IBiB incontra Emanuela Cocco

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Nome Emanuela

Cognome Cocco

Romana nata nel 1973 82412135_941700982893900_5638549532816965632_n

Riviste Verde, L’Irrequieto, Donne Difettose 

Libri Tu che eri ogni ragazza (Wojtek Edizioni

Segni letterari  originalità della struttura, cura della scrittura, solitudine pervasiva (luoghi, personaggi, storie), nessun filtro, cruda realtà, il tema del giudizio che ingabbia le vite, il dolore che ci muove o ci immobilizza, disperazioni inascoltate, vite stropicciate, attenta analisi della realtà che ci circonda, vergogna taciuta o manifesta

Citazione 

Gesù. Guardami. Ho quindici anni. Sei il mio ultimo amore. Ora ti dirò il mio nome. Io sono Jungla. Sono la cosa. Eccomi. Sopravvivimi e ascolta. Ke Skifo, Gesù. Mi uccide. Gesù, Gesù mi: tu non sai dirmi però conservami. Arrossisco mentre ti guardo con gli occhi chiusi. Non sopravviverò. Non so parlare ma lascia che pronunci il mio addio. Ascolta. Guarda come. Sono solo una. Conservami così sola. Non mischiarmi. Conservami separata. Non distrati. Osserva in me come muore. Vuoi chiamarla umanità? Non mi opporrò. Gesù. Sono qui davanti a te. Guardami. Quello che in me non andava l’ho tenuto nascosto. Quello che in me balbettava l’ho strangolato, l’ho avvolto in un telo, l’ho sepolto. Ora riaffiora, lo tirano a riva, l’hanno scoperto, è visibile a tutti. Di cosa ci vergogneremo, d’ora in poi? Appartengo a questo tempo. Siedo davanti a te. Vieni a vedere. Guardami. Sono piena di buchi dai quali mi affaccio, nei quali scompaio. Se mi vedessi, se fossi un testimone…

 

IBIB Come nasce l’idea di “Tu che eri ogni ragazza” e come è avvenuto l’incontro con la casa editrice Wojtek?

EC Parto dalla fine. L’incontro con Wojtek è avvenuto grazie a “Verde rivista”. Avevo finito il romanzo da poco, lo avevo inviato al Premio Italo Calvino e mi era tornata indietro una buona scheda di lettura, che però mi invitava a modificare la struttura del romanzo, a renderla più classica, mi suggerivano, quindi, di togliere una parte che invece per me era il centro di tutto. Avevo messo via il romanzo, non avevo fatto invii, tranne che uno a Verde, a cui avevo mandato uno dei capitoli, che aveva la struttura di un singolo racconto. Loro lo hanno pubblicato e così Wojtek mi ha contattata. A loro il romanzo piaceva proprio per la sua forma, poi ci siamo trovati su tante altre cose, è stato bello esordire con loro e lo rifarei, nel tempo hanno costruito un catalogo impeccabile e sono contenta di farne parte. Tornando alla prima domanda, l’idea del romanzo è nata tante volte e tante volte l’ho uccisa e seppellita, ci sono voluti quattro anni per vedere con chiarezza cosa era questa storia, se c’era una storia, e come la volevo raccontare. Alla fine tutto è partito da un verso di una poesia di Pagliarani, “La pietà oggettiva”che poi è rimasto in esergo al romanzo. Questo:

Come offende d’inverno incontrare le notti alla stazione del verziere

gli addormentati sul lastrico, da sentire il bisogno

d’affrettare il passo spazzolare il cappotto chiedere

perché non mi assaltano?

Io questa domanda me la faccio di continuo. Non so rispondere

IBIB In “Tu che eri ogni ragazza” ci sono due storie principali che si svolgono parallele e che si toccano per un solo istante. Ti va di parlarci della costruzione del romanzo e della scelta del titolo? (il titolo è potentissimo per me)

