L’idraulico e l’attacco dei ribelli

L’idraulico e l’attacco dei ribelli

Lucio Cascavilla torna a Spazinclusi per raccontare le sue esperienze africane a Bukavu, nella Repubblica Democratica del Congo.
Le sue pubblicazioni: Punk road in Cina (Robin, 2012), racconto dell’avventura decennale di Lucio come rockstar degli Smegma Riot in Cina; L’utopia del rispetto (Lettere Animate Editore, 2016), romanzo di fantascienza; Sogni, segni e sintomi. Racconti dalla Cina (Morlacchi, 2019), raccolti nella Terra di Mezzo durante la sua lunga permanenza cinese, tra Kunming, Canton e Pechino; Tre storie per non morire (Morsi Editore, 2022), graphic journalism scritto da Lucio Cascavilla e illustrato da Marco Vesco, Assia Ieradi e Riccardo Mattia.
È inoltre regista del documentario The Years We Have Been Nowhere, realizzato in Sierra Leone, che uscirà il 27 settembre 2023 nei cinema.

***

Uno scoppio fragoroso.
Apro gli occhi, li ruoto nella penombra della stanza, mentre una lama di luce penetra attraverso una fenditura, tra le tende socchiuse. Un secondo scoppio mi fa sobbalzare, ma la palpebra è già scesa. Deve trattarsi di un grosso camion che passa davanti al cancello. Per riaddormentarmi faccio il conteggio, come fossero pecore, di tutte le rotture di coglioni che attraverseranno la mia giornata.
Il viso tondeggiante e sorridente di Monsieur Annycet, l’ingegnere che pretende di essere il mio idraulico, prende forma nella mia mente. Una settimana fa ha cominciato i lavori nella casa in cui ci siamo trasferiti a Bukavu, nella Repubblica Democratica del Congo. Martedì scorso mi aveva assicurato che in settanta minuti avrebbe risolto tutti i problemi con le tubazioni e la pressione dell’acqua ma, da otto giorni, ricevo le sue visite tutte le mattine. La soluzione si è avvicinata, qualche millimetro alla volta, ma il problema è tornato a galla.
Sera precedente, ore 10.47, il buio inondava il giardino, un’esplosione. La guardia armata di kalashnikov, stipendiata dalla ONG per cui lavora mia moglie, si è guardata intorno sospettosa. Dopo una decina di minuti è riuscita a indicarmi la tubatura: il connettore tra la cisterna e la motopompa dell’autoclave si era staccato. Niente acqua in casa, né scarico, né denti da lavare.
Appena metterò il piede a terra, con la voce impastata di sonno, chiamerò Monsieur Annycet, inveirò contro di lui sino alla quarta generazione, e mi preparerò ad averlo tra i piedi per il nono giorno consecutivo, weekend esclusi.
Un ronzio.
Mia moglie ha risposto all’odioso cicalio del telefono e blatera in germanico, la sua lingua natale. La scaccio dal letto con un grugnito, lei si scusa ed esce abbassando la voce. Mi giro, annoiato, le labbra impastate di sonno: forse ho un’altra ora di riposo prima che suoni la sveglia.
Ancora un borbottio: cosa può essere mai successo, un giovedì mattina del cazzo, alle 6.30, a parte i problemi idraulici?
– Oggi non possiamo andare a lavorare!
Non tutte le cattive notizie vengono per nuocere: posso dormire qualche minuto in più.
Il cervello ancora incrostato di sogni comincia a macinare, il criceto che vi dimora si libera delle pastoie e galoppa nelle praterie dei pensieri, mentre mia moglie annuncia:
– I ribelli.
Mi siedo sul letto, con gli occhi chiusi, le cellule grigie non riescono ancora a connettersi.
– I ribelli si sono introdotti in città alla spicciolata e sono entrati in azione. – Prosegue lei.
– Che… Ma quando?
– Ancora non si sa nulla, ma è sconsigliato uscire di casa.
Mentre mi alzo penso ad Monsieur Annycet: se non posso uscire, lui non può entrare. Sfioro la porta della cucina, ieri ho dimenticato di lavare i piatti. Scosto la tenda della finestra del soggiorno e do un’occhiata all’esterno.
– Non dobbiamo avvicinarci alle finestre!
Sistemo la tenda e vado in bagno. La finestra non è in corrispondenza della tazza, almeno non rischio una fine indegna.
Poi un baluginio, una crepa nel cervello.
Sono arrivato a Bukavu da circa un mese, ma nessuno sa che sono qui. Inutile ripetermi quanto sia inefficiente il servizio diplomatico italiano: Etiopia, Tigrai, il molto onorevole console onorario, quella volta aveva avuto l’ardire di rispondere al telefono:
