Batter d’occhio

Batter d’occhio

Racconto di Josephine Rowe

Dalla raccolta Fino ad agosto

Traduzione dall’inglese di Cristina Cigognini

Stiamo uscendo dall’acqua, noi cinque. Mi ricordo questo. Un’ora o due prima che il sole si sciolga nell’oceano, la scia luminosa del suo color oro ci mostra la strada che percorreremo.

Davanti a me la mia sorellina siede regale e spavalda in mezzo alla zattera che Fynn ha costruito con schiuma da imballaggio e secchi di vernice vuoti, i coperchi sigillati con del mastice. L’ha già provata nella piscina dei nostri vicini e l’ha dichiarata adatta al mare, ma se dovesse sfasciarsi ha promesso di portare lui Sara. Fynn ha tredici anni, è più grande di me di cinque, e l’unico di noi tre bambini a essere già stato sull’isola. Nostra madre aveva i capelli lunghi all’epoca, e il papà di Fynn era ancora da queste parti, prima di scivolare con la moto sotto un autotreno in una notte piovosa di dicembre. Mio papà – ora papà anche di Fynn, ci ricorda di continuo la mamma – porta sulle spalle un cesto da picnic pieno dei cibi preferiti di Sara, di Fynn, della mamma, miei: sandwich di formaggio e mele, patatine al sale e aceto, pezzetti di mango inzuppato di lime e peperoncino, birra allo zenzero. Tanto cibo da bastare per una settimana, anche se rifaremo la traversata per tornare alla terraferma questa notte, sotto la luce del quarto di luna e di una torcia da due dollari.
Le persone attorno a noi quasi non sembrano persone. Un’adunata di animali da mandria. Si muovono a passo regolare nell’acqua da soli o a due a due, tastando per trovare la discesa sul fondale sabbioso, il bordo traditore dove il fondo dell’oceano cede. È così che la gente – soprattutto turisti – finisce annegata, risucchiata dalla risacca.
Il mare il mare il terribile…
Sì, sì, lo sappiamo; papà a volte non la smette più di parlare.
Ci sono altre famiglie, alcune con al seguito bambini piccoli su boogie board, materassini gonfiabili, niente di bello come la zattera di Sara. Frigo portatili galleggiano insieme a vestiti chiusi dentro borse di plastica, palloncini di medusa argentati con interiora fosforescenti.
Siamo fortunati, ci sta dicendo papà. Oggi è marea di quadratura – il momento più sicuro per fare la traversata. La marea più alta non è alta come di solito, e la bassa non così bassa.
Più avanti l’isola sembra un cagnaccio che esce scom- posto dall’oceano, il muso puntato a nordovest. Che c’è là fuori? Un sacco di uccelli putridi, mi ha già detto Fynn, e qualche grotta niente male, folle di incivili che affondano lattine di birra. Niente di strabiliante. Ma stasera, dopo il tramonto, le spiagge attorno all’isola si illumineranno di sciami di plancton bioluminescente, mentre si muovono verso chissà dove. Noi staremo appollaiati sulla scogliera più alta sopra coperte distese, mentre le onde si frangono iridescenti contro le rocce al di sotto, per poi ritirarsi lasciando solitarie stelle blu arenate qua e là, e tornare di nuovo alla carica a reclamarle.
Sarà spettacolare, un tipo di magia inquietante, e io non vedrò mai più niente del genere.
Ma a ogni modo, non è questo il punto. Alla fine, l’isola è solo una roccia a forma di cane ricoperta di uccelli e curiosi bruciati dal sole, temporaneamente circondata da pirrofite.
È questo guadare che importa, questa traversata: la brillante animalità migratoria della cosa. Arrivare con l’acqua alla vita, al torace, e poi ancora alla vita. Quello che conta è come, a metà strada, Fynn si volta a guardarci, poi guarda di nuovo davanti a sé, e dice rivolto a nessuno, o a tutti, o forse solo a Sara: Immagino che è così che è l’aldilà.
Vedo papà che guarda la mamma e mima piano con le labbra: Aldilà?
Fynn è quello di noi con la pelle più bianca, più pallido persino della mamma; biondo fino alle ciglia, l’unico che si abbrustolisce al sole. Sembra adottato. Cosa che tutti sappiamo ma ci guardiamo bene dal dire.
Comunque. Ecco qui.
Riesco forse a trascorrere tutta l’infanzia senza rivendicare ogni diritto possibile di legame biologico con l’uomo che chiama entrambi miei adorabili selvaggi? Mi vergogno di ammettere che non è così. Sono contento di condividerlo nei suoi momenti meno grandiosi: è mio papà che suonava il basso in un gruppo blues quasi famoso, ma è nostro papà che, prima del gruppo blues, suonava il clarinetto nell’orchestra del liceo. È mio papà che promette di comprarci un paio di assolotti albini, è nostro padre che si tira indietro quando Fynn e io trascuriamo la cura al pesce rosso e l’acquario di Skeletor si riempie di melma e aria viziata.
(C’era un tempo, qualche anno, in cui erano solo Fynn e la mamma, ed è forse per questo che mi vendico su di lui. O magari mi vendico su di lui per tutti i nomi con cui non è stato chiamato a scuola, per come nessuno gli chieda mai da dove venga, se i suoi genitori sono dei rifugiati. O magari è per il fatto che, anche se uno di loro è morto, lui ha due padri, non deve condividere il proprio, e gli è permesso andare in giro senza dirlo a nessuno, e dare spiegazioni tipo volevo pensare, volevo fare una passeggiata, per le quali riceve occhiate dolci invece di rimproveri.)
Mio fratello trova forse qualche mezzo meschino di pareggiare i conti, di mettere a rischio la mia piena sanguineità? Mai. Forse non ne sente la necessità. Fynn prende queste gare a chi piscia più lontano per quello che sono. Nelle vere gare a chi piscia più lontano, non c’è gara e nessun vero scopo. Arriva a metà strada fino alla buganvillea superando la recinzione, mentre io cerco (senza mani) di non gocciolarmi sulle scarpe da ginnastica.