EC Per il titolo devo ringraziare Francesco Verde, amico ed eccelso traduttore. In quei giorni stavo leggendo la sua traduzione dei racconti di Pablo Simonetti ed ero affascinata dalla cura che aveva messo nella scelta delle parole, le parole con cui aveva reso le descrizioni nei racconti, certi passaggi li ricordo ancora oggi. Lui aveva già letto il romanzo e io gli ho chiesto aiuto. Ha trovato questo titolo che anche io trovo bellissimo. Il romanzo è un tentativo di fuga dal modello della narrazione classica di cui mi ero stancata e da cui, allora più che mai, mi sentivo tradita. Ogni volta che ci impegniamo al massimo e ci aspettiamo il giusto risarcimento dalla vita, ogni volta che desideriamo una giustizia che funzioni solo per noi, ogni volta che confidiamo nel fatto che il nostro dolore darà buon frutto, ecco, ogni volta che questo accade stiamo ragionando come fossimo in uno di quei romanzi, in uno di quei film in cui esistono valori che sono fuori da noi, che sono validi per tutti, una storia in cui forze misteriose incarnano equità e giustizia. Questa storia non esiste io non volevo scrivere una storia così, ne volevo scrivere una in cui uomini e donne sono soli con le loro scelte e spesso sbagliano e non è certo che saranno chiamati a pagare per i propri errori o che saranno risarciti per le loro sofferenze.

IBIB Alla fine di alcuni capitoli ripeti “votate pietà”. La pietà non c’è nei personaggi del tuo romanzo. Qualcuno, come il padre o Duca ad esempio, si costringe a provarla ma nonostante tutti gli sforzi resta una finzione.  Sembra che non si riesca ad andare oltre alla propria disperazione ma allo stesso tempo sembra che ci sia timore a rivendicare il diritto alla propria disperazione.

EC Noi non siamo mai nella condizione di poter rivendicare nulla. Anche solo capirlo è terribile e questo da solo basta a distruggere la nostra pietà. Per primi dovremmo averla verso noi stessi, qualcosa in noi dovrebbe cedere il passo e in qualche modo inginocchiarsi davanti a questa consapevolezza: non possiamo rivendicare nulla, mai, in nessun caso. Questo lo intendo nel senso letterale del termine. Non possiamo rivendicare la nostra libertà, la nostra felicità, la nostra dignità, come fosse un semplice possesso che ci è stato sottratto. Il fatto è che tutto questo non esiste se non siamo noi a costruirlo, e quindi il nostro diritto di proprietà è pari a zero. La nostra capacità di saper costruire tutto questo dentro e fuori noi, anche questa, però, non ci appartiene completamente, non è completamente nostra, ma è qualcosa che ha a che fare con il caso, con le opportunità e gli imprevisti, con le risorse fuori e dentro di noi, con la fortuna, e poi, solo in aggiunta a tutto questo, con il nostro impegno personale. Ma chi è capace di ammetterlo fino in fondo? Di considerare la propria fortuna così come la propria disperazione come qualcosa che non è in nostro possesso ma che semplicemente accade? Nessuno, io per prima, vuole rinunciare a quelle che considera le sue proprietà. Ecco cosa accade, penso, quando incontri qualcuno che ha perduto tutto, o che non possiede nulla. Dentro di te sai che la vera pietà, non firmare petizioni online, non partecipare a un crowdfunding a caso, la vera pietà, dico, è qualcosa che impone l’ammissione della completa uguaglianza tra due esseri umani. I miei possessi sono i tuoi, la mia libertà non può esistere in assenza della tua. Ma tutto questo è complicato, a volte “fare bene mi fa stare male” faccio dire a uno dei personaggi del romanzo.  La conseguenza di questo stare male ci va voltare lo sguardo, passare avanti, avvicinarci alla pietà solo come a una finzione.

IBIB Altro protagonista di questo romanzo è Roma. La Roma dove è facile non essere visti. La Roma che è abitata da vite diverse tra loro e che raramente riescono ad incontrarsi. Una Roma sporca e cattiva.

EC Roma e la Stazione, in particolare. Non è che ci siamo grandi descrizioni della città e forse neanche della Stazione stessa, ci sono le impressioni di una ragazza che arriva in città e che non la conosce e ne resta stordita, perché le cose brillanti e luminose stanno attaccate a quelle sporche e chiazzate di piscio, perché quelli destinati a stare fermi, sempre fermi, devono convivere con quelli che si muovono sempre, perché chi sopravvive deve stare a guardare quelli che viaggiano e viceversa. Ho pensato a Goethe che arriva a Roma e chiede alle pietre di dire, di parlargli, lo dice alle pietre e agli alti palazzi, ma a questa ragazza nulla parla, così come lei non ha nulla da dire a niente e a nessuno.