– Guardi, io ho già abbandonato il paese, lei si rivolga alla delegazione francese, sono loro che si occupano dell’evacuazione degli europei.
Mentre ricordo arriva un’esplosione.
Artiglieria leggera?
Sembrava un bazooka, ma non posso esserne sicuro, quel tipo di detonazione l’ho sentita solo nei film.
I nostri telefoni vibrano e una serie di informazioni si materializzano sotto forma di messaggi ed email che si contraddicono a vicenda, come se tutti gli animali stessero scappando dalla foresta equatoriale nella quale ci troviamo e cercassero riparo nella savana in direzione ostinata e contraria.
Chi? Cosa? Come? Dove? Perché?
Un altro colpo di bazooka.
Provo a tirare lo scarico, ma solo dopo aver premuto il bottone a fondo, per due volte, mi ricordo che l’acqua non c’è. Riempio il secchio da una tanica gialla e lo utilizzo per liberare il condotto, poi mi avvicino al lavandino, uso il dosatore di sapone in plastica, apro il rubinetto e mi maledico per l’ennesima volta.
L’elettricità non è ancora stata staccata, il telefono ha una buona connessione e internet continua a funzionare.
Siamo noi gli unici stronzi a non avere l’acqua mentre intorno tutto funziona alla perfezione?
Mi stendo a terra o mi siedo in poltrona?
Come una giga, gli spari si avvicinano e si allontanano. Non capisco se quelli dei miliziani sono in battere o in levare. Rientro nella stanza e indosso i pantaloni, poi la maglietta. Se c’è da morire, o da scappare, meglio essere a proprio agio. Infilo dei soldi in tasca: nella destra i dollari e nella sinistra i franchi congolesi, e mi avvicino alla finestra. Mia moglie urla:
– Ma che sei deficiente! Non hai capito cosa ho detto? Stare lontano dalle finestre! Lontano!
Faccio due passi indietro, appoggiandomi al muro e osservo la strada deserta.
Mi galleggia nel cervello la voce di Hermann, ex-militare addetto alla sicurezza dell’ONG per la quale lavoro, capelli rossi ed efelidi anche sulle mani:
– Sai quanto ci vuole per organizzare un attacco a Bukavu? Al massimo cinquantamila euro.
– E riesci a conquistare la città?
– Bukavu non ci vuole niente a prenderla.
– Ma come fai a controllare due milioni di abitanti? Hai bisogno di un sacco di gente…
– Ti sbagli. A loro non interessa controllare la popolazione, ma solo tre cose: il palazzo del governo, la sede della polizia e quella dell’esercito. Se guardi la mappa, sono edifici molto vicini. Arrivi di notte e, se sei bravo, riesci a prendere tutto in pochissimo tempo. Il loro obiettivo non è governare la città o creare la repubblica indipendente di Bukavu.
– E allora qual è?
– Sono interessati alla torta.
– Che cazzo stai a dire?
– Ti spiego: la guerra è cominciata dopo il genocidio dei Tutsi in Ruanda. I Génocidaires Hutu in rotta si sono nascosti in Congo. E qui, l’ONU, nonostante ci fossero tutti i segnali, ha dimenticato di separare i civili in fuga dai militari sconfitti e dai Génocidaires. A un certo punto, i Tutsi Ruandesi sono intervenuti. Da quel momento non si è capito più un cazzo. Pensa che adesso, qui sul confine, ci sono circa duecento gruppi armati e a nessuno di loro viene in mente di governare il Congo, ma la situazione di caos fa comodo a tutti. Al Congo e al Ruanda, a tutti e a nessuno. Nessuno vuole governare, ma tutti invece sono interessati alle risorse del sottosuolo: gli Usa, la Francia, i cinesi, i russi, la brigata Wagner
– Ma allora chi ordina l’attacco?
– Chiunque abbia degli interessi! Un qualsiasi riccone congolese che è emigrato a Londra o a Marsiglia, ed è interessato solo a sedersi al tavolo delle trattative per guadagnare delle prebende. Investe cinquantamila euro per poter dire agli altri partecipanti: Signori presidenti, ci sono anch’io.
– Lui da che parte sta?
– Dalla sua. Perché quello che gli interessa è prendersi una fetta di Coltan, una manciata d’oro e qualche chilo di uranio. Non gliene frega un cazzo di quel che succede qui, del Congo, del Ruanda, degli Hutu o dei Tutsi. Lui sta comodo e incassa i dividendi.
– Gli conviene così tanto?
– Se ha cinquantamila euro da spendere per un attacco, per tenerlo buono gliene danno almeno cento volte tanto, altrimenti sarebbe al bar a leggere il giornale.