Nel punto più profondo dell’attraversata, l’oceano mi arriva al labbro inferiore, e io mi aggrappo a mamma. Sento i piedi che levitano dal trito di conchiglie sottostante. Divento un carico che ondeggia dalle sue forti spalle dorate, al sicuro nel suo profumo di olio di cocco e pane caldo, mentre arranca verso l’isola.
Intorno a noi l’oceano si addensa in una zuppa di alghe che puzza di cose morte; prova che il plancton è qui, anche se per ora invisibile – non è ancora abbastanza buio per svelarlo. È a questo punto che la zattera di Fynn inizia a ribaltarsi, i secchielli vuoti cominciano a staccarsi e Sara reagisce con una serie di frigni acuti mentre afferra l’aria salmastra.
Quando la zattera si rompe, Fynn mantiene la parola e Sara gli si arrampica fin sulle spalle ossute dal relitto, le manine prensili a forma di stella marina che si aggrappano a ciuffi abbondanti dei suoi capelli rossicci. Deve fargli proprio male, la faccia gli diventa come una maschera di gomma da due soldi, ma lui non dice niente mentre cerca di radunare i detriti davanti a sé.
Le onde gli schiaffeggiano la faccia e cercano di entrargli in bocca e nel naso. Lui strizza gli occhi, espelle acqua dal naso, mentre su in alto Sara canta, inconsapevole, i piedini paffuti agganciati alla vita di Fynn.
Ehi piccolo, si offre papà, posso prenderla io. Ma sia Fynn sia Sara scuotono la testa, così papà procede nel suo modo da guardia costiera, finché l’oceano finalmente scivola dalle spalle di Fynn e lascia Sara bloccata lassù, allegra.
Non ci sono fotografie di questa giornata. La mamma
fece cadere la macchina usa e getta durante la traversata di ritorno alla terraferma, e anche se l’abbiamo cercata a tentoni e con i piedi non l’abbiamo trovata. Forse è per questo che ricordo tutto in modo così vivido. Fynn che barcolla nelle onde a riva insieme a Sara, portandola sana e salva sulla sabbia asciutta, e aspetta finché la mamma non l’ha condotta in qualche tana di pinguini a fare i suoi gridolini, prima di piegarsi in due e vomitare in un cespuglietto di artiplice tutta l’acqua di mare che ha ingerito. Le punture arrossate di qualche animale marino gli rigano le gambe tremanti.