IBIB In “Tu che eri ogni ragazza” ogni personaggio ha un dolore. Dolore che prende tutta la scena delle loro vite ma che nessuno sa veramente come affrontare. Dolore interno che porta a guardare all’esterno con uno sguardo neutro. Dolore che si incontra e si scontra con il dolore degli altri senza per questo sentirsi mai vicini o compresi. Dolore che genera solitudine e diffidenza.

 EC Il dolore degli altri è un mistero tanto quanto il nostro. Una sua veritiera rappresentazione è impossibile perché è destinato a restare un enigma, anche se a volerlo raccontare in prima persona è chi vi si trova imprigionato. Al massimo possiamo raccontare quello che si muove attorno al dolore, che lo circoscrive e che ne dà una manifestazione concreta, che però non esaurisce la sua natura di allarme che segnala un danno. Ma il danno stesso, lì dove il dolore ha preso forma, la ragione per cui gli è stata assegnata una voce, resta fuori dal quadro. Da qui la diffidenza, da qui la solitudine, l’impassibilità davanti a quello che resta un mistero.

IBIB Nelle tue storie tratti spesso il tema della vergogna e del giudizio. Giudizio subdolamente moralistico che trascina nel vortice della vergogna la vittima. Penso alla lista affissa nella scuola e alla teoria dei più e dei meno di Jungla e mi sembra che in qualche modo sia tutto collegato.

EC La vergogna ci riporta all’inizio della storia, ai versi di Pagliarani. Come faccio a non vergognarmi nel momento in cui mi pongo la domanda: cosa impedisce a un altro di assalirmi? Se nonostante tutto non vengo attaccato fisicamente resta comunque l’assalto della vergogna che è terribile. Alla fine del racconto di Cechov “Reparto n.6” il medico che dirige il padiglione psichiatrico in cui sono rinchiusi uomini e donne definiti malati di mente, muore non a causa dei colpi ricevuti dal guardiano che lo picchia duramente quando anche lui viene internato, muore, invece, dalla vergogna. Andrej Efimjc viene assalito dalla vergogna una volta che è stato raggiunto dalla consapevolezza del semplice fatto che la qualità del suo dolore è identica a quella degli altri pazienti trattati come bestie, quegli altri che lui ha visto soffrire ogni giorno dedicando loro solo uno sguardo impassibile, quegli altri che ora sono anche lui stesso, di cui si accorge, troppo tardi, provando una vergogna così potente da ucciderlo. La vergogna nasce da un giudizio in cui il vero plotone di esecuzione è dentro di noi.

IBIB “Scegliere è un abominio”. La non capacità di scelta è raccontata in molta della narrativa odierna. Anche scrivere è fatto di scelte. Penso in particolare all’esperienza con “Vocabolario minimo delle parole inventate” in cui ti sei cimentata con la costruzione di un mondo partendo dall’invenzione di una parola che riuscisse a racchiuderlo. Demiurnare è la parola da te inventata, come nasce la scelta di creare questa parola e la storia che l’accompagna?

EC Demiurnare è un compito a cui siamo chiamati tutti. Disseppellire le notizie, dargli una voce, dargli corpo, rendere il senso di una storia. La morte è al centro del racconto, ma è oggetto del nostro diniego. Facciamo come se non ci fosse, e anche se esiste, ammesso che esista, teniamola alla larga, fuori le mura. Ho immaginato un gioco, in una realtà fittizia in cui il famoso editto di Saint Cloud, che stabiliva che le tombe venissero poste al di fuori delle mura cittadine, ha creato una realtà in cui la morte non esiste in una parte della città, mentre in un’altra parte esiste solo quella. Il gioco, Urne, fa il verso a “Dei Sepolcri” di Foscolo, ovviamente. È un gioco in cui si fanno i corpi, e si dà un nome ai morti, a partire dalle storie.  Le storie, così come le identità, vengono dissepolte e create allo stesso tempo. Ma fare un corpo con la storia comporta una responsabilità, fare il corpo con la storia è un duello, una prova, e alla fine c’è la un’esplosione di vita e di splendore, oppure la violenza e la morte. Demiurnare è parte di un progetto più grande sul Diniego, forse così grande che non riuscirò a portarlo a termine, ma non è detto.