Apro la porta.
– Secondo te è prudente uscire?
– Non so, ma voglio vedere se c’è ancora la guardia. E poi gli devo chiederle un paio di cose…
– Ma se succede qualcosa?
– Abbiamo un muro che ci protegge su tre lati, e sul quarto c’è il cancello… Non si sentono spari, se sono fortunato non dovrei beccare un proiettile vagante.
Mia moglie rimane sull’uscio semiaperto, sotto il porticato. Io mi muovo in silenzio, e infine mi affaccio sul giardino, quel giardino che non avevo mai voluto. Avrei preferito un modesto appartamento in una palazzina, ma noi stranieri siamo costretti a vivere nella zona dei ricchi, dove i soldati dell’ONU avrebbero sbarrato la strada ai miliziani per proteggerci.
Il sole era spuntato in cielo e il cambio della guardia, quella che si occupava della nostra sicurezza, avveniva alle sette del mattino. Dodici minuti prima.
Mi torna di nuovo in mente Hermann:
– Se le guardie spariscono senza lasciare traccia significa che la situazione è pericolosa. Se sono ancora al loro posto le alternative sono tre: la prima è che non sappiano nulla, la seconda è che la situazione è sotto controllo. Oppure…
– Oppure?
– La situazione è disperata e l’unica via d’uscita che hanno siete voi: vogliono che li portiate con voi per salvargli la pelle. A quel punto però significa che c’è la guerra casa per casa, strada per strada.
La guardia mi vede e si esercita in un impeccabile saluto militare.
– Non sono autorizzato a farla uscire, oggi la situazione è pericolosa.
– Sì lo so, mi hanno informato. A che ora arriva il cambio?
– Il mio collega mi ha appena chiamato…
– E che ha detto?
– Che non sa a che ora può venire, appena la situazione si tranquillizza si mette in marcia.
Sotto lo sguardo ansioso di mia moglie mi avvicino al cancello di metallo, vi poggio l’orecchio e non sento nulla.
– Aprilo.
– È pericoloso.
– Non voglio uscire, solo affacciarmi per vedere che succede.
Mi guarda come se fossi idiota. Poi si avvicina al cancello, tira il gancio e lo apre di qualche centimetro, appoggia l’occhio destro sulla minuscola fessura e con lentezza continua a schiuderlo. Quando l’apertura diviene più ampia, infila la testa nello spiraglio e si guarda intorno con circospezione. Poi si fa da parte e mi lascia passare, lo ringrazio con un cenno del capo ed esco in strada. Faccio un giro su me stesso e mi rendo conto che la via è deserta. La signora che mi ricarica il telefono, e si ripara dal sole e dalla pioggia sotto un ombrellone da spiaggia, a qualche centinaio di metri da casa mia, non c’è e non c’è nemmeno l’ombrellone. Più avanti, a quasi un chilometro di distanza, si intravede, in mezzo alle brume di calore, un blindato con le insegne dell’ONU che, di traverso sulla strada, vuole impedire ai miliziani ribelli di avvicinarsi e raggiungere le nostre abitazioni.
Torno sui miei passi e non appena rimetto piede nel giardino, la guardia, felice, tira il fiato e chiude il cancello a doppia mandata.
– Puoi controllare quanta acqua abbiamo nella cisterna? – Gli chiedo a bruciapelo. – Guarda che è tranquillo, non c’è nessuno per la strada. – Insisto dopo averlo visto dubbioso.
La cisterna nera, con capacità di duemila litri, è posizionata in alto, su una struttura in legno di fianco alla garitta delle guardie. Lui si esibisce in un altro perfetto saluto militare, batte i tacchi e si aggrappa agli scalini, arriva a ridosso del serbatoio, a circa due metri d’altezza, e scuote la testa mentre bussa con il pugno destro sulla struttura di plastica. Poi, appoggiandosi alla cisterna, mi fa segno con le mani: siamo agli sgoccioli. Non possiamo prelevare acqua nemmeno con un secchio per lavare i piatti o fare una doccia.
La guardia si appresta a scendere.
– Fai una cosa!
Si blocca in attesa.
– Che vedi da lassù?
– Il blindato dell’ONU.
– E oltre?
– Niente…
– Quindi non stanno venendo da questa parte?
– Sembra di no.
Lo ringrazio e vado verso casa, mentre lui scende. Mia moglie ha acceso il computer e si sta connettendo.
Vengo colpito da un dubbio.