Anni dopo, a un certo punto dell’età adulta, deciderò che questa è una di quelle storie da raccontare un giorno al matrimonio di mio fratello. O magari al suo funerale. Forse in entrambe le occasioni – come per certi tipi di abiti, sembra adatta in tutti e due i casi.
Invece di un discorso da matrimonio e/o funerale (anche se di certo c’è ancora tempo per entrambe le cose) racconto questa storia a mia moglie. Cerco di strappare mio fratello da ciò che ne ha fatto la mitologia locale. Un Idiota Sconsiderato nella migliore delle ipotesi. Assassino nella peggiore. Ti sarà passata in macchina davanti a quelle croci sulla banchina di Highridge Road per anni, da prima ancora che ci incontrassimo. Fatte a mano, candide come ossa sbiancate nel deserto. Ricoperte ogni primavera da uno strato nuovo di vernice, con orsacchiotti, fiocchi, altri ninnoli sentimentali. Gingilli rinnovati ogni settembre. Opera dei nonni, sospettiamo; il padre è troppo riservato per quel genere di cavolate.
È tutto ciò che Ti sa di mio fratello. Questo e le due o tre cartoline che ha mandato, e il mucchio di mobili che ha lasciato; tutti curve di lucido tek e cavi dell’alta tensione. Arpicordo di metà secolo, li chiama Ti, spiegando come nostro padre fosse un liutaio, quando gli amici ammirano il tavolino, l’unico pezzo che si abbina al resto della nostra casa.
Mio padre, aggiungo io a volte. Mio padre era un liutaio.
Perché, vuole sapere Ti, tuo fratello vorrebbe tornare qui?
Mi chiedo la stessa cosa.
Secondo le voci, in base a chi lo chiedi, Fynn è sgattaiolato, fuggito, strisciato, si è rifugiato, è andato a ‘fanculo, ha alzato il culo, o semplicemente è andato nelle isole a nord della Scozia, dove l’Atlantico si scontra con il mare del Nord, e dove ha trovato qualche lavoro del cazzo in una distilleria di whisky. Ci fa cinque o sei turni a settimana, e si occupa di cose di cui potrebbe occuparsi chiunque.
Disegno ancora a volte, mi disse, a scatti dal suo lato del nostro unico tentativo con Skype. La faccia immobile che poi recupera il ritardo.
Faccio ancora degli schizzi di idee per cose che un giorno potrei fare, se mai [distorsione].

L’anno scorso mamma e papà si sono ritirati a Norfolk Island, da dove mamma telefona ogni domenica per parlare di politica e del tempo e per chiedermi dove cavolo abbia sbagliato. Sara ha venticinque anni, lavora come consulente di immagine e stile a Sydney. Chissà che cosa pensa, è più imperscrutabile di un energumeno. Non si ricorda della gita all’isola, o della zattera, e non sono sicuro che si ricordi di un periodo in cui le piacesse uno di noi, Fynn o io. I suoi primi ricordi risalgono a quando aveva cinque anni, e per allora Fynn ne aveva sedici ed era fuori come un balcone, e io ero un mostro. Andati da tempo i giorni in cui lei rideva di qualsiasi battuta dicessimo, non le capiva ma non voleva essere esclusa. A volte ridevamo solo per far ridere lei, raccontavamo barzellette che non erano divertenti, o non erano vere barzellette ma ne avevano il ritmo. Tutto per metterla alla prova, per vederla partire. Ora non trova più nulla divertente.
Credo che l’abbiate rovinata, dice mamma al telefono un weekend. Tu e quel tuo fratello.
Da quando è diventato mio?, è una domanda che non pongo.

Fynn arriva un sabato mattina con una sacca da viaggio, la sua biondezza alle ortiche, i capelli che gli sfiorano il colletto del bomber che indossa nonostante il caldo di gennaio. Alberi di pino morti bordano ancora il cordolo, scaricati in attesa del ritiro del verde.
Mio fratello attraversa a lunghi passi il prato spelacchiato davanti a casa, e sembra persino più vecchio di quando era in tribunale, più vecchio di quanto pensassi possibile. Avanza più alto di quanto voglia essere, oscurando il mattino. Fuori in strada c’è la sua tre porte a noleggio, una specie di scaldabagno, che se ne sta rannicchiata come se, anche lei, sperasse di non essere vista. Come se sei anni fossero troppo presto.
Io lo aspetto dietro la zanzariera e sento tutto ciò che ho ordinatamente compresso risaltare su dentro di me. Gli do un pugno, penso. No, lo trarrò vicino. Gli dirò… non so cosa.
Sì, sarei potuto andarlo a prendere all’aeroporto, fare gli ottanta chilometri con lui – la scuola non inizia fino a febbraio, il corso è già pronto, nessuno ha bisogno di me fino ad allora. Ma ho pensato, al diavolo. Dopo tutto questo tempo e tutto questo silenzio, può almeno tornare qui da solo.
Sta ingrigendo alle tempie, e quando infine alza lo sguardo i suoi occhi azzurri traballano come se stesse guardando qualcosa che si muove irrequieto. Mi ricorda quegli husky che la gente, per vanità o stupidità, ritiene opportuno tenere come animali domestici in questo clima. Le mani di Ti si chiudono a palla in piccoli pugni quando li vede, questi animali confusi, con la pelliccia a chiazze, portati a sfilare per i sobborghi più ricchi di Perth, lupi umiliati.
Fynn è umiliato, naturalmente. È oltre l’umiliazione. Ehi!, dico. Poi, come un idiota, Bentornato!
Raf, è tutto ciò che dice lui, allungando la mano in avanti come se dovessi andare a stringergliela.
Esco nella luce accecante, lo prendo per le spalle, e lui sta lì rigido per qualche secondo, per abbandonarsi infine all’abbraccio.
Ancora sulla soglia, fruga nella sacca da viaggio. Ti ho portato un dono, dice, ma lo pronuncia dòno, con questa nuova cadenza nella voce. Il matrimonio, dice, porgendo l’elaborata scatola in legno di una bottiglia di alcolici. Mi spiace aver perso… Poi fa un gesto con la mano a significare: tutto.

