intervista a Luca Ricci

#Adottaunracconto: Luca Ricci

Quando siamo nati come blog di racconti non ci aspettavamo di conoscere così tante persone e realtà che ci avrebbero fatto sorgere domande e riflessioni. Nè ci aspettavamo che avremmo dialogato con uno scrittore di professione. Insieme a ReaderForBlind abbiamo intervistato Luca Ricci, uno degli scrittori italiani di racconti attualmente più letti, ripartendo proprio da #Adottaunracconto, l’iniziativa lanciata lo scorso aprile. Quell’idea ci è venuta leggendo le sue parole e da lì siamo voluti ripartire.

Nello scambio che abbiamo avuto su Twitter, subito dopo che è nato #Adottaunracconto, ci hai detto che in Italia “la situazione è comatosa” e che c’è “paura e pregiudizio da parte di tutta la filiera” rispetto al racconto. Cosa intendevi? Perché secondo te?

Perché ti pubblicano solo se sei un ebreo americano, meglio se di Brooklyn. E se anche capita che ti pubblichino poi non ti spingono, o ti spingono meno in confronto a un romanziere: come se la notizia rilevante fosse tutta lì, che hanno avuto il coraggio di pubblicare un libro di racconti di un italiano vivente (quando magari poi in libreria sei con due copie a scaffale, cioè invisibile, impossibilitato a una vera competizione- a una competizione ad armi pari- con gli altri titoli). Non basta, non può bastare.

Una domanda che facciamo a tutti coloro che scrivono, e che non possiamo non fare ad uno scrittore di professione come te: perché scrivi? E nel tuo caso, perché solo racconti?

Scrivo perché, ahimè, sono troppo poco stupido per non farlo. Scrivo racconti perché mi consolano più dei romanzi, un racconto da un punto di vista formale richiede molto più rigore logico, può racchiudere almeno in potenza un gesto perfetto; il romanzo- oggi più che mai- è il refugium peccatorum degli sbrodolamenti di chiunque.

Hai definito i 14 racconti de “I difetti fondamentali” novelle. Hai scritto due libri “Mabel dice sì” e “La persecuzione del rigorista” che sono quasi romanzi, ma li hai definiti racconti lunghi. Dove sta la differenza tra racconto e novella, e tra racconto lungo e romanzo breve? Riguarda il numero di battute o c’è dell’altro?

Non conta solo la lunghezza, tuttavia non ho mai letto un romanzo di una pagina né un racconto di mille. Perciò- in mancanza di parametri migliori- ne farei proprio una questione di paginazione. Un racconto breve è meno lungo di una novella che è meno lunga di un racconto lungo che è meno lungo di un romanzo breve che è meno lungo di un romanzo. La paginazione media di un pezzo de I difetti fondamentali è di circa 22 pagine, una misura che appunto ricadrebbe in pieno nella definizione di novella: più lunga di un racconto breve, meno lunga di un racconto lungo.

Quali sono gli elementi che un racconto deve avere? E quali fanno la differenza tra un racconto davvero riuscito e uno mediocre?

Non deve essere esaustivo (semmai evocativo); anche in base alla selezione delle cose estromesse si può capire se è buono o mediocre. Un buon racconto deve riuscire a fare una buona sintesi della materia narrativa, della storia che vuole raccontare e/o rappresentare. Un buon racconto è sempre un riassunto, deve operare una selezione degli elementi in campo, scegliendo di lasciarne alcuni da parte (senza per questo magari annullarli completamente, lasciando che agiscano tra le righe).

Spazinclusi è un collettivo di appassionati di scrittura, che si cimentano nel racconto. Abbiamo aperto il blog per avere un impegno con noi stessi e metterci a scrivere con regolarità, per fare esercizio. A chi come noi vuole crescere, alcuni consiglierebbero di fare dei corsi, altri di inviare qualche testo a riviste letterarie, altri ancora di provare a partecipare a qualche concorso. Tu da dove consiglieresti di partire?

Prima di fare anche solo una di tutte queste cose, scrivete tanto per conto vostro. Per scrivere tanto intendo almeno quattro o cinque anni. A testa bassa, senza nemmeno troppi riscontri da parte di terzi o, come si dice oggi, feedback. Scrivete e cercare di capire da soli se avete scritto roba buona. Forgiate il critico oltre allo scrittore. Ogni vero scrittore è- dovrebbe essere- anche il critico di se stesso. E ancora non basta, aggiungo: il critico più temuto.

Nel 2007 hai vinto il premio Chiara. Che ruolo hanno i premi letterari secondo te nel panorama editoriale, e quali sono i più prestigiosi nel contesto italiano?

Strega e Campiello sono gli unici due premi italiani in grado di “muovere copie”, cioè di far vendere i libri delle rispettive cinquine (anche se il primo va liberato dalla dittatura dei gruppi editoriali): purtroppo, Albo d’Oro alla mano di entrambi, i libri di racconti vittoriosi sono appena una manciata. Per quanto riguarda i premi specializzati nel racconto, oltre al Premio Chiara, menzionerei almeno il Premio Settembrini e il Premio Cocito Montà d’Alba.

In Italia sono sempre di più i concorsi rivolti sia a libri editi che inediti, sia gratuiti che a pagamento, e molti sono rivolti al racconto. Cosa ne pensi di questo fenomeno? E quanto possano essere utili per un autore, nell’ottica della pubblicazione e della visibilità?

Possono essere utili ma nell’ottica di cui parlavo prima: a monte di tutto da parte dell’aspirante ci deve essere un periodo di praticantato in solitaria, che prescinde dal contesto. Una sorta di seminario, se si vuole, bisogna prendere i voti. Poi vanno benissimo i concorsi ma non bisogna partire da lì. Conosco gente che si vuole far notare ancora prima di aver scritto una sola pagina decente.

Sei appena tornato da un convegno a Bruxelles sul tema del racconto. Qual è la situazione in Europa su questo?

C’è molta curiosità rispetto ai “raccontisti” italiani. Ma la vera notizia è che avevo proposto un pezzo sul convegno ai tre principali supplementi culturali italiani: non l’ha voluto fare nessuno. Questo è l’interesse sul racconto.

Parliamo di critica. Nel racconto “La canonizzata” contenuto ne “I difetti fondamentali” scrivi: “Croce, Bachtin, Lukacs, Benjamin, Adorno, Barthes, Foucault: hanno sempre anteposto le loro intuizioni alle teorie. Chi grida alla morte della critica sbaglia sempre. La critica non può morire semplicemente perché non è mai davvero nata”. Cosa pensi tu della critica oggi, e del fatto che sembra sempre più spostata sui social network?

Sui social network oggi abbiamo le reazioni dei lettori, cosa ben diversa dalla critica letteraria. Avere le reazioni in presa diretta di chi legge è anche molto elettrizzante- una cosa che non è mai appartenuta alla letteratura, bensì alle arti performative (penso soprattutto al rapporto tra attore e pubblico a teatro)-, però poi c’è bisogno di analisi condotte con strumenti professionali, e di ristabilire una gerarchia delle letture: il pezzo critico non è un like, o almeno non dovrebbe essere solo un like.

Per finire: quali sono i tre racconti, o più, che adotteresti o che consiglieresti di adottare?

Tre autori da cui pescare, poi ognuno adotti il racconto che preferisce: Cheever, Zavattini, Valadés.


(Immagine presa da Pixabay)

L’intervista è stata pubblicata anche su ReaderForBlind

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