La voce di Hermann risponde ai miei vagheggiamenti:
– Ma quanto possono durare le azioni?
– Nel 2004 Nkunda è entrato a Bukavu e ci è rimasto due settimane…
– Scusa, ma chi è Nkunda?
– Un generale congolese che si è formato militarmente dall’altro lato della frontiera. Era arrivato in seguito ad alcuni tafferugli, urlando che voleva proteggere la sua gente e la popolazione, ma di sicuro era supportato dal Ruanda e ha controllato la città fino a quando qualcuno non gli ha fatto capire che doveva togliersi dai coglioni.
– Qualcuno chi?
– Non lo dice nessuno ad alta voce, ma credo siano arrivate pressioni internazionali. Nei giorni in cui ha “governato” la città, l’ha messa a ferro e fuoco. Lui personalmente abusava tre ragazze al giorno; i suoi soldati facevano anche peggio, stupravano bambine al di sotto dei cinque anni.
– Poi lo hanno arrestato?
– Ha fatto in tempo a prendere anche Goma, a nord del lago Kivu, nel 2008, che ha più o meno due milioni di abitanti, come Bukavu. Anche lì per alcuni giorni, poi con gentilezza gli hanno chiesto di levarsi dalle palle. Adesso è inquisito per crimini contro l’umanità…
– Almeno quello! E quando c’è un attacco si può uscire?
– A tuo rischio e pericolo! Perché le donne vengono stuprate e i bambini diventano soldati per le generazioni future…
E se avessimo avuto bisogno di aiuti? Chi ce li avrebbe portati?
Apro gli stipi: riso, pasta, pelati, scatolame. Sembra che non moriremo di fame, il problema è l’acqua. Per un attimo ho un brivido. Intravedo il lago di fronte a me, l’acqua è a portata di mano, ma quello è anche il confine naturale tra il Congo dove ci troviamo e il Ruanda, il nemico con cui si guerreggia da più di vent’anni. Controllo le taniche di colore giallo sporco, ne abbiamo ancora una e mezza.
Ancora una scarica e una serie di detonazioni.
Si stanno avvicinando? Oppure allontanando?
Di nuovo l’eco della discussione con Hermann:
– Poi ci sono dei momenti in cui a loro piace solo fare casino. Devono far vedere che ci sono… Considera questo: anche le azioni dei ribelli si intensificano a ridosso del Natale.
– A Natale?
– Perché qua sono tutti cristiani e anche loro devono fare i regali…
– Mi stai prendendo per il culo?
– È statistica. Nel periodo da fine novembre a inizio dicembre gli attacchi aumentano del 50% rispetto al resto dell’anno.
– Quindi si potrebbe dire che anche il miliziano è vittima dello shopping compulsivo?