Mi colpisce il fatto che è questo che fanno gli sconosciuti. Ti porgono un regalo prima di oltrepassare la soglia di casa. Che è questo che siamo ora.
Entra, dai.
All’interno si toglie il bomber. Ha la pelle dello stesso bianco bluastro di quegli assolotti che papà non ci comprò mai.
Sei estati, spiega, a mo’ di scusa. C’è molto da recuperare, ti spiace se vado a fare un po’ di fotosintesi? E passa qualche ora sdraiato nel nostro cortile sul retro, in biancheria intima. Ti sarà al lavoro già da qualche ora, a togliere pezzi di Lego dalla gola di qualche stupido cane, o a curare la gengivite di qualche gatto incazzato. Fynn tiene gli occhi chiusi mentre parliamo del più e del meno: la sincronicità delle crisi di mezza e di un quarto d’età di mamma e Sara; il boom minerario di Perth; il conseguente boom di consumo di anfetamine sotto forma di ice; l’ine- vitabile boom di riabilitazioni.
Io blatero dei miei studenti, la maggior parte dei quali è irrecuperabile. Insegnare la differenza tra i rhizaria e i cromalveolati quando sarebbe più utile insegnar loro la differenza tra il papilloma virus e la clamidia.
Per tutto il tempo la faccia di mio fratello è rivolta fissa al sole. Io osservo i fragili vasi sanguigni rossi e grigi sulle sue palpebre quasi traslucide, trasparenti come le creature che si trovano nelle pozze d’acqua tra le rocce, laggiù nella profondità del suo cranio. Arrivando dall’aeroporto deve essere passato davanti a quelle croci, il luccicante guardrail rinforzato.
Cosa?, dice da dietro gli occhi chiusi. Niente. Ti stai scottando, lo sai.
Bellezza, a me sta bene. Sei maledette estati… Sì, sì.

Mia moglie si innamora di lui, naturalmente. In nessun modo che si possa considerare pericoloso, solo nel modo che avevo previsto, il modo in cui tutti si innamorano sempre di Fynn; in fretta e con facilità e devozione. È così così bello finalmente, finalmente conoscerti, come un disco che salta, e d’un tratto le croci piantate sulla banchina della superstrada non rappresentano due bambine piccole e la loro madre insegnante di canto. Rappresentano l’intolleranza di una cittadina, rancori portati avanti più a lungo di quanto sia giusto o necessario, nutriti dall’ossigeno rurale di cui una città più grande li avrebbe privati.
Sono entrambi davanti al lavandino della cucina, gomito a gomito, a pulire cozze. Ridono di qualcosa che non colgo. Alle superiori quel paio di ragazze che riuscii a portare a casa le faceva ridere allo stesso modo, come se stessero cercando di svegliare qualche essere dormiente. Fynn, il mio fratello maggiore, più bianco, che non ha mai sentito la necessità di umiliarmi. Che aveva sempre in ballo qualcosa. Perché penso ancora a lui in questi termini? E perché c’è un momento, un flash, in cui penso anche razza di vigliacco, vagabondo, pusillanime… dopo averlo difeso in tutti i modi dall’incidente a ora. Soprattutto nei primi mesi, con la gente che mormorava e scuoteva la testa nella corsia della verdura in scatola, anche se tutto ciò che ho in comune con Fynn è un po’ di sangue.
Li guardo da sopra la mia birra, mio fratello e mia moglie, e in qualche modo so, prima che accada, che uno di loro sta per affettarsi il palmo con il coltello da cucina, e l’altro avrà una scusa per soccorrerlo con del disinfettante e un batuffolo di cotone, e che io me ne starò qui seduto a guardare. Poi Fynn esclama: Ah, Cristo!, ma il taglio non è profondo, non necessita dell’attenzione di Ti, e lui prosegue con il lavoro di raschiare via i tendini pelosi che tenevano ancorato il mollusco a qualcosa che considerava robusto. Poco dopo siamo seduti attorno al tavolo, apriamo conchiglie con le dita come ali di farfalla, e usiamo le metà per succhiare il sughetto salato, mentre la casa si riempie di un odore fragrante di alghe marine.
Ti ha una teoria sul cibo faticoso da mangiare, dove gli utensili sono una perdita di tempo e ogni tentativo di essere aggraziato ti fa solo sembrare più goffo. Questa teoria tiene: le conchiglie vuote si accumulano tra di noi e la conversazione è fluida, come se lo facessimo ogni sabato da anni, noi tre.
Il suo lavoro è solo di bassa manovalanza, dice Fynn. Imbottigliare, etichettare. Tenere i topi lontani dal malto. Cose con cui non posso fare grandi casini. Nessun ruolo nell’arte di produrlo. Ma mi basta essere in quel paesaggio – l’antico, l’immenso. Una parte di te scompare e basta.
Tu sei scomparso per intero, penso.
Ho preso una barchetta, sta dicendo. Ci vado a pesca di trote nei miei giorni liberi. Baia di Isbister, di Inganess… Quando pronuncia questi nomi lo fa con quello scintillio, come se le parole fossero state conservate nell’involucro
in cui sono arrivate.
Beviamo tutto il vino che non è stato usato per sfumare e fare aprire le cozze, e dopo quello attacchiamo il regalo di nozze di Fynn. Stappo la bottiglia massiccia, e il mare del Nord si precipita nella stanza. Io verso tre bicchieri e li solleviamo in un brindisi al matrimonio. Facciamo un altro brindisi per il bypass di papà, poi un altro per il cugino che è stato tradito dalla sua attrezzatura da sub, e per tutte le cose che Fynn non si sarebbe dovuto perdere ma si è perso e oh che ci vuoi fare ora è qui, no?
Ti mi lancia l’occhiata non iniziare. Fynn si schiarisce la gola e sradica una vongola con un giro di forchetta, poi torna a sedurla con la beltà e la cupezza dell’estremo nord della Scozia. Le zolle di torba tagliate ed estratte dal terreno, con all’interno un intreccio di radici di erica e che odorano di tempo. L’aria salmastra e la violenza della natura che si fanno strada nella bottiglia. L’oceano e come sia diverso, come il ricordo dell’Australia occidentale si riduca a uno spillo. Stare sul margine delle scogliere di Yesnaby, sopra la testa nugoli di urie che sbattono le ali come pazze.
Sembra proprio l’orlo del mondo là, dice Fynn.
Come l’aldilà…?, mi intrometto, e capisco da come mi guarda che non si ricorda di averlo mai detto, che crede che lo stia prendendo per il culo. Nessuno di noi è abbastanza ubriaco da non sentirsi imbarazzato, così riempio di nuovo i bicchieri e beviamo a nostra sorella, il cui senso dell’umorismo abbiamo distrutto piano piano.
Riusciamo a fare sette od otto giri prima che la bottiglia sia vuota, e per allora Ti è k.o., le forti gambe abbronzate rannicchiate sotto di sé sul divano, i capelli scuri che la dividono come un sipario dalle nostre farneticazioni.
Senza la sua voce ad ancorarci lì, andiamo alla deriva, in un silenzio così grande e orribile che potrebbe contenere qualsiasi cosa, ma io so che cosa sta lì in agguato. Cerco di fermarlo parlando del più e del meno, ma Fynn si limita ad annuire. Arriva, penso. Eccolo.
Lo hai visto in giro, suppongo. Chi?
Fynn scuote la testa, come se fossi io il codardo.
Sì. A volte lo vedo. Non così spesso.
E?
Senti, Fynn. Non c’è niente che io possa dirti che ti farà sentire meno una merda a riguardo. L’anno scorso l’ho visto al Farmer’s Arm, e aveva l’aspetto di un uomo che aveva perso moglie e figli cinque anni prima. Qualche mese fa l’ho visto all’ufficio postale, e aveva l’aspetto di un uomo che ha perso moglie e figli sei anni fa. Cos’altro c’è da dire?
È successo tutto in un lampo. In un batter d’occhio, Fynn dice da allora. Ha sterzato per evitare il cane che è uscito correndo dai cespugli. Ha sbandato con la sua utilitaria nell’altra corsia finendo dritto contro la sedan che stava arrivando. Solo un batter d’occhio. Il guardrail a quanto pare solo di bellezza, corroso dall’aria salmastra, si è sgretolato come per magia nera al primo tocco del paraurti.
Ho incontrato una donna, dice Fynn. Un tipo dolce e intelligente che lavora in biblioteca. Quando passavo la notte da lei, c’era il rumore dei suoi bambini che scorrazzavano per casa la mattina. Delle loro risate giù di sotto, delle vocine che facevano parlando con il gatto. Era troppo, Raf. Non ho potuto dirglielo. Non sono potuto restare.
Continuo a cercare qualcosa, va avanti mio fratello. Qualcosa che possa riempire questo buco che ho scavato, ma bere non serve. Il sesso non serve. Cammino, cammino come uno stronzo, e il vento là sembra che ti voglia squarciare, ma non basta. Allora penso che magari posso liberarmene in una stanza piena di gente, come se in qualche modo potesse diventare più piccolo, ma no, è come se tutti potessero vederlo, annusarmelo addosso.
Faccio per riempire di nuovo i bicchieri, poi mi ricordo che non c’è niente con cui farlo.
Vuoi sapere la cosa migliore che ottengo? Davvero, la cosa migliore?
Dai, gli dico, prendi il tuo stupido giubbotto.

