Hellseer

Hellseer, # 1

Racconto di Laura Venita Green
Traduzione di Marianna Vitale
Racconto e traduzione pubblicati nell’antologia 2020 Word for Word Workshop ebook
Nuova versione del racconto pubblicata dalla rivista statunitense Joyland

Sul biglietto da visita di Trina c’era scritto «Madame Trinae, Hellseer» e il suo negozio era in prima linea all’angolo fra Dauphine e Bienville, a un solo isolato di distanza dal tratto sudicio di Bourbon Street. Aveva preso in subaffitto il negozio da Daphne Reine, la Regina Voodoo di Rue Dauphine, dopo che lei aveva subito la terza amputazione a causa del diabete. Il giorno stesso in cui si era trasferita, Trina aveva tolto dalla porta la tenda sbrindellata e ammuffita con la scritta «Veggente» in lettere sbiadite. Aveva montato un’insegna al neon fatta su misura, che in corsivo rosso diceva: «Hellseer». E poi, perché tutti i passanti capissero, aveva scritto «Chiaroveggente» con un pennarello rosso su una lavagnetta appoggiata in un angolo della vetrina. Aveva creato un sito web gratuito, giusto una pagina con foto, orari e la sezione «Chi sono», in cui spiegava di aver ricavato il nome Hellseer da una parola tedesca, Der Hellseher, che significa chiaroveggente.
Per finanziare l’attività e l’insegna al neon aveva rinunciato al suo appartamento e sistemato un futon nel negozio, con paraventi pieghevoli che delimitavano la sua stanza da letto. Durante il primo anno, però, le sue uniche clienti erano state le donne sbronze, tutte fatte con lo stampo, che partecipavano agli addii al nubilato. Arrivavano in gruppo e, per sfida, osservavano le cianfrusaglie mistiche lasciate in giro dalla Regina Voodoo e si scambiavano sguardi a occhi sgranati. Andavano da lei per lo spettacolo, e Trina non le deludeva. Aveva immerso la stanza in una luce al neon rossa e le torturava con visioni di matrimoni falliti, innumerevoli aborti e sofferenze di ogni genere, prendendo i pochi spiccioli che avevano e congedandole traumatizzate. Loro avevano ricambiato con recensioni su Yelp, così spaventose e intriganti, che le facevano pubblicità definendola “un’attrazione perfetta per un weekend tra donne a New Orleans”. Eppure stentava a far quadrare i conti.
Ma tutto ciò accadeva prima della bambina. Da quando c’era la bambina, la rispettavano di più. Da quando c’era la bambina, lavorava solo su appuntamento.