Se la battaglia andrà avanti per qualche giorno avremo bisogno d’acqua. Non per lavarci o per cucinare, ma acqua da bere.
Dobbiamo cominciare a razionarla?
Oppure devo correre al lago, prenderne un paio di secchi e tornare indietro, alla svelta? E se i ribelli fossero arrivati via lago? Cosa avrei fatto? Gli avrei semplicemente aperto la porta?
Prendo carta e penna e incolonno una serie di cose di prima e seconda necessità di cui abbiamo bisogno. Al primo posto ci metto la parola idraulico. Poi mi balena un’idea interessante: potrei incontrare il capo dei ribelli e chiedergli di portare qui Monsieur Annycet con la forza, solo per aggiustarmi l’autoclave in modo da avere di nuovo l’acqua in casa; non perché io abbia bisogno di lavarmi, ma per evitare di lasciare i piatti sporchi.
Se dovessimo lasciare la casa in fretta, per evitare di essere coinvolti nelle violenze, mia moglie mai e poi mai vorrebbe che i ribelli, o i soldati, giungendo a casa nostra, debbano pensare che siamo scappati senza lavare i piatti.
Nemmeno sotto il fuoco nemico o alleato.

– E noi?
– Noi stranieri non siamo un target, siamo palle al piede.
– In che senso?
– Ci sono quattro tipi di stranieri in Congo. I primi sono i preti, i missionari, che stanno qua anche se piove o nevica. Essendo questo un paese cristiano sarebbe controproducente ucciderli, anche se i preti e i vescovi locali sono stati uccisi senza problemi. Poi ci siamo noi che lavoriamo nelle ONG. Quelli delle ONG servono per lavare la coscienza sporca delle nazioni che hanno interessi in Congo. Più ci sono interessi e più gente mandano. Non ha senso ucciderli visto che provengono da paesi che investono milioni.
– E quali sono le altre due categorie?
– I privati…
– E quelli sono un target?
– Ma no! La maggior parte dei privati lavora per le miniere e nelle miniere, pagano le mazzette e quindi ti servono vivi per continuare a corrompere…
– E la quarta categoria?
– I funzionari dell’ONU. Odiati dalla popolazione locale.
– Pensavo il contrario…
– E perché dovrebbero essere amati?
– Perché portano la pace.
– Col cazzo! Sai quando è cominciata la missione? All’inizio del 2000.
– Addirittura… Perché sono qui da così tanto?
– Non è chiaro il mandato. Ti ho detto della questione Nkunda. Ecco vedi quella casa bianca, là, sull’altro lato del lago?
Il suo braccio si tende e indica qualcosa oltre la penisola che funge da centro della città.
Annuisco.
– Lì c’era la sede dell’ONU. Quando Nkunda stava entrando in città, hanno chiesto ordini al quartier generale, e l’ordine è stato di lasciarli passare. Il problema dell’ONU è che il loro mandato è di non schierarsi da una parte o dall’altra. Certo, devono proteggere la popolazione civile, ma senza diventare partigiani di una delle due fazioni. Se i ribelli entrano in città e la mettono sottosopra stuprando, massacrando e saccheggiando, i caschi blu restano a guardare.
– Ma se mi metto a sparare non mi arrestano?
– L’ONU non è la polizia. Il mandato non è fermare il primo stronzo che si mette a fare il cowboy in città.
– Quindi anche loro sono bersagli?
– Possono diventarlo, ma se vuoi fare i conti, in quasi trent’anni di guerra, di bianchi morti ce ne saranno stati al massimo una quindicina. Quattro missionari spagnoli, un’osservatrice svedese dell’ONU. E poco altro…