IBIB Come ti sei ritrovata a scrivere per le riviste? È stata utile come esperienza anche durante il romanzo?

EC Sulle riviste ho potuto scrivere quello di cui avevo voglia di scrivere sul serio, di approfondire, di dilungarmi, di analizzare invece che recensire. Scrivere sulle riviste, quindi, è qualcosa che va oltre l’utilità e che a che fare con il desiderio, con la sfida personale e con l’attendere alle cose che amiamo, senza aspettare che dietro questo tipo di impegno ci sia, come ricompensa, qualcosa di spendibile. La ricompensa e l’impegno coincidono, e quando questo accade è bellissimo.

IBIB Secondo te dove si collocano le riviste e i collettivi di scrittura nel panorama culturale italiano?

EC Le riviste sono l’occasione per sperimentare sul serio, se si ha la voglia di farlo. L’idea che siano una vetrina non è solo triste ma anche una illusione. Quindi la rivista può essere, e in molti casi lo è, il luogo in cui non rinunciare alla complessità, poter fare senza preoccuparsi dei tempi e delle logiche della distribuzione. Un luogo in cui incontrare pareri sulla tua scrittura che posso essere più o meno profondi o centrati, non importa. Dove si collocano di preciso non lo so, ma so che non sono una sala d’attesa, non sono l’anticamera di qualcosa, né una specie di limbo palestra in cui si fanno giochetti in attesa di essere traghettati nel mondo degli adulti. Le riviste sono un edificio a parte, che segue logiche diverse e in questo laboratorio, a volte, trovi delle scritture davvero interessanti e delle menti brillanti, che sono dove sono e fanno qualcosa che non è semplicemente una brutta copia che precede la stesura vera e propria di un romanzo o di qualcosa che ha dignità di pubblicazione.

IBIB “c’erano solo i fatti, nessuna storia” e penso che quelle poche volte in cui ci si concentra sulla storia è quella sbagliata. Siamo nel periodo della sovrabbondanza di storie il più delle volte raccontate da un punto di vista sballato e che si concentrano su particolari irrilevanti. A te che scrivi storie (racconti, romanzi, sceneggiature) chiedo abbiamo un problema di narrazione?

EC No, non credo. Abbiamo gli stessi problemi di sempre. Ci sono storie buone, altre meno buone, altre di nessun valore. Ma esiste un periodo in cui non è stato così? Forse oggi avvertiamo più di ogni altra cosa la nostra irrilevanza ma anche questa, sospetto ci sia sempre stata. Con quella frase mi riferivo alla difficoltà che è nell’assemblaggio delle parti, ci arrivano fatti, di continuo, fatti irrelati, a volte incomprensibili, e spetta a noi montare il tutto, ma assemblare le cose, dargli un senso, è difficile, ci vuole rigore, dobbiamo resistere alla tentazione di montarli così come piace a noi, dobbiamo impiegare il giusto tempo, e spesso non lo facciamo, restano solo i fatti così come vengono, ci sono solo i fatti, nessuna storia.

IBIB Quali sono le letture che torni a cercare e che credi ti abbiano formato?

EC Ci sono libri che rileggo spesso per puro piacere, senza intenti analitici, tra questi il primo posto spetta a “Il grande Gatsby”di Francis Scott Fitzgerald, seguito subito dopo da “Lolita” di Nabokov, oppure i racconti di Cechov, della Mansfield, quelli di Flannery O’Connor, i “Sillabari” di Goffredo Parise e ora, spesso, anche i racconti di Cortázar, e di sicuro quelli di Alberto Laiseca. Ma se mi chiedi quali libri hanno colonizzato per sempre il mio immaginario, e in questo senso mi hanno formato, quelli da cui non potrei mai separarmi sono questi: “Berlin Alexanderplatz” di Alfred Döblin, i drammi di Henrik Ibsen. Il teatro e i racconti di Heinrich von Kleist, “I miserabili” di Victor Hugo e anche “Tonio Kröger”, il racconto di Thomas Mann e le poesie di Clemente Rebora, di Zanzotto, di Pagliarani. Ora però mi fermo altrimenti tiro fuori altri titoli, è difficile scegliere. 

Grazie Emanuela!

 

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