*

La bambina, Abby, aveva otto anni e un carattere allegro. Le piaceva correre per il negozio, fare le capriole, unire le mani dietro la schiena e roteare le braccia sopra la testa, mettendo in mostra le articolazioni snodate dei gomiti. Tutto ciò ovviamente mirava a richiamare l’attenzione di Trina e, quando la otteneva, Abby si metteva in posa, inclinando il fianco, con una mano in vita e l’altra sul capo. Ta-da!
Ma quando voleva la medicina, come accadeva quasi ogni mattina, non parlava, stava lì seduta, sudando e graffiandosi la pelle fino a scorticarsi. Trina aveva dovuto tagliarle le unghie al vivo per impedirle di far uscire il sangue.
Trina estrasse dal sacchetto della farmacia il kit per la decolorazione dei capelli e posò tutto sul bancone del cucinino. – Vieni, – le disse. – Tanto vale che respiriamo queste sostanze chimiche visto che già ti senti di merda.
La bambina si alzò dal bordo del futon e si trascinò dall’altra parte della stanza con un debole passo di danza dei piedi nei calzini, gli occhi umidi puntati su Trina.
– Non essere così impaziente. Non sai nemmeno cosa ho preso, magari sto cercando di avvelenarti.
La bambina ringhiò scoprendo i denti e agitò le mani come fossero gli artigli molli di un orso, sogghignando. Trina roteò gli occhi, la fece sedere sui cuscini posati per terra davanti alla grande specchiera e sistemò una sedia dietro di lei.
– Okay, – disse, spazzolandole i capelli castani, morbidi e lucenti. – In questa città c’è bisogno di un trucco. In pratica sei già la mia apprendista Hellseer, tanto vale che ti cali nella parte.
L’odore pungente di ammoniaca le bruciò nel naso quando aprì la confezione. – Qui, – disse, porgendola a Abby. – Da’ una sniffata. Ti farà sentire meglio.
La bambina inspirò profondamente e chiuse gli occhi, sollevando il mento verso il soffitto.
– Basta così. Non vorrai mica uccidere le cellule del cervello.
Trina mescolò gli elementi del kit fino a ottenere una pasta densa. Usò il piccolo pennello venduto insieme all’ammoniaca per farle delle mèche che partivano dalle spalle e scendevano lungo la schiena, avvolgendole in fogli di stagnola per proteggere il resto dei capelli.
Quando stava per finire, suonò la sveglia del cellulare, annunciando l’ora della pillola. La bambina si riprese e cercò di rimettersi in piedi. Trina le appoggiò le mani sulle spalle con fermezza. – Non ti ho ancora detto di alzarti.
Abby rimase seduta ma non la smetteva di agitarsi. Trina le diede un colpetto sulla nuca. – Sta’ ferma. Tra poco avrò finito.
Nello specchio, Trina vedeva le narici di Abby che si dilatavano. Il bianco dei suoi occhi. Il respiro che le usciva dalla bocca aperta in deboli sbuffi.
L’irrequietezza della bambina le urtava i nervi. Da piccola, Trina avrebbe dato qualsiasi cosa perché qualcuno giocasse così coi suoi capelli. Invece, nessuna famiglia a cui era stata affidata l’aveva voluta, finché era scappata e alla fine aveva trovato la Regina Voodoo. Se Abby era in vena di capricci, avrebbe aspettato. Afferrò il cellulare e spense la sveglia. Controllò l’agenda e vide che nessun nuovo cliente aveva preso appuntamento, poi diede una scorsa alle pagine successive per rivedere gli impegni della settimana.
La bambina emise un lamento forte e profondo. Trina posò con rabbia il cellulare e, tenendo tra le mani il viso di Abby, la fissò nello specchio.
– Se ti calmi, fra dieci secondi avrò finito e ti preparerò la medicina. Promesso. Ce la puoi fare?
Abby annuì. Trina applicò la pasta rimanente alle ultime ciocche con una rapida pennellata, ripiegò la stagnola e batté le mani. – Finito!
Andò in cucina con la bambina che la seguiva saltellando. Usò una scala per tirare giù il flacone da sopra l’armadio. Prelevò una compressa da quindici milligrammi di ossicodone dalla scorta acquistata dalla Regina Vodoo, la cui etichetta si era staccata. Divise in due la compressa con un coltello e ne rimise una metà nel flacone. Poi usò il manico per sbriciolare la metà rimasta fino a ottenere una polverina.
La bambina la osservava da vicino, scossa dal tremito. – Questa non basta, – disse.
Trina la ignorò. Mise una fetta di pane bianco nel tostapane e prese la marmellata di fragole, ne mescolò una bella cucchiaiata con la polverina e quando il pane saltò fuori ce la spalmò sopra, poi lo mise in un piatto e lo porse alla bambina.
Abby diede un grosso morso. Con la bocca piena, si lamentò: – Non basta.
– Una goccia di marmellata le cadde sull’avambraccio, lei se lo portò alla bocca per succhiarla. – Me ne serve di più.
– È la quantità che prendi sempre, – disse Trina.
La mano della bambina le strinse il polso. – Non dirmi bugie.
– Smettila, – disse Trina. – Sei a posto così. – La droga non ci avrebbe messo molto a fare effetto.
Quando Trina l’aveva trovata, circa un anno prima, rannicchiata su una panchina della stazione di Toulouse, Abby aveva segni di iniezioni recenti sulle braccia. Per farla smettere con la droga, Trina aveva sbriciolato dell’ossicodone preso al mercato nero e le aveva fatto sniffare la polverina. Poi, a poco a poco, era riuscita a inghiottirlo. Adesso le stava riducendo la dose. Quattro mesi prima, da una compressa intera era passata a tre quarti, due volte al giorno. Ora a mezza compressa. L’intenzione era di ridurla a un quarto prima di iscrivere la bambina a scuola, in autunno. Poi avrebbe smesso completamente, ma non era ancora il momento di pensarci. Abby probabilmente era assuefatta dalla nascita e ne voleva sempre di più.
Trina la condusse al lavandino e le sciacquò i capelli dall’ammoniaca. Forse aveva aspettato troppo, perché insieme alla stagnola vennero via delle ciocche, e quelle che restavano erano spezzate e bruciacchiate.
– Oh cazzo, – disse Trina. Usò del sapone per piatti per rimuovere l’ammoniaca, poi attaccò il phon e fece sedere la bambina sul bancone mentre le asciugava i capelli.
Trina all’inizio pensava che non avrebbe sopportato di averla intorno, ma era stata felice di ricredersi. Dopotutto anche lei aveva un po’ di istinto materno, aveva fatto male a sottovalutarsi. Gli sbalzi d’umore di Abby, quando si lamentava per la medicina, erano una grossa seccatura, ma per la maggior parte del tempo quella bambina era come una bambola. Le obbediva sempre, soprattutto se c’erano altre persone, e la sua presenza era fondamentale per reclutarle.
Tornata davanti allo specchio, Trina aprì una confezione di gessi per capelli e sparse tutti i colori su un tovagliolo di carta. – Vuoi scegliere?
La bambina non aveva dubbi. – Viola, – disse, afferrando il gesso e tenendolo in alto.
– Mmm, – disse Trina. – Non è un po’ troppo pastello?
– No. A me piace.
– Okay, – disse Trina, prendendo il gesso viola dalla mano di Abby. – Immagino che tu lo voglia abbinare, visto che sei la mia apprendista e tutto il resto.
La bambina si girò a guardarla. – Sì, – disse.
– Viola, quindi?
Abby riprese il gesso da Trina e le porse quello rosso. – Voglio questo.
Trina annuì e le tinse le strisce di capelli bianchi e increspati, facendo più strati che poteva con il gesso rosso. Abbassò le luci delle lampade sparse per tutto il negozio. Poi rimasero una accanto all’altra, davanti allo specchio, ad ammirare l’opera di Trina. Le ciocche rovinate si aprirono a ventaglio come se fossero cariche di elettricità statica. Abby fece un largo sorriso, aveva gli occhi liquidi – la droga stava facendo effetto.
Già. La sua piccola, perfetta, apprendista Hellseer.