Ore 9.30, mattino.
Vedo la mano di mia moglie che si muove, il suo gesto mi impone il silenzio: un dito, posizionato davanti alla bocca e un sibilo. Poi, senza fare rumore, abbandona il tavolo con il computer acceso e si avvicina alla finestra, dietro la tenda aperta, per osservare l’esterno con occhi inquisitori. Io abbandono le infradito e mi posiziono dall’altro lato, nascosto dietro le cortine azzurre ciano. Intravedo un uomo che cammina nel giardino dei vicini come se stesse danzando, e impugna un machete.
Osservo le sbarre alla finestra, sottili, incrociate a formare dei rombi. Sono incassate nel muro, ma basterebbe poco a stapparle: un’auto con un paio di corde e un buon autista.
Hermann mi ronza ancora nelle orecchie:
– E noi da che parte stiamo?
– Nessuna. Qui non ci sono i buoni o i cattivi, solo chi ha degli interessi.
– Il nostro interesse qual è?
– Evitare di trovarci in mezzo alle sparatorie. Non uscire a piedi dopo il tramonto e occhio ai taxi gialli.
– I taxi sono pericolosi?
– Secondo l’organizzazione è sconsigliato prenderli, io ti direi che li puoi prendere… Però solo di giorno, di notte non mi fiderei. Qui ti rapiscono e telefonano a qualche tuo amico o, nel tuo caso, a tua moglie, e chiedono qualche centinaio di dollari di riscatto. Da queste parti non vanno a trattare con l’ambasciata, sono sbrigativi. Di recente è successo a una ragazza francese, vicino a Goma, a nord. È rimasta prigioniera una settimana, credo.
– Allora possiamo diventare anche noi dei target!
– Non lasciarti ingannare. Sai quanto prende la tua guardia? Centonovanta dollari, al mese. Il salario medio è di circa venti dollari al mese. In genere serve per sfamare una famiglia con almeno sette figli…
Uno squillo di telefono e l’uomo col machete alza lo sguardo nella nostra direzione. Si è accorto di noi?
Mi muovo con disinvoltura, come se non gli facessi caso e arrivo all’altra finestra, mi affaccio come se fosse un giorno normale, solo un po’ più nero del solito. L’uomo continua a ridurre la distanza tra lui e noi. Mia moglie si muove verso il telefono che continua a squillare, lo afferra e risponde.
L’uomo indossa una tuta da lavoro bisunta, blu marino, e un paio di stivali di gomma verdi a mezza gamba, ideali per i lavori all’aperto. Ci scambiamo un cenno di intesa, lui si ferma a circa quindici metri dalla finestra. Mia moglie sta parlando al telefono in tedesco. L’uomo compie un paio di movimenti di stretching, poi comincia a tagliare l’erba, con un gesto ampio e ripetitivo.
Mia moglie chiude la conversazione e appoggia il telefono sul tavolo, non sentiamo più le raffiche, come se l’attacco si fosse allontanato.
– Novità?
– Nessuna.
L’unica novità potrebbe essere la conta dei morti. Anche perché sia i ribelli che il governo si ostinerebbero a portare l’acqua al proprio mulino: Vinciamo noi!
In caso di guerra chi è l’arbitro? Esiste?

– E se succede qualcosa?
– Restate chiusi dentro casa e aspettate. Questo genere di attacchi si fanno quando c’è poca gente per strada. Se spari e ci sono cinquanta persone, rischi di colpire il tuo target e altre trenta persone. Non credere che i ribelli siano tutti dei sanguinari, che si nutrono di budella. I professionisti arrivano, fanno la loro operazione e cercano di evitare di essere ammazzati…

