Mia moglie è arrabbiata, non sa cosa fare per cena.
“Prova a mettere in tavola ogni giorno pranzo e cena. Tu ti siedi e mangi, io devo decidere cosa preparare, andare a fare la spesa stando attenta a non spendere troppo, mettermi a cucinare. Non hai detto che anche tua madre si è stufata e preferisce comperare già pronto?”
Il fatto è che siamo diversi. Anche se mi piace mangiare bene, come a tutti credo, per me il cibo è principalmente nutrimento. Per mia moglie è la coccola, l’abbraccio che la riscalda. È come se, mentre assapora le polpettine di carne di pollo fritte nella padella più larga, gustose e di un bel color cuoio, queste le facessero una carezza, sussurrandole parole rassicuranti quali: “Stai tranquilla, cara. Ci siamo qua noi a smussare gli angoli della tua vita. Non preoccuparti”.
Eppure mia moglie non mangia molto, becchetta, e di solito quando si irrita diventa inappetente. È magra, di costituzione, diversamente da me. A volte, per scherzo, quando siamo a letto le suono le costole sulla schiena come fossero una tastiera, chiamandole “costolette d’agnello”, oppure passo la mano sulla sua spina dorsale e dico: “Ecco qua il mio velociraptor”, perché rivedo le vertebre aguzze degli scheletri dei dinosauri del museo naturale di New York che abbiamo visitato.
Quando è in crisi gastronomica, le propongo di cucinare io, ma è sempre prevenuta perché non sono così attento ai gusti e ai profumi del cibo come lei. Se devo rivedere un racconto che ho scritto, posso spendere – perdere, direbbe mia moglie – molto tempo alla ricerca di un sinonimo che non suoni troppo simile alle parole vicine, o non stoni all’orecchio, oppure che, pur avendo lo stesso significato della parola da sostituire, non attragga, come un magnete, usi e suggestioni così avverse al contesto da non essere adeguato. Al contrario, nel cibo, una semplice pasta al burro per me è un piatto che preparerei, non dico ogni sera, ma quasi. Ma anche in questo caso, la mia inesperienza verrebbe alla luce perché, secondo mia moglie, per la pasta al burro bisogna usare un certo formato, vuoi i Piccolini Barilla, vuoi le mezze penne rigate, vuoi le farfalline, non altro, per motivi che a me risultano oscuri, ma che nella sua visione del mondo culinario hanno ragioni fondate.
La pasta al burro però non le va stasera, come pure gli spaghetti alla carbonara, o le penne con il sugo pronto al tonno, o le linguine al pesto. Neppure il riso basmati bollito, condito con olio d’oliva e parmigiano, oppure il risotto, anche se mi accorgo che non ci sono verdure in frigo per prepararlo, e quindi lo devo scartare. Il sorriso di un primo, per mia moglie, sottostà comunque a una serie di condizioni che possono cambiare più o meno rapidamente: la stagione, il tempo atmosferico, la voglia o il desiderio, l’umore. A me sembrano dei capricci inspiegabili. Penso che si debba mangiare quello che c’è, non sempre quello che si vuole. Eppure mi ostino a riformulare una frase che non mi soddisfa fino a esserne spossato o disgustato, oppure sono di cattivo umore se non riesco a scrivere con abbastanza frequenza o impegno, rincorrendo un’intuizione, ma distraendomi con letture, Internet, o serie televisive, e rimproverandomi in seguito del tempo mal impiegato.
Adesso però mi sto arrabbiando anch’io. “Pasta aglio e olio?” le chiedo.
“Va bene” è il responso di mia moglie. “Ma con tanto parmigiano. Perché è solo pasta e olio, ha gusto unicamente se c’è abbastanza parmigiano.”
Posso finalmente cucinare, facendomi ripetere come procedere passo dopo passo, perché gli ingredienti e le preparazioni che si leggono nei libri di cucina, o nei giornali femminili, nascondono sempre degli inciampi. Quelle volte che ho cercato di sorprendere mia moglie con una ricetta che mi ispirava, e che seguivo alla lettera, non osando discostarmi dalle istruzioni per paura di un disastro, non ho mai cucinato un piatto soddisfacente. Come il pane, che nella ricetta trovata in Internet avrei dovuto cuocere nel ripiano più basso del forno, dove si è invece carbonizzato, e che poi, per la delusione, ho evitato di preparare altre volte. Se invece il nuovo piatto non era riuscito così male, ho raggiunto un certo successo solo dopo molteplici tentativi.
“Sono i piccoli accorgimenti” pontifica mia moglie, “a fare la differenza.”
Questi si scoprono, e si assorbono, quando si cucina assieme a qualcuno che è esperto e ti porta a prestare attenzione ai dettagli, e poi con l’esperienza. È come quando si scrive. Non ci sono formule, oppure, se ci sono, si assimilano dai molti racconti e romanzi significativi letti. E poi si impara scrivendo.
“Già pronto?” si stupisce mia moglie quanto le porgo il piatto.
Ceniamo seduti sul divano, traviati da una coppia di amici statunitensi che in casa disdegnano la formalità italiana della tavola apparecchiata con la tovaglia e il piatto assediato a destra dal coltello e dal tovagliolo in stoffa nel portatovagliolo, a sinistra dalla forchetta, e di fronte dal bicchiere.
Assaggia e, dopo la prima forchettata, commenta: “Buono”, ovvero: aglio e peperoncino tolti in tempo prima di produrre un gusto di bruciato, parmigiano abbondante, ma olio sufficiente perché il grana non asciughi la pasta, e spaghetti al dente, senza essere troppo saldi.
Quando i piatti vuoti ritornano in cucina, mia moglie si è rappacificata con le asperità dell’esistenza. Gli occhi le sorridono, si appoggia allo schienale del divano, e mi guarda appagata come un gatto che fa le fusa.
“Grazie” mormora.
Continuiamo ad ascoltare le notizie regionali in televisione, anche se raramente abbiamo la stessa opinione sui fatti, o almeno quelli che ci vengono presentati come tali.
“Mia moglie prepara le polpette”, foto originale di Maurizio Donazzon