*

Quel pomeriggio Trina indossò il “completo da reclutamento”, un vestito bianco da contadina e stivali neri da lavoro, e andarono a piedi al Museo della Morte, a trovare Serge. Era una giornata perfetta, soffiava una calda brezza primaverile e le strade fuori dai negozi erano piene di vita. I turisti della domenica indossavano abiti color cachi o a fiori, come se fossero appena usciti dalla chiesa. E probabilmente era proprio così; era pieno di chiese antiche e bellissime nei dintorni del Quartiere Francese, dove si poteva lavar via qualsiasi vergogna per le porcate della notte precedente, trascorsa in Bourbon Street a sorseggiare Hand Grenade, barcollando e mettendo in mostra tette e culi in cambio di collane da quattro soldi.
L’immondizia – volantini di strip club, perline e contenitori vuoti – sembrava quasi allegra mescolata ai piccoli petali caduti, come confetti, dai biancospini in fiore che fiancheggiavano Bienville.
La bambina si mise a correre lungo il marciapiede, saltò all’altezza dei rami e li colpì per far piovere i petali, e mentre le scivolavano addosso fece una piroetta con le braccia alzate.
A Trina piaceva l’accostamento. Fiori e immondizia. Chiese e strip club. Pulizia e sporcizia. Le ciocche rovinate in mezzo ai capelli sani di Abby. A un angolo della strada, un uomo in giacca e cravatta suonava il sassofono così bene che avrebbe potuto esibirsi al Preservation Hall, la custodia dello strumento era aperta e metteva in mostra i CD da acquistare. All’angolo opposto, un senzatetto soffiava in un kazoo rimediato chissà dove, il cappello sporco per le donazioni accanto al pitbull che dormiva ai suoi piedi.
All’interno del museo, le famiglie si ammassavano nell’atrio d’ingresso per il tour dei serial killer. Un gruppetto di suore si era raccolto accanto a una vetrata colorata dove, su un pilastro di gesso, era appesa una collezione di coroncine di fiori vittoriane. Trina amava quelle coroncine fatte di capelli umani, gli ultimi resti di intere famiglie defunte da più di un secolo. Pensava di comprarle per il suo negozio, quando avrebbe avuto abbastanza soldi.
La bambina restò indietro, come al solito, a contemplare i feti dei maialini conservati nei vasi, picchiettando sul vetro come per svegliarli, mentre Trina raggiunse Serge alla biglietteria.
– Quelle sono perfette, – disse Trina, indicando le suore. Tirò fuori una manciata di biglietti da visita dalla borsa e li aggiunse al mucchietto sul banco.
– Lo so. Così bizzarre. Quella vecchia con la gobba ha comprato le toppe di Pogo il clown per tutto il gruppo.
Serge la strinse in un abbraccio. Era un tipo alto, robusto e un po’ goffo. Aveva quasi venticinque anni, due meno di Trina. Sotto ai tatuaggi, ai piercing e alla collezione di magliette death-metal, restava quel cocco di mamma tenero e grassottello che sicuramente era stato da piccolo.
La bambina li raggiunse saltellando.
– Come butta, Abby? – le disse lui sollevandola e facendole fare una giravolta in aria. – Fighi i capelli. Adesso sembrate proprio due sorelle.
Quando la strinse al petto e furono faccia a faccia, lei allungò una mano per toccare il piercing di metallo nero sul suo sopracciglio, in modo molto tenero, con un’espressione pensierosa.
Trina conosceva quello sguardo. Abby aveva visto qualcosa.
Serge la mise giù e si scusò prima di andare a rovistare nel magazzino. Una volta uscito, Trina disse: – Con gli amici non lo facciamo, ricordi?
– Ci ho provato a non farlo, – disse la bambina. – Non ci riesco.
– Lo so. Dopo mi dici cos’hai visto.
Trina le diede un colpetto sulla nuca e la lasciò vagare tra i visitatori del museo per carpire informazioni. Aveva già saputo un paio di cose su Serge grazie a Abby. Niente di terribile, ovviamente aveva sempre vissuto sotto a una campana di vetro. Il suo migliore amico d’infanzia era stato un bastardino di nome FatBoy, investito da un pickup che non aveva nemmeno rallentato. La “serata giochi del giovedì” consisteva in un barbecue a casa dei suoi. Si era diplomato in Management del turismo all’università pubblica locale, il Delgado Community College, anche se aveva detto chiaramente a Trina di aver abbandonato gli studi alle scuole superiori, proprio come lei, e non aveva aggiunto altro. Certo, tutti mentono a tutti, ma averlo saputo non facilitava il loro rapporto.