Tendo l’orecchio e aspetto, poi un paio di scoppi.
Sono proiettili o pneumatici che esplodono? Rami che cadono? Alberi che crescono?
Un dubbio.
Come ha fatto l’operaio ad arrivare nella casa del vicino se non c’è nessuno per le strade?
Faccio un cenno a mia moglie che è seduta al computer, ma lei mi toglie ogni dubbio: quel tizio vive nella dépendance dei nostri vicini. In punta di piedi riapro la porta e cerco la guardia, ancora davanti alla garitta con la sua radio-trasmittente, il telefono, il collegamento internet offertogli da noi, e il kalashnikov imbracciato.
Il sole è stato coperto da una nuvola, tra qualche minuto comincerà a piovere e lui ha indossato l’impermeabile. Scrolla le spalle.
– Sa cos’è successo due mesi fa? Un militare congolese aveva finito il turno e se n’è andato in un bar vicino al confine a bere. Ha ordinato due birre, a Bukavu le birre si ordinano due alla volta. Ha continuato a bere fino a quando non ha cominciato a sragionare. Parlava con gli altri ubriaconi del bar della ragazza che lo aveva lasciato. Poi ha smesso di parlare e ha sparato una raffica. Io, che lavoravo nella casa di un altro mzungu, (nota: uomo bianco in Swahili) sono rimasto bloccato con lui. Lui doveva andare in auto a prendere i figli a scuola, io attendevo il cambio. Per un’ora siamo rimasti in sospeso, solo quando il militare è stato disarmato, la vita è ripresa normalmente. Non è come nel tuo paese che quando qualcuno spara arriva la polizia e indaga per omicidio, rapina, aggressione. Qui, quando c’è uno sparo si pensa al peggio. Guerra, rivoluzione, azione militare, mai un sano delitto di gelosia, un ricatto andato a male, un regolamento di conti, come nei film.
Si schiarisce la gola e raccoglie un avocado che è caduto dall’albero. Lo palpa con la mano e me lo porge, io glielo lascio e lui mi ringrazia ossequioso.
– È brutto vivere in attesa che arrivi il peggio, senza sapere se si rientrerà a casa. O rimani a fare la guardia privata per sempre, con uno stipendio da fame che non è sicuro riuscirà a far vivere meglio i tuoi figli, oppure ti avventuri ad abitare vicino a una miniera dove speri di fare il colpo gobbo, che ti cambia la vita.
Un rumore da dentro casa, forse un colpo. Un groppo alla gola, come se qualcuno mi stringesse il collo e non riuscissi a deglutire. Mi blocco in una posizione innaturale, come se i cattivi pensieri si fossero dissociati dalla testa e dal resto del corpo. Vedo la guardia che si muove, ma attende che io lo preceda sulla porta di casa. Poi altri due rumori che somigliano a qualcosa di familiare. Anche la guardia si ferma, io lancio una voce e, dall’interno, mia moglie mi risponde quieta rassicurandomi. La mazza della scopa di legno è caduta, uno schiocco sonoro ci ha fatto pensare male, ma in realtà è tutto in ordine, in quel disordine. Gocce di pioggia cominciano a colpire le tegole e gli alberi, rimbombano sulla garitta che ha il tetto in lamiera, il suono che produce sembra quello di una batteria sfiatata. Un semplice temporale si trasforma in un diluvio, il rumore della pioggia diventa assordante. Rientro in casa. L’operaio che tagliava l’erba alza lo sguardo al cielo e corre sotto l’albero di avocado, abitato da dozzine di sparvieri.

– Come facciamo a sapere queste cose? È semplice… – Continua Hermann mentre accende una sigaretta. – Considera che qui a Bukavu c’è una forza militare e insieme a quella c’è l’intelligence…
– E funziona?
– Dipende dalle situazioni. L’intelligence può funzionare. Dipende da quale gruppo si sta muovendo per fare un’azione. Considera che adesso, per osservare i movimenti dall’alto, non serve più il satellite, bastano i droni. Il problema è quanta gente si muove. Ti ho già detto che ci sono circa duecento gruppi armati? Ecco alcuni hanno un numero di effettivi molto basso, altri molto alto. Vuol dire che se si muovono cento-duecento persone hai la possibilità di individuarli, se si muovono in nove diventa più difficile.
– Perché?
– Perché alcuni gruppi si muovono e si comportano come militari, altri invece sono formati da una ventina di persone che agiscono come un branco di animali: sparano, stuprano e rubano. In un gruppo di mille persone è più semplice inserire un infiltrato e ottenere informazioni. Se hai solo dieci persone che combattono, sarà difficile rompere il muro di omertà…

