Solo l’occhio del gatto contempla la noia

Solo l’occhio del gatto contempla la noia

Racconto di Laure Deschamps

Traduzione dal francese di Marezia Ori

— E tu, cosa fai nella vita?
La ragazza m’interpella, sorridente e rilassata, la testa inclinata da un lato, quasi una seduttrice. La manica della blusa lilla le è scesa sulla spalla destra. Non ci fa caso. Tiene in mano un bicchiere triangolare sormontato da un’oliva grinzosa, infilzata su uno stecchino. Prendo il tempo di assaggiare il mojito prima di rispondere; le foglie di menta s’attorcigliano in arabeschi attorno alla cannuccia di bambù. Aspiro a lungo, dei granelli di zucchero si mescolano al succo alcolico e iniziano a danzarmi sulla lingua. Stridono con la sensazione sgradevole del legno aspro tra le mie labbra. Prendo un altro sorso prima di sbottare, sincera:
— Niente! Non faccio niente!
Quasi urlo l’ultima parola sopra il rock lieve che riempie la stanza.
Osservo la mia interlocutrice. Adoro il momento in cui loro si interrogano: sta scherzando o dice sul serio? Alcuni ridono, stupidamente imbarazzati, prendono la risposta per una provocazione o mi rispondono Come me, insomma! Altri sembrano spiazzati: si preoccupano del mio caso, si lanciano in lunghe tirate sui benefici di una vita attiva e la ricerca di un senso. A questi sermoni, ridacchio in silenzio nei vapori del rum. Io non sono niente! Nient’altro che le vostre fantasticherie di libertà, il vostro terrore d’uscire dai binari, ma niente che valga collera o passione.
È iniziato alla mia nascita il nulla dell’esistenza. Ero una bimba apatica, più intenta a sognare e dormire che ad aver fretta di crescere. I miei primi ricordi nel cortile della scuola mi riportano sulla panchina verde, di fianco al tiglio. Osservavo i bambini correre, saltare, ridere o arrabbiarsi; studiavo i loro usi. Tentavo di fare come loro. Mia madre si congratulava per i miei sforzi e fantasticava sulla mia differenza che attribuiva a una presunta grande intelligenza. La sua morte ha cambiato tutto. A che scopo fare finta?
Alle medie e al liceo, loro si sono impegnati per delle cause; hanno lottato contro delle guerre, inveito contro i boomers, manifestato per il clima. Non sopportavano il mio attendismo, il mio distacco, il mio menefreghismo. Un giorno, una compagna mentre passavo, per farmi reagire ha lanciato: Lei, se fosse morta, sarebbe uguale talmente non esiste proprio! Ha fatto ridere il suo gruppetto. Mi ha fatto riflettere. Ero inesistente? Mi sentivo dissonante, piuttosto. Credo che sia stato là che ho preso la decisione: avrei vissuto senza di loro. Sarei stata l’invisibile felice. Sarei diventata un vento, un soffio, uno zeffiro discreto che voga tra gli umani indaffarati.
La sconosciuta davanti a me scuote i riccioli scuri, arriccia il naso e ribatte alzando la voce:
— Quindi sei disoccupata? O piuttosto casalinga, no? Quanti marmocchi sul groppone?
I commenti mi scivolano addosso senza appiglio né resistenza. Voglio solo dissolvermi e trovare una mia cadenza. Alzo le braccia sopra la testa, trascinata dalla voce acuta della canzone, e inizio a oscillare i fianchi. Vahina, raggiante, ci passa accanto. La festa per l’inaugurazione del suo accogliente duplex sulla Rive Droîte le assomiglia: elegante e in totale controllo.
Vahina, la mia unica amica; la sola che non abbia mai cercato di cambiarmi. Rispetta le mie giornate passate a contemplare le nuvole; non si preoccupa né delle mie finanze né della mia solitudine. Non volevo venire, stasera, ma ha saputo convincermi; ha detto: Ilma, senza di te non è lo stesso. Alle medie mi cercava negli angolini, mi si sedeva di fianco, metteva un braccio sulle mie spalle. A volte, mi cullava come una bambina e mi sussurrava all’orecchio una delle sue massime misteriose: Briglia di cavallo non sta all’asino, oppure Solo l’occhio del gatto contempla la noia. Dieci anni più tardi è ancora al mio fianco. Senza cedimenti e senza nulla chiedere in cambio.
Rispondo tenendomi vaga:
— No no, non ho figli!
La conversazione mi annoia. Ho voglia di ballare, il solo momento in cui posso stare con loro senza sentirmi a disagio. Vahina e io andavamo spesso in discoteca insieme. Mentiva ai suoi genitori, diceva che veniva a dormire da me per farmi compagnia. Prendevamo l’autobus di nascosto e quando ci capitava di perderlo facevamo l’autostop. Prima di entrare al “Baboum club”, ci truccavamo a vicenda, goffamente, a bordo strada. Al mattino, il buttafuori ci spingeva verso l’uscita, diceva: A nanna, adesso, gemelle; su, ragazze, fate le brave! Tornavamo a casa a piedi, rabbrividendo per il freddo e inciampando nelle stradine fangose. Le nostre risate bucavano l’alba. Vahina amava quegli attimi proibiti, diceva che ero il suo spazio immaginario. Non ho mai capito cosa volesse dire.
Seguo col piede i cambi di ritmo della musica. Ma la ragazza di fronte a me s’ostina: vuole a tutti i costi catalogarmi in uno dei suoi cassettini ermetici.
— Sei una vanlifer o una cosa così?
Sospiro scoraggiata. Scruto il suo viso. L’alcol le si è diffuso sulle guance, dei piccoli puntini rossi picchiettano gli zigomi tondi. Fa un passo indietro per evitare una coppia che la sfiora ballando; perde leggermente l’equilibrio e indietreggia per addossarsi all’isola centrale della cucina. Poi pianta le labbra rosa acceso nel bordo trasparente del bicchiere e beve a piccoli sorsi squadrandomi.
Sento, all’interno del mio corpo, una corrente negativa, un’ondata perturbante, come gli acquazzoni di primavera che prendono di sorpresa il vento, all’improvviso appiccicoso di vapore umido. Non mi piacciono quegli occhi duri, la sua sicurezza malsana; fa talmente loro! Mi fa venire voglia d’essere perfida a mia volta. Come questo ritmo che ricomincia; batto le mani due volte, in armonia con la folla crescente di gente che balla. Dove stavano nascosti tutti questi invitati?
La tipa si è spostata e mi tira per il braccio perché mi metta da lato con lei. Faccio un respiro profondo e mi sforzo di essere secca:
— Lascia stare, non puoi capire, è troppo semplice per te! Non faccio niente! Assolutamente niente! Anzi, puff, sparisco!
Schiocco le dita guardandola negli occhi. S’inceppa, esita, non sa come ribattere. Un’oscillazione felice m’invade e scaccia la pioggia gelata. Ritrovo la mia leggerezza, divengo vento di mare, quello che percepisci appena, un fluido alato sui vostri corpi tesi; m’immischio in silenzio nei vostri capelli e riparto, segreta e fugace.
La sconosciuta alza gli occhi al soffitto – riflette, cerca il contrattacco. Giocherella con l’oliva e l’addenta – la grinzosità deve darle un gusto rancido. Vahina arriva in mezzo a noi e s’inserisce con naturalezza nella conversazione.
— Come sta il mio panda preferito? Sempre con la testa sulla luna?
Stasera la trovo solare. Lei, così normale, col suo compagno, il cane, il lavoro e ben presto, ci scommetto, il primo figlio, sembra talmente libera. Le sfioro la mano rispondendo:
— Sto bene. Guarda: ho perfino trovato un bambù per non sentirmi persa!
Scuoto la cannuccia davanti al mio naso. Vahina scoppia in una risata cristallina. Anche la ragazza – Alice, precisa Vahina – è divertita. Si mettono a parlare della festa, del tempo, del lavoro, tutte cose per me prive di senso.
Non le ascolto, evado nella musica. Si diffonde un jazz allegro, faccio un passo di lato e mi ritrovo imbarcata sulla pista. Vahina ha spinto tutti i mobili contro i muri per fare spazio e appeso al lampadario una grossa strobosfera argentata.
Ormai siamo così tanti che i nostri corpi si toccano quasi. M’immagino d’essere scirocco, brucio nei movimenti che mi animano braccia e gambe. Chiudo gli occhi per godermi il suono. Mi dimentico di loro. La musica cambia, una voce grave di crooner mi arriva alle orecchie, come il vento d’altano, il soffio del diavolo. Continuo a muovermi, le palpebre chiuse e il sorriso sulle labbra. Ho l’impressione di sollevarmi, volteggio come brezza leggera, ondeggio le braccia, sollevo il corpo poi soffio come tramontana, risalgo in picchiata e m’appallottolo al suolo. Le note mi attraversano e scuotono il mio corpo sempre più forte, non sento nient’altro che le vibrazioni sonore. Divento maestrale, ballerina folle e gioiosa nella folla. Ma dove sono tutti? Non sento più ostacoli attorno a me. Apro gli occhi nel momento in cui il pezzo finisce: la voce tace e le ultime note stillano lente.
Mi rendo conto che mi stanno intorno. Mi hanno fatto spazio. Mi guardano.
Un uomo smilzo batte per primo le mani. Poi un secondo. Un terzo. E tutta la sala mi applaude con vigore.

***

Seul l’œil du chat contemple l’ennui

— Et toi, qu’est-ce que tu fais dans la vie?
La jeune femme m’interpelle, souriante et détendue, la tête penchée sur le côté, presque séductrice. La manche de sa blouse mauve a glissé le long de son épaule droite. Elle n’y prend pas garde. Elle tient en main un verre triangulaire coiffé d’une olive ridée, percée d’un long pic. Je prends le temps de goûter mon mojito avant de répondre; les feuilles de menthe s’enroulent en arabesques autour de la paille en bambou. J’aspire longuement; des grains de sucre se mêlent au jus alcoolisé et viennent danser sur ma langue. Ça jure avec la sensation désagréable du bois rêche entre mes lèvres. Je reprends une gorgée avant de balancer, sincère:
— Rien! Je ne fais rien!
Je crie presque le dernier mot au-dessus du rock suave qui enfle dans la pièce.
J’observe mon interlocutrice. J’adore ce moment où ils s’interrogent: elle plaisante là ou elle est sérieuse ? Certains rient, bêtement gênés, prennent ma réponse pour de la provocation ou me répondent Comme moi, quoi! D’autres semblent déroutés: ils s’inquiètent de mon sort, se lancent dans des tirades sur les bénéfices d’une vie active et la recherche de sens. À ces évocations, je glousse discrètement dans les vapeurs de rhum. Moi je ne suis rien ! Rien que vos fantasmes de liberté, rien que vos angoisses de déraillement mais rien qui ne vaille colère ou passion.
Ça a commencé à ma naissance, le néant de l’existence. J’étais un bébé apathique, plus occupé à rêver et dormir qu’à me presser de grandir. Mes premiers souvenirs de cour de récré me ramènent au banc vert, à côté du tilleul. J’observais les enfants courir, sauter, rire ou s’énerver; j’étudiais leurs coutumes. Je tentais de faire comme eux. Ma mère me félicitait pour mes efforts et fantasmait sur ma différence qu’elle attribuait à une soi-disant grande intelligence. Son décès a tout changé. À quoi bon faire semblant?
Au collège et au lycée, ils se sont engagés pour des causes ; ils ont lutté contre des guerres, invectivé les boomers, manifesté pour le climat. Ils ne supportaient pas mon attentisme, mon détachement, mon je-m’en-foutisme. Un jour, une élève a lancé sur mon passage, pour me faire réagir, Elle, elle serait morte, ce serait la même chose tellement elle n’existe pas! Ça a fait rire son groupe. Ça m’a fait réfléchir. Étais-je inexistante? Je me sentais plutôt discordante. Je crois que c’est là que j’ai pris ma décision : j’allais vivre sans eux. Je serai l’invisible heureuse. Je deviendrai un vent, un souffle, un zéphyr discret voguant parmi les humains affairés.
L’inconnue devant moi secoue ses boucles brunes, fronce son nez et rétorque en haussant le ton:
— Alors t’es au chômage? Ou plutôt femme au foyer, non? T’as combien de mômes à torcher?
Les remarques glissent sur moi sans accroche ni résistance. Je veux juste me dissoudre et rejoindre ma cadence. Je lève les bras au-dessus de ma tête, entraînée par la voix aigüe de la chanson et je me mets à osciller des hanches. Vahina passe, rayonnante, à côté de nous. Sa fête de crémaillère dans un duplex cosy de la Rive droite lui ressemble: élégante et maîtrisée.
Vahina, mon unique amie; la seule qui n’a jamais cherché à me changer. Elle respecte mes journées passées à contempler les nuages; elle ne s’inquiète ni de mes finances ni de ma solitude. Je ne voulais pas venir ce soir mais elle m’a prise par le cœur; elle m’a dit Ilma, sans toi c’est différent. Au collège, elle me cherchait dans les recoins, elle s’asseyait à mes côtés, elle entourait mon épaule. Parfois, elle me berçait comme une enfant et me glissait à l’oreille l’une de ses mystérieuses maximes: Bride de cheval ne va pas à un âne ou encore Seul l’œil du chat contemple l’ennui. Dix ans plus tard, elle est toujours à mes côtés. Sans faillir et sans rien attendre en retour.
Je réponds en restant vague:
— Non non, je n’ai pas d’enfants!
Cette conversation me lasse. J’ai envie de danser, ce seul instant où je peux être avec eux sans qu’ils me gênent. Vahina et moi on allait souvent en boîte toutes les deux. Elle mentait à ses parents, elle disait qu’elle venait dormir à la maison pour me tenir compagnie. Nous prenions le car en cachette et quand il nous arrivait de le rater, nous faisions du stop. Avant d’entrer au « Baboum club », l’une maquillait l’autre, gauchement, au bord de la route. Au matin, le videur nous poussait dehors, il nous disait Au lit maintenant, les jumelles; faut être un peu raisonnables les filles ! Nous rentrions à pied, en frissonnant et en butant dans les chemins boueux. Nos rires perçaient le petit jour. Vahina aimait ces moments interdits; elle me disait que j’étais son espace imaginaire. Je n’ai jamais compris ce qu’elle voulait dire.
Je tape du pied à chaque reprise de rythme de la musique. Mais la jeune femme face à moi s’entête: elle veut me ranger dans une case d’apothicaire.
— T’es van lifeuse ou un truc du genre?
Je soupire, désabusée. Je scrute son visage. L’alcool s’est répandu sur ses joues; de petits picots rouges parsèment ses pommettes bombées. Elle fait un pas en arrière pour éviter un couple qui la frôle en valsant; elle perd légèrement l’équilibre et s’éloigne pour s’adosser à l’îlot central de la cuisine. Puis elle plante ses lèvres rose vif dans le bord transparent de son verre et boit à petites lampées en me dévisageant.
Je sens, à l’intérieur de mon corps, un mauvais courant, une ondée perturbante, comme ces giboulées de printemps qui surprennent la brise, soudain poissée d’une vapeur moite. Je n’aime pas ces yeux durs, cette assurance malsaine ; c’est tellement eux! Ça me donne envie d’être perfide moi aussi. Comme ce tempo, là, qui reprend ; je tape deux fois dans les mains, au diapason avec la foule grandissante de danseurs. Où étaient cachés tous ces invités?
La femme s’est déplacée et m’a tiré par le bras pour que je m’écarte avec elle. Je prends une grande inspiration et je me force à être cassante:
— Laisse tomber, tu ne comprendras pas, c’est bien trop simple pour toi! Je ne fais rien! Rien du tout ! D’ailleurs, pouf, je disparais!
Je claque dans mes doigts en soutenant son regard. Elle bugue; elle hésite, elle ne sait pas comment répliquer. Une oscillation heureuse m’envahit et chasse la bruine glacée. Je retrouve ma légèreté, je deviens le vent de mer, celui qu’on perçoit à peine, un fluide ailé sur vos corps tendus; je m’immisce en silence dans vos cheveux et je repars, secrète et fugace.
L’inconnue lève ses yeux au plafond – elle réfléchit, elle cherche la riposte. Elle tripote son olive et la croque – sa fripure doit lui donner un goût rance. Vahina s’approche alors de nous et entre avec naturel dans la discussion.
— Comment va mon panda préféré? Toujours dans la lune?
Ce soir, je la trouve solaire. Elle, si normale avec son copain, son chien, son job et bientôt assurément, son premier bébé, semble tellement libre. J’effleure sa main en lui répondant:
— Je vais bien. Regarde! J’ai même trouvé un bambou pour ne pas me sentir perdue!
J’agite la paille devant mon nez. Vahina part d’un rire cristallin. La jeune femme – Alice, précise Vahina – s’en amuse également. Les deux se mettent à parler de la fête, du temps, du boulot, de toutes ces choses dénuées de sens pour moi.
Je ne les écoute pas, je m’évade dans les notes de musique. Un jazz enjoué s’élève, je fais un pas de côté et je me retrouve embarquée sur la piste. Vahina a poussé tous les meubles le long des murs pour faire de la place et accroché au lustre une grosse boule à facettes argentées.
Nous sommes si nombreux désormais que les corps se touchent presque. Je m’imagine en sirocco, je brûle des mouvements qui animent mes bras et mes jambes. Je ferme les yeux pour profiter du son. Je les oublie. La musique change, une voix grave de crooner arrive à mes oreilles, comme le vent d’autan, le souffle du diable. Je continue de bouger, les paupières fermées et le sourire aux lèvres. J’ai l’impression de m’envoler, je tournoie en brise légère, ondule des bras, allège mon corps puis je siffle en tramontane, remonte en piqué et plonge en boule au sol. Les notes me traversent et agitent mon corps de plus en plus vite, je ne sens plus rien que les vibrations du son. Je deviens le mistral, ballerine folle et joyeuse parmi la foule. Où sont-ils d’ailleurs? Je ne sens plus aucun obstacle autour de moi. J’ouvre les yeux au moment où le morceau se termine: la voix s’est tue et les dernières notes s’égrènent avec lenteur.
Je me rends compte qu’ils m’encerclent. Ils se sont écartés. Ils me regardent.
Un homme fluet tape le premier dans ses mains. Puis un second. Une troisième. Et toute la salle m’applaudit avec vigueur.

Il racconto originale di Laure Deschamps è stato pubblicato nella rivista letteraria francese Reticule n° 17, maggio 2022. È incluso nella raccolta di Laure Deschamps La boîte à nouvelles n° 1, maggio 2024.

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Commento della traduttrice

Ilma è una persona a parte, stramba, per gli altri, “dissonante” come si definisce lei. Da sempre si è mossa a un ritmo diverso da quello degli individui che la circondavano. Loro correvano, lei contemplava il vento, loro facevano, lei si lasciava esistere. Se per un po’ ha fatto finta, crescendo ha smesso, ma loro non hanno smesso di cercare di rinchiuderla nei loro schemi.
Il breve racconto di Laure Deschamps ci tuffa nella vita e nelle sensazioni di un personaggio atipico, un essere umano che non fa niente e non vuole fare niente. E, in silenzio, a ritmo di musica, rivendica il suo diritto a non farlo. Un personaggio fuori dai ranghi per un racconto leggero come il vento che soffia nelle vene della sua protagonista, retto da una scrittura elegante, ricercata, musicale e visiva insieme, in cui le parole danzano insieme a Ilma e alla sua proclamazione del diritto alla dissonanza.

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L’autrice

Laure Deschamps, autrice di romanzi e racconti, ama dare corpo e voce a personaggi apparentemente banali. Laureata in lettere, fondatrice di un ente culturale, naviga tra le sue due vite dando sempre più spazio alla scrittura creativa.
Ha pubblicato il romanzo Une symphonie humaine e la raccolta di racconti la boîte à nouvelle n°1
Alcuni suoi testi sono apparsi su riviste e pubblicazioni letterarie francesi.

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La traduttrice

Marezia Ori è cresciuta in Emilia, dove si è laureata in scienze politiche, e dal 2001 vive nel sud della Francia. Si occupa in freelance di traduzione, redazione, correzione testi, copy-writing, ghost-writing.
Appassionata di scrittura creativa, alcuni suoi racconti hanno vinto concorsi letterari o sono stati pubblicati in antologie; altri racconti e traduzioni sono presenti su riviste e siti (Piccoligrandisognatori, Piégami, rivistaBlam!, Narrandom, Lunario, Spazinclusi). Fa parte della redazione di Spazinclusi.

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Copertina originale: collage di Laure Deschamps

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