Serge uscì dal magazzino camminando all’indietro e trascinando qualcosa di pesante che adagiò sul pavimento ai piedi di Trina. Era una bara per bambino, nera e lucida, con intarsi in resina rossa che s’incrociavano su tutta la superficie. Trina ne ammirò le imperfezioni, i graffi profondi che rovinavano il legno.
– Avevi detto che ti serviva un tavolino da caffè, – disse Serge. – L’ho trovata al mercato delle pulci di Metairie, ma qui non c’è spazio.
Era perfetta. – Quanto? – disse Trina, estraendo dal portafogli una frusciante banconota da venti e avvertendo il brivido che provava ogni volta che teneva in mano del denaro tutto suo.
– È un regalo. È per te.
Trina lo baciò sulla bocca con impeto e mise via la banconota. Avvistò Abby dall’altro lato della vasta sala, sembrava vagare senza meta accanto a un gruppo di ragazzi ammassati intorno all’opera di Jeffrey Dahmer, tutti con dei cappellini della LSU in testa. – Guardala, – disse a Serge indicando la bambina. Abby alzò subito lo sguardo e, in un batter d’occhio, si mise in posa inclinando il fianco.
– Lo sai che stravede per te, vero? – disse Serge. Sì, Trina lo sapeva.
Gli disse che dovevano fare il giro e andò da Abby per ascoltare le novità. La bambina riferì che la suora giovane con gli occhiali a gatto aveva una figlia data in adozione, che da qualche tempo incontrava in segreto. La suora bassa che aveva appena starnutito aveva una madre scienziata da cui era stata disconosciuta quando aveva preso i voti. Il ragazzo con il cappellino della LSU e i pantaloncini mimetici quando tornava alla fattoria di famiglia nei fine settimana spiava sua sorella dalla finestra col binocolo. Come sempre, Abby riportò le informazioni in modo monotono, diretto, da adulta.
– Tutto qui per oggi?
La bambina batté i piedi. – Non sto bene. Me ne hai data troppo poca.
– Okay, ssh. – Trina si pentì di averlo detto. Il più delle volte passavano l’intero pomeriggio a reclutare, al museo, nei parchi, nei cimiteri o nei bar. E Abby stava diventando scaltra nel reperire informazioni che Trina poteva davvero usare, non solo pensieri casuali come faceva i primi tempi. Ma doveva avere pazienza con lei, soprattutto quando i sintomi dell’astinenza erano acuti. Le stava facendo pressione per ottenere clienti fissi che sostenessero la sua attività. Stava cercando di risparmiare per rilevare il locale dal proprietario prima che la Regina Voodoo morisse e lui le buttasse fuori. Voleva un vero appartamento tutto per loro entro l’inizio della scuola.
Trina mandò Abby da Serge alla biglietteria, mentre lei abbordava le suore. Decise di non impicciarsi di Mister LSU – le ricordava fin troppi ragazzi che aveva incontrato negli anni della sua fuga – ma le sarebbe piaciuto avere qualche suora come cliente. Sarebbe stato perfetto se una di loro avesse acconsentito a scrivere una testimonianza e a fare una foto per il sito web, con espressione estatica e crocifisso in bella vista. Si sarebbe potuta chiamare «Hellseer per suore»! Trina passò accanto a quella più bassa e disse piano: – Se vuoi recuperare il rapporto con tua madre, sono Madame Trinae e posso aiutarti a vedere, – poi le fece scivolare tra le mani un biglietto da visita. A quella con gli occhiali a gatto disse: – Lascerai la chiesa per tua figlia? Sono Madame Trinae, e posso aiutarti a vedere, – e le passò un biglietto da visita. Ne diede una manciata alla più anziana che aveva comprato le toppe di Pogo, sperando che li distribuisse a tutto il gruppo.
Le suore si voltarono all’unisono e la guardarono mentre si allontanava.