Ore 10.30, mattino.
Riapro la mail, scrivo qualche parola, poi una finestra pop-up compare sullo schermo. La batteria è quasi scarica, con lo sguardo seguo il cavo e mi rendo conto che, nonostante sembri collegato, ho provveduto io stesso a disconnetterlo. Mi maledico, riconnetto la spina nella prolunga, ma vedo che non carica. Paura: se si è sfasciato il carica batteria, non potrò acquistarlo prima di qualche giorno. Mia moglie, ignara, digita tranquilla in un documento Excel.
Mi avvicino al modem, niente elettricità. Chi ha tolto la corrente?
È una normale disfunzione nel servizio o un tentativo di sabotaggio da parte dei ribelli?
Se la mancanza di corrente continuerà, resteremo tagliati fuori da tutte le informazioni, ma evito di pensarci. Spengo il computer e mi alzo.
Mia moglie blatera qualcosa in tedesco, io impugno un libro e resto sospeso tra la veranda e il soggiorno, faccio un passo avanti e due indietro, restando nei pressi della porta.
Mangerei qualcosa. Forse però sarebbe il caso di razionalizzare le provviste, non razionare, ma mangiare il meno possibile fuori dai pasti. Poi mi decido, anche se ha smesso di diluviare, mi avvio verso il divano, non ha senso offrire un bersaglio a chi vuole divertirsi a fare il tiro a segno.

– Perché decidono di attaccare un posto?
– Non c’è una regola ben precisa. Agiscono seguendo una loro logica. Fino a qualche anno fa, il centro della protesta e delle azioni di guerra era il sud Kivu, dove ci troviamo. A un certo punto, le azioni più violente sono passate nel nord Kivu, dall’altro lato del lago. Vuoi per la disponibilità degli uomini, vuoi per la possibilità di corrompere le persone con meno soldi, oppure per l’idea che tenere una delle due estremità del territorio in una situazione di apparente tranquillità poteva servire a tenere a bada non solo la cittadinanza ma anche i governanti. Attaccano dove possono e quando possono, senza soffermarsi a scegliere gli obbiettivi…

Sono perplesso, mi alzo in piedi come se qualcosa stesse per accadere, passo alle spalle di mia moglie e noto che anche lei è distratta.
Non accade spesso di trovarsi in mezzo a una guerra.
Poi sentiamo un rumore che sembra provenire dall’esterno. Seguito da mia moglie mi avvicino alla porta e mi accorgo che la guardia ha i miei stessi dubbi. Si sentono dei colpi al cancello, come se qualcuno stesse bussando. Per fortuna c’è un piccolo spioncino dal quale è possibile osservare cosa accade in strada.
Forse è meglio evitare che sappiano che siamo in casa. Ma se sapessero che non c’è nessuno potrebbero saltare il muro e prendere possesso della casa. Faccio un cenno alla guardia che, spaesata, come se stesse invitando una ragazza a ballare senza farsi vedere dalla moglie, si avvicina alla porta. Altri cinque colpi, il visitatore sa che ci siamo. Sono con la mano sulla maniglia abbassata a metà, un passo più avanti rispetto a mia moglie che ha il mento appoggiato sulla mia spalla, entrambi pronti a uscire in caso si tratti di un amico o a chiuderci dentro se nemico.
Sento una voce conosciuta, la guardia si avvicina spedita alla porta e apre lo spioncino, il volto amico del collega che deve dargli il cambio ci sorride.
Entra in abiti civili, pronto a cambiarsi, e fa cenno di riprendere a vivere. Io ho il fiatone come se avessi corso, perché la notizia è arrivata inaspettata come l’attacco dei ribelli. Lui si ferma al centro del giardino, si esibisce in un inchino e racconta che tutto è finito. Trentasei ribelli armati di fucili e machete sono stati arrestati, erano giovani, non indossavano scarpe. Undici persone sono rimaste uccise, un numero imprecisato di feriti, la città riprende lentamente a vivere.

– Il problema è che Bukavu può rimanere bloccata al massimo due giorni.
– Come fai a esserne così certo?
– Più del 70% degli abitanti non ha scorte di cibo a casa. Anzi…
– Cioè in caso non uscissero, morirebbero di fame?
– Più che morire di fame, morirebbero di sete. Non tutti hanno l’acqua corrente in casa. Quindi le persone che non hanno l’acqua devono uscire. Un giorno sopravvivi, tre no.
Annuisco.

Se le cose sono migliorate, possiamo riprendere a vivere. Guardo mia moglie:
– Che dici, lo chiamo subito Monsieur Annycet, così viene ad aggiustare i tubi?

Copertina: foto di Lucio Cascavilla

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *