa cazzo di depressione non l’ho mai capita e non la capirò mai, che mi fa rabbia, dirle che è facile reagire così a ogni minima stronzata mentre io mi rimbocco le maniche e vado avanti nonostante il malloppo, nonostante ciò che dice il dottore, nonostante gli errori, nonostante la vita e nonostante lei.
“Basta piangere e basta chiedere scusa, dai, alziamoci”.
“Non mi va”.
Il malloppo cresce, sazio della mia negazione. Non serve negare, dice il dottore, il suo dottore. Il mio, quello che lei non conosce, dice che sto andando bene, che non è facile affrontare il dolore di qualcun altro, soprattutto quando si è presi a contattare il proprio. Dice anche che non è da tutti restare. Altri mariti se ne sarebbero andati, nella nostra situazione, dopo quello che ci è successo, ma io sono rimasto e non devo essere troppo severo con me stesso. Nemmeno a lui ho avuto il coraggio di dire che senza di lei non avrei saputo dove andare, perché neanche me la ricordo la vita prima di lei, prima di Luca.
“E allora restiamo qua. Sai a cosa sto pensando?”
“No”.
“Che Amelia ha un nome ma non ha un volto. Come te la immagini?”
Non so da dove cazzo mi sia uscita questa stronzata adesso. Sarà la prima cosa che chiederò martedì al mio dottore. Lei sembra pensare seriamente a una risposta da darmi.
“Mora, occhi scuri, carnagione scura. Coi capelli lunghi, piatti e fini. E alta, tanto alta. E magra”.
Non me la immaginavo così, ma va bene. Chissà cosa direbbe il suo dottore. E’ stato lui a consigliarci di personificarla, quindici anni fa, di darle un nome per cominciare a percepirla come qualcosa di esterno, di lontano, per tirarla fuori da lei, da noi.
“E quanti anni avrebbe?” proseguo perché ho l’impressione che le faccia bene.
“L’età di Luca” risponde subito, con voce ferma e sicura.
“Ma Amelia…” vorrei dirle che Amelia è arrivata prima di Luca ma è un’osservazione inutile e la evito.
“Sì, lo so, Amelia è arrivata prima di Luca ma da quando è arrivato lui è cresciuta, quindi avrebbero la stessa età”.
Ecco, questa è un’ottima spiegazione, perché mia moglie sotto al velo di tristezza che la attanaglia è intelligente. Vorrei stringermi ancora di più a lei.
Mi chiedo come ne usciremo, questa volta. E mi dico che non potrà essere peggiore di quella precedente e che se siamo riusciti a uscirne l’altra volta ce la faremo ancora. Pensieri positivi, dicono entrambi i dottori. Sto andando bene.
“Ti amo” le dico.
“Lo so”.
“Devo fare pipì”. Mi chiudo in bagno e piango anch’io. Una delle parti più difficili della sua malattia è che asfalta tutto, anche i sentimenti per me. E quando le dico ti amo non mi risponde mai.
Mi sono sempre chiesto se non fosse lei a volersene andare e se il suo restare fosse dovuto solo a una mancanza di forze, all’apatia, alle energie che vengono meno altrimenti non sarebbe depressa. Mi vergogno. Sto attento a tirare l’acqua per rendere la mia fuga credibile e mi asciugo il viso. Mentre torno da lei, a letto, passo davanti alla camera di Luca.
“Senti, se tu potessi dirle qualcosa, cosa le diresti?” le chiedo sdraiandomi di nuovo.
“Basta”
“Ok la smetto”. Sono un’idiota.
“No, le direi: Basta!”.
Mi sento meglio.
“E tu che le diresti?”
Non è il caso di rispondere d’impulso. Ci penso su qualche secondo, prendendole di nuovo la mano. Vorrei dire la cosa giusta ma non so dove iniziare a cercarla.
“Le direi che forse in qualche momento può essere stata utile ma adesso stiamo bene da soli, io e te”.
Non dice niente. Ho fatto un casino, era difficile farla stare peggio di così ma io ci sono riuscito e avremo di che parlare, dal suo dottore, nella prossima seduta.
Continua a rimanere in silenzio, così a lungo che mi lascio invadere dal suo torpore e mi addormento. A svegliarmi è il peso leggero della sua testa sulla spalla.
“Voglio andare di là. Te lo dico sennò non mi trovi più a letto e ti spaventi”.
“Ti va bene se vengo con te?”
Fa sì con la testa. Sta già riducendo al minimo gli sforzi.
Ci alziamo e la seguo mentre entra nella stanza di Luca. Si ferma a guardare il suo letto, piccolo. Mi fermo dietro di lei e le appoggio le mani sulle spalle, massaggiandole un po’.
“Sai che pensavo?” mi dice voltandosi e guardandomi negli occhi. E’ strano che lo faccia, Amelia le abbassa lo sguardo di solito “Che questo letto è vuoto da un sacco di tempo”.
Vorrei dirle che lo so ma la voce non esce. Le lacrime sì e mi vergogno ma non mi copro.
“E allora qui dentro ci potremmo sistemare Amelia. Io… io la vorrei mettere a letto”.
Una parte di me inizia a pensare che sia impazzita, ma do ascolto alla parte che si sente sollevata, che vuole vederci speranza. Mi perdo tra le voci dei dottori, mentre continuo a piangere in silenzio, e non riesco a decidere cosa vedrebbero loro nelle sue parole.
“Va bene, facciamolo”.
“No, lo faccio io”.
La ringrazio nella mia testa, perché io non ce l’avrei fatta a sollevare la coperta, a vedere ancora le lenzuola con le mongolfiere, le stesse di dieci anni fa, pronte a emanare l’odore da bambino di Luca, l’unico odore che ho sentito di lui. Invece lei lo fa, e non capisco se la forza gliela dà Amelia o ce l’ha di suo, ma un po’ la invidio per questo. Li lascio da soli, lei, Amelia e il fantasma di Luca. Mi appoggio allo stipite della porta per fare da spettatore a quello che sento essere un piccolo trionfo.
La mette a letto proprio come faceva con Luca poi si volta e viene verso di me, superandomi. La seguo fuori dalla stanza e lei chiude la porta.
Mi sorride e mi abbraccia, affondando la testa nel mio petto.
“Ho fame” mi dice sciogliendosi dall’abbraccio e vorrei gridare di gioia.

Copertina di Doctor Tale & Mister Shot

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