***

Hellseer, # 1

Trina’s business cards read: Madame Trinae, Hellseer and her shop was a prime spot on the corner of Dauphine and Bienville, just a block from the dirty strip of Bourbon Street. She’d subleased the space from Daphne Reine, the Voodoo Queen of Rue Dauphine, after Daphne’s third diabetic amputation. The day Trina had moved in, she took down the tattered and mildewed awning over the door with “Psychic” spelled out in faded letters. She’d installed a custom-made sign in red, cursive neon: “Hellseer.” And then, for passersby who wouldn’t understand, she’d written “Psychic Advisor” with a red marker on a poster board and propped it in the corner of her shop window. She’d created a free website, just one page with a photo, a scheduling plugin, and an About Me section she used to clarify that she derived Hellseer from the German word for clairvoyant, Der Hellseher.
To finance her business and the neon sign, she’d given up her apartment and put in a futon and folding screens to cordon off a bedroom in her one-room shop. For the first year plus, her only customers had been bands of drunk bachelorettes, cookie-cutter girls who visited her on a dare, who looked around at all the mystic tchotchkes left by the Voodoo Queen and shot each other wide-eyed glances. The girls had come for a spectacle, and Trina hadn’t disappointed.
She’d bathed the room in a red neon glow and cursed the girls with visions of failed marriages, rampant miscarriages, and every flavor of heartbreak, taking what little cash they had and scooting them out her door shell-shocked. They’d paid her back with Yelp reviews so awful and intriguing that they hyped her as the perfect New-Orleans-girls’-weekend sideshow. Still she barely covered the bills.
But all of that was before she got the girl. Since she had the girl, she had respect. Since she had the girl, business was by appointment only.

*

The girl, Abby, was eight years old, buoyant by nature. She liked to skip around the shop, perform summersaults, clasp her hands behind her back and twist her arms up overhead, showing off her double-jointed elbows. All this she did clearly seeking Trina’s attention, and when Trina gave it to her, Abby put one hand to her waist and the other to her hair, cocked her hip, struck a pose. Ta-da!
But when she wanted her medicine, like she did this and every other morning, she wouldn’t speak, just sat sweating, scratching, tearing at her skin. Trina had to clip Abby’s nails to the quick to keep her from drawing blood.
Trina got the hair bleach kit out of the plastic drug store bag on the counter of the tiny kitchenette. “Come on,” she said to the girl. “We may as well breathe in these chemicals while you already feel crappy.”
The girl got up from the edge of the futon and moved across the room with a weak tap dance shuffle in her sock feet, her wet eyes focused on Trina.
“Don’t be so eager. I might be trying to poison you, you don’t even know what I got.”
The girl bared her teeth and growled, shaping her hands into feeble bear claws, and then dropped them and grinned. Trina rolled her eyes and put the girl on the floor cushions in front of the full-length mirror and scooted a chair up behind her.
“Okay,” Trina said, brushing out the girl’s sleek brown hair. “In this city, you need a gimmick. You’re already pretty much my apprentice Hellseer, so you may as well look the part.”
The sharp smell of ammonia burned Trina’s nose when she opened the package. “Here,” she said, holding the bleach out to the girl. “Give this a huff. It’ll make you feel better.”
The girl breathed in deeply and closed her eyes, tilting her chin toward the ceiling. “That’s all you get. Don’t want to kill your brain cells.” Trina mixed together the contents of the kit until it made a thick paste. She used the small brush that came with the bleach to paint in streaks that started at the girl’s shoulders and ran all the way down her back, wrapping each in aluminum foil to protect the rest of her hair.
Before Trina could quite finish, her phone alarm went off, signaling pill time. The girl perked up and tried to stand. Trina put her hands firmly on the girl’s shoulders. “I didn’t say get up.”
Abby stayed seated but wouldn’t stop fidgeting. Trina swatted her lightly on the back of the head. “Sit still. I could be done with this in a minute.”
In the mirror, Trina could see Abby’s nostrils flare. The whites of her eyes. Her breath came out of her open mouth in shallow huffs.
The girl’s lack of control got on Trina’s nerves. She would have died for someone to play with her hair like this when she was little. Instead, she’d been unwanted in every household she passed through, until she ran away and eventually found the Voodoo Queen. If the girl wanted to throw a little fit, she’d have to wait. Trina picked up her phone and turned off the alarm. She checked her schedule and saw no new clients had requested appointments, then looked ahead to review her commitments for the upcoming week.
The girl made a low, keening moan. Trina slammed her phone down, put her palms on the sides of Abby’s face, and made eye contact with her in the mirror.
“If you can calm down, I will be done in ten seconds and I will make your medicine. I promise. Can you do that for me?”
Abby nodded. Trina put the rest of the mix in the last section with one swift paintbrush motion, crinkled foil around it, and clapped her hands. “All done!”
She went to the kitchen with the girl hopping behind her. She used a stepladder to pull a bottle from the top cabinet and removed a fifteen-milligram oxycodone tablet from the supply that she’d bought from the Voodoo Queen, the prescription label peeled off. With a knife she cut the tablet in two and put one half back in the bottle. Then she used the knife’s handle to crush the remaining half to a fine powder.
The girl watched her closely and began to tremble. “That’s not enough,” she said.
Trina ignored her. She put a piece of white bread in the toaster and got out the strawberry jam, mixed the powder with a large spoonful of jam, and when the bread popped up, spread the mixture onto the toast, put it on a plate, and handed it to the girl.
Abby took a huge bite. Mouth full, she complained, “It’s not enough.” A glob of jam dropped to her forearm, and she brought it to her mouth and sucked it clean. “I need more.”
“It’s the same amount you always get,” Trina said.
The girl circled her hand around Trina’s wrist and said, “You cannot lie to me.” “Stop that,” Trina said. “You’re fine.” The drug never took long to kick in.
When Trina had first found Abby about a year ago, huddled on a bench at Toulouse Station, the girl had fresh track marks on her arms. To get her off the drug, Trina had crushed black-market oxycodone and let her snort the powder. Eventually they got to the point where the girl was swallowing it. Now Trina was tapering the girl’s dosage. Four months ago, she went from a full tablet to three quarters, twice a day. Today it was half. The plan was to reduce from half to one quarter by the time Trina enrolled Abby in school in the fall. Eventually they would stop the drug entirely, but she couldn’t think about that right now. Abby had probably been addicted since birth and always wanted more.
Trina guided the girl to the sink to wash the bleach out of her hair. She must have left it in too long because clumps came out with the foil, and the strands that remained were split and fried.
“Oh, well fuck,” Trina said. She used dish soap to get the bleach out and then plugged her dryer in and set the girl on the counter while she dried her hair.
Trina had thought she would hate having the girl around, but she was pleased to learn that wasn’t the case. She had maternal instincts after all; she shouldn’t have sold herself short. The moodiness when the girl whined for her medicine was annoying, certainly. But for the most part, the girl was a doll. And she obeyed Trina’s rules, especially around other people, which was crucial for when they went recruiting.
Back in front of the mirror, Trina opened a pack of hair chalks and laid the colors on a paper towel. “Do you want to choose?”
The girl didn’t hesitate. “Purple,” she said, grabbing the chalk and holding it high. “Huh,” Trina said. “Isn’t that one too pastel-y?”
“No. I like it.”
“Okay,” Trina said, taking the purple hair chalk from the girl. “I just assumed you’d want to match, seeing as how you’re my apprentice and all.”
The girl swung back to look at Trina. “I do,” she said.
“Purple, though?”
The girl took the chalk back from Trina and handed her the red. “I want this one.”
Trina nodded and colored in the girl’s frizzled white streaks, layering in as much red chalk as she could. She dimmed the lamps scattered throughout the shop. They stood side by side in front of the mirror and looked at Trina’s handiwork. The damaged strands of hair fanned out as if charged by static electricity. Abby grinned at her, her eyes clear – the drug was working.
Yes. Her perfect little apprentice Hellseer.

*

In the afternoon Trina put on her recruiting outfit, a white peasant dress and black work boots, and they walked to the Museum of Death to find Serge. A warm spring breeze made for a perfect day, and the streets outside the shop bustled with activity. Sunday tourists wore khakis or floral dresses as if they’d just come from church. And many probably had; there were plenty of beautiful old churches in and around the French Quarter to wash away any shame these people felt over the shitshows they’d been the previous night out on Bourbon Street, sipping their hand grenades and stumbling around, flashing their tits and asses for cheap beads. The litter – strip club fliers and beads and empty containers – seemed almost festive mixed in with the tiny petals that blew like confetti from the white flowering hawthorn trees that lined Bienville.
The girl got a running start down the sidewalk and jumped up to the branches, bopping them, making them rain, twirling with her arms raised while the petals washed over her.
Trina liked the juxtaposition. Litter and flowers. Churches and strip clubs. Dirty and fresh. Abby’s ruined strands amidst her healthy hair. On one street corner, a man in a suit played the saxophone well enough to perform at Preservation Hall, his instrument case open and displaying CDs for purchase. Across on the other corner, a homeless man blew into a cheap party-favor kazoo, a dirty hat for donations next to a pit bull that slept at his feet.
Inside the museum, families amassed in the front lobby for the serial killer tour. A small group of nuns clustered by the stained-glass window where a collection of Victorian hair wreaths hung on a freestanding plaster pillar. Trina loved those wreaths, remnants of entire families more than a century dead. She planned on collecting them for her shop when she had more money.
The girl stayed behind, as usual, to admire the fetal pigs preserved in jars, tapping the glass as if they might wake up, while Trina found Serge at the ticket desk.
“That is too perfect,” Trina said, gesturing at the nuns. She got a handful of business cards from her purse and added them to the stack at the desk.
“I know. So weird. That old one with the hunch bought enough Pogo the Clown iron-on patches to give out to her whole group.”
Serge squeezed her into a hug. He was a tall guy, stocky and a little awkward. A couple years younger than Trina, not quite twenty-five. Underneath his tattoos and piercings and collection of death metal t-shirts, he remained the pudgy, sweet momma’s boy that he’d surely been growing up.
The girl skipped up to him. He said, “What up, Abby,” and lifted her high into the air, swinging her around in a circle. “Badass hair. Now you two even look like sisters.”
When he hugged the girl to his chest and they came face-to-face, she reached out and touched the black metal piercing above his eyebrow, very tenderly, with a thoughtful look on her face.
Trina knew the look. The girl had seen something.
Serge put Abby down and excused himself to go grab something from the storage room.
Once he left, Trina said, “We don’t do that to our friends, remember?” “I try not to,” the girl said. “I can’t help it.”
“I know. You can tell me what you saw later.”
Trina swatted the girl on the back of the head and let her loose to scurry amongst the museumgoers and gather information. She had already learned a few things about Serge from Abby. Nothing terrible; he’d obviously lived a pretty sheltered life. His best friend growing up was a mutt named FatBoy who got run over by a pickup truck that never even slowed down.
Thursday’s “guys’ gaming night” meant barbecuing at his parents’. He had an associate degree in hospitality management from Delgado Community College even though he straight up told Trina he’d quit high school just like she had and left it at that. Of course, everyone lied to everyone, but the knowledge didn’t help their relationship.
He came out of the storage room backward, dragging something heavy that he set down gently on the floor by Trina’s feet. It was a child-sized coffin made of glossy black wood with red resin inlay crisscrossed throughout. Trina loved the flaws in the piece, the deep scratches that marred the wood.
“You said you needed a coffee table,” Serge said. “I picked this up at the flea market in Metairie, but we don’t have room for it here.”
It was absolutely perfect. “How much?” Trina said, pulling a crisp twenty from her wallet and feeling the thrill she always felt when handling money of her own.
“It’s a gift. It’s yours.”
Trina kissed Serge hard on the mouth and put her cash away. She spotted Abby across the big room, looking aimless beside a group of bros in LSU ball caps bunched around the Jeffrey Dahmer exhibit. “Watch,” Trina said to Serge and pointed at her. The girl looked up as Trina pointed, and without missing a beat, struck her hip-cocked pose.
“You know you’re her person, right?” Serge said. Yeah, Trina knew.
She told Serge they were going to make the rounds and went to get the scoop from Abby.
The girl told her that the young nun with the cat-eye glasses had a daughter she’d given up for adoption who she’d just begun to visit in secret. The short nun that just sneezed had a scientist mother who disowned her when she joined the church. The LSU hat-boy in the camouflage shorts went home to his parents’ farm some weekends and used binoculars to spy into his sister’s bedroom window. As always, the girl delivered the news in monotone, matter-of-fact, adult.
“That’s all you got today?”
The girl stamped her foot. “I don’t feel good,” she said. “You didn’t give me enough.” “Okay, shush.” Trina wished she hadn’t said anything. Most days, they spent all afternoon recruiting, at the museum, parks, cemeteries, cafes. And Abby was becoming clever, seeking out information that Trina could really use and not just delivering random thoughts like she had at first. But, particularly when her withdrawal symptoms were bad, she could cut the girl some slack. Trina was hustling to get to the point where repeat clients would sustain her business. She was trying to save enough so that she could take over the lease directly from the landlord before the Voodoo Queen died and they were kicked out. By the time she put the girl in school, she wanted them to have their own apartment.
Trina sent Abby to wait with Serge at the ticket counter while she approached the sisters. She decided not to mess with Mr. LSU – he reminded her of too many guys she’d encountered during her runaway years – but she would love to have a couple nuns as clients. It would be so perfect if one of them agreed to write a testimonial and supply a picture for her website, holy countenance and crucifix in full view. She could call herself Hellseer to the Nuns! Trina stepped beside the short nun and said quietly, “If you want to repair your relationship with your mother, I’m Madame Trinae, and I can help you see,” then slipped a business card into her hand. Next to the nun with the cat-eye glasses, she said, “Will you leave the church for your daughter? I’m Madame Trinae, and I can help you see,” and slipped her a business card. To the old nun who’d bought the Pogo patches, she gave a handful hoping she’d distribute them to the group.
The nuns turned to her as one and watched as she walked away.

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Questa uscita di Abbecedari ha un legame speciale alla prossima. Qui, Marianna Vitale traduce in italiano il racconto “Hellseer” dall’originale inglese di Laura Venita Green; nell’uscita del 19 gennaio 2022, Laura Venita Green tradurrà in inglese un racconto in originale italiano di Marianna Vitale.
Ringraziamo la Literary Translation at Columbia (LTAC), Columbia University MFA Writing Program, e la Ugly Duckling Presse, editrice dell’antologia 2020 Word for Word Workshop ebook, concepita e stampata in edizione limitata da Matvei Yankelevich e Ugly Duckling Presse, con i racconti e le traduzioni dei partecipanti al Literary Translation at Columbia, per aver gentilmente concesso la pubblicazione del racconto e della traduzione.

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Commento della traduttrice
“Hellseer” fa parte di una raccolta di racconti dedicata all’universo femminile, che vuole esplorane relazioni e dinamiche di potere, indagando momenti diversi della vita di diverse donne. Il racconto è ambientato in Louisiana ed è incentrato sul conflitto generato dal prendersi cura di un’altra persona cercando allo stesso tempo di gestire i propri interessi. Se Trina, la protagonista del racconto, inizialmente ha preso con sé la piccola Abby solo per le sue abilità, ben presto inizia ad affezionarsi alla bambina fino a provare per lei un istinto materno, che mai avrebbe pensato di possedere. Tra capacità di chiaroveggenza e descrizioni vivide della città di New Orleans, i personaggi di questo racconto ci vengono presentati in tutta la loro contraddizione, tipica dell’umano.
Il lavoro di traduzione mi ha portata a esplorare i luoghi e le descrizioni, che volevo rendere con la stessa precisione con cui erano state scritte, a scavare nelle parole, a cercare un gergo adatto per le diverse voci dei personaggi, ai quali mi sono affezionata subito.
“Hellseer” è un racconto che appassiona e che ti resta dentro, così come i suoi protagonisti.

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L’autrice
Laura Venita Green si sta specializzando in narrativa presso la Columbia University, dove tiene anche un corso di scrittura per gli iscritti alla laurea triennale. Ha pubblicato su Fatal Flaw e ha tradotto un racconto per il World Literature Today. Cresciuta in Louisiana, vive a New York con suo marito. Contatti social: Facebook, Instagram.

La traduttrice
Marianna Vitale è diplomata in scrittura alla Scuola Holden di Torino. Riminese, classe ’93, amante del mare e dei racconti brevi, ha pubblicato su Rivista Blam, Tropismi e sul World Literature Today, nella traduzione di Laura Venita Green. Contatti social: Facebook, Instagram.

Copertina originale di Gianmarco De Chiara

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