Io sono più alticcio di lui, ma so che l’ultima cosa che vuole è un volante in mano. Salgo al posto del guidatore della golf di Ti, aggiusto gli specchietti mentre Fynn nasconde le palpebre dietro un paio di aviator.
Non hai bisogno di quelli. E comunque sembri ancora tu, solo più coglione. Tutti sembrano coglioni con gli aviator.
Giusto, dice, gettandoli nella lantana.
Da quando Fynn se ne è andato, dei ragazzi di Perth sono arrivati qui e hanno riaperto il Kingfisher Hotel. La collezione di uccelli impagliati danneggiata dal fumo sopravvissuta all’incendio del 2009 – forse doloso – sta ancora appollaiata accanto agli scaffali di liquori. La cosa a fibra ottica è ancora al suo posto, il tavolo da biliardo anche. Ma il bar è stato sistemato, una lastra di eucalipto rosso recuperato, e dietro sette ripiani su cui appoggiare tutto, e se il barista deve tirare giù qualcosa dal più alto dei sette, deve posare la sua copia del Manuale dei disturbi mentali o quel che è e saltare su una scala per raggiungerlo.
Questi ragazzi non conoscono Fynn. Questi ragazzi gli verseranno da bere senza chiedergli se è contento di essere tornato.
Ci sediamo al bancone davanti a un cacatua nero bruciacchiato, gli occhi vitrei puntati sulla selezione di rum. Fynn vince nella gara al portafogli, la pelle si apre in due come una papaia troppo matura, spalancandosi su pezzi da cinquanta.
Devi portarti in giro tutti questi soldi?
Li ho cambiati da Travelex. Ho chiuso tutti i miei conti quando ho lasciato l’Australia.
Non avevi proprio intenzione di tornare, eh. Immagino di no.
Ci sono le mani di Fynn, aggrovigliate a mo’ di mangrovia intorno al suo bicchiere. Indurite da un lavoro che non ha niente a che fare con lui, un lavoro che non porta niente di lui. Nel mio capanno ci sono un secondo tavolo, una serie di sedie e una libreria. A febbraio ci sono un milione di gradi là dentro – sei maledette estati – tutto il legno si è imbarcato e si è crepato lungo le giunture, i cavi si sono allentati o spaccati, tutta quella attenta tensione rovinata. Avrei dovuto tenerli in casa. Avrei dovuto guidare fino a Perth stamattina, essere là ad aspettarlo quando ha recuperato la sacca dal nastro scorrevole. Ora tutto quello che posso fare è sollevare la mia pinta a incontrare la sua.
Lang may yer lum reek 1, dice Fynn arrotando le r.
E che i topi non si infilino mai nella tua dispensa, o quello che è.
Ci sei andato vicino – e dove sei andato a scovarlo?
Oh, sai. Alzo le spalle e bevo la schiuma della birra. L’ho estratto dal cilindro.
Fynn sorride dentro il proprio colletto. Puoi spostare la camira? Devo tirar fuori la torana per raggiungere la commodore.
E la risata che alla fine ci travolge sembra fragile, ma vera abbastanza, un’eco che arriva sussurrando da migliaia di cene in famiglia, portando con sé battute sempre dagli stessi stupidi film, mentre la mamma non riesce a trattenersi dal ridere, e papà minaccia di portarci nel Bush e lasciarci lì.

Ovviamente il tipo doveva comparire, con un cappellino sponsorizzato calato sulla fronte, gli occhi protetti dalla luce al neon del tavolo da biliardo. Gli ci vuole un momento – lo vedo io, lo vede mio fratello – a realizzare che si tratta proprio di Fynn seduto lì, e quando lo fa la pressione dell’aria cambia d’un tratto. E se i bicchieri appesi alle griglie non si frantumano, e gli animali impagliati non prendono il volo… se i tavoli non si ribaltano di volontà propria è solo grazie al freno che qualcuno pone posando una mano sulla spalla del tizio, riportandolo al gioco, al suo tiro, allo strappo nel feltro quando colpisce troppo forte con la stecca, il suono secco della palla bianca contro la numero cinque e il rantolo nella pancia del tavolo quando la palla, catturata, ci rotola dentro.
Buca, dice qualcuno.
Fynn si sta già allacciando la cerniera del giubbotto. Siediti, gli dico. Finisci di bere.
Raf, non possiamo restare qui.
Be’, io finisco la mia pinta. Prendo un sorso lungo e plateale per fargli vedere.
Fynn non prende la sua. Sta guardando?
Cristo, non guardo per vedere se sta guardando.
Non posso stare qui seduto e far finta… dovrei andare a dirgli qualcosa.
Dirgli cosa? Te l’ho detto, non è niente. Finisci la tua birra, cazzo. (Mentre quello che avrei voluto dire era: Fratello. Stai fermo. Non c’è problema a stare qui.)
Fynn si siede, rimpicciolendosi visibilmente dentro la massa del giubbotto. Osservo tutto ciò e quale tipo di bene sto cercando di forzare. O se sia affatto un bene.
Okay, gli dico, posando il mio bicchiere accanto al suo. Hai ragione. Oplà.

Il ritorno a casa è tutto un animali uccisi sulla strada o futuri animali uccisi sulla strada – creature notturne in fuga – che solcano gli abbaglianti. Agglomerati di peluria e piume spiaccicati sul bordo della carreggiata.
Assolto, gli ricordo. Tutti sapevano che non era stata sua intenzione catapultare tre quarti di una famiglia giù da una rupe di arenaria. Tutti lo avevano capito. Almeno ufficialmente.
Okay, sì, è terribile, è tragico, ma non è stata colpa tua. Che silenzio prima che Fynn si schiarisca la voce e inizi,
Ascolta Raf. Non c’è stato nessun cane.
Dico, Che cosa significa nessun cane? Perché io avevo visto il cane tanto chiaramente come se fossi stato sul sedile del passeggero durante quell’incubo. Fynn lo ha descritto un centinaio di volte – quel coso meticcio simile a un levriero, le costole in vista attraverso la patetica pelle grigia. Il modo in cui è saltato fuori dai cespugli come un fantasma, che si guardava dietro le spalle scheletriche come se qualcosa laggiù lo avesse spaventato a morte.
Non c’era e basta. Io non… Possiamo lasciar perdere?
No, penso. No, non possiamo lasciar perdere. Ma guido lungo la superstrada buia e sto zitto. Dov’era finito allora il cane? Fynn lo aveva cercato, nelle prime cento versioni della sua storia. Era rimasto in piedi accanto al guardrail fracassato e aveva composto il triplo zero – questa parte è un fatto; è nel rapporto – e intanto si chiedeva da idiota, disse, dove cazzo fosse finito il cane. Perché volevo menarlo. Il ginocchio destro insanguinato e sbucciato per aver sbattuto contro la chiave di accensione. Una concentrazione alcolica nel sangue di 0.03. Due birre, sobrio abbastanza. Anche questo è nel rapporto.
Se non c’era il cane?

Guido in silenzio nel vialetto. Passo davanti alla macchina a noleggio di Fynn, che è stata ribaltata su un fianco a mostrare la lucente sottoscocca. Scendiamo e rimaniamo lì in piedi senza parlare per un momento, l’aria piena di insetti e il rumore dell’irrigatore.
Succede di continuo, mento. È quello che i ragazzi di qui buttano a terra, invece delle mucche.
Quante persone servono?
Probabilmente non pesa molto più di una mucca. La rimettiamo a posto?
Serve solo una piccola spinta. La macchina atterra con un fragore che provoca un aprirsi di tende in tutta la via ma non si rompe niente e nessuno grida. La portiera del passeggero è graffiata e lo specchietto laterale è andato.
Sei assicurato?
Fynn inspira a lungo e a fondo dal naso.
Non è affatto collegato, questo e i tipi al bar. Erano ancora là quando siamo venuti via. È solo una di quelle strane coincidenze. Sto dicendo tutto ciò a Fynn e lui non dice niente.
In casa, Ti ha preparato il divano con le lenzuola e i cuscini, e ha apparecchiato il tavolino con un bicchiere d’acqua e una confezione di aspirina.
Da sposare, dice Fynn, con un sorriso così flebile che gli devo augurare buonanotte.

Ti geme quando mi infilo a letto e faccio combaciare le mie ginocchia con il retro delle sue. Ho il petto contro la sua spina dorsale, la faccia affondata nei capelli. I capelli le profumano di oceano. Lascio scivolare la mano tra le sue cosce, non per dare inizio a qualcosa, solo per stare lì, e rimaniamo avvinghiati così, avvicinandoci e allontanandoci dal sonno finché dei fanali inondano la stanza.
Sono quasi le tre del mattino quando si fa vivo, a barcollare là fuori sul prato. Il padre, il vedovo. Così ubriaco che in pratica è come se ballasse, un pugile o un orso.
Batte sulla porta come se volesse buttarla giù, ma la sua voce è inaspettatamente delicata quando dice, Non è giusto. Non è giusto che sia io a venire da te.
No, sento che risponde Fynn. Lo so.
Si sente il rumore della zanzariera mentre lui esce sotto il portico, prima che io possa dirgli: Non farlo. Non dire stronzate. Sul cane. Sul fatto che non ci fosse per niente un cane. Non c’è bisogno che lo sappia. Non dire una parola. Trascino il lenzuolo con me in corridoio, tenendolo attorno alla vita. Da dietro la zanzariera li guardo attraversare il prato verso la strada, poi più in là nell’aria notturna, lontano dalla casa. Lontano da ogni aiuto. Mio fratello che arranca nel buio e il buio si ripiega su di lui come un’onda. Non la cosa giusta ora, non la migliore. Niente di tanto facile come sollevare una bambina sulle spalle e portarla al sicuro al di sopra della presa del mare.

1. Brindisi gaelico: che il tuo camino possa fumare a lungo.

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Glisk

We are wading out, the five of us. I remember this. The sun an hour or two from melting into the ocean, the slick trail of its gold showing the way we will take.

Ahead of me my tiny sister sits regal and unafraid in the middle of the raft that Fynn has built of packing foam and empty chemical buckets, lids fixed airtight with caulk. He’s already tested it out in our neighbors’ pool and declared it seaworthy, but if the thing falls apart he has promised to carry Sara himself. Fynn is thirteen, older than me by five years, and the only one of us three kids who has been out to the island before. Our mother had long hair then, and Fynn’s dad was still around, hadn’t yet skidded his motorbike underneath a roadtrain one rainy December night. My dad—Fynn’s dad now too, Mum constantly reminds us—shoulders a picnic basket filled with Sara’s favorites, Fynn’s favorites, Mum’s favorites, mine: cheese-and-apple sandwiches, salt-and-vinegar chips, slivers of mango doused with lime and chili, ginger beer. Enough food to last a week, though we’ll be crossing back to the mainland this same night, lit by a quarter moon and a two-dollar torch. (Il testo completo qui.)

Il racconto originale di Josephine Rowe è tratto dalla raccolta Here Until August, 2019 (traduzione italiana, Fino ad agosto, 8tto Edizioni, 2020). Ringraziamo la casa editrice 8tto Edizioni per aver gentilmente concesso di pubblicare la traduzione del racconto.

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Commento della traduttrice

“Batter d’occhio” è il racconto che apre la raccolta di Josephine Rowe, Fino ad agosto. È emblematico dello stile di Rowe, per lo meno in queste storie: si parte da lontano, da un margine, qui da un ricordo d’infanzia, per arrivare piano piano al momento presente, stringendo sempre più il cerchio intorno ai due veri protagonisti, i fratelli Fynn e Raf, che non si vedono da molto tempo. C’è una sorta di prosciugamento, dalle belle speranze di quando erano bambini a un oggi privato quasi del tutto della familiarità di allora. Restano le incomprensioni, le piccole gelosie. Eppure c’è un legame indistruttibile, nonostante tutto. Dal vuoto lasciato dal tempo e dalla tragedia che ha segnato la vita del maggiore, può nascere però qualcosa di nuovo. Non sarà più come prima, ma non è detto che debba essere come è adesso. Nel finale Raf guarda Fynn che si allontana dalla casa insieme all’uomo a cui ha portato via la famiglia a causa di un incidente stradale, pronto ormai ad affrontare la responsabilità del proprio gesto, che per tanti anni lo ha lasciato in bilico tra la giovinezza e l’età adulta. E così il mare luminescente che troviamo in apertura di racconto torna in modo simbolico e opposto nell’onda buia della notte, e Fynn dovrà nuotare come non ha mai fatto per riemergerne più forte.

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L’autrice

Josephine Rowe nasce nel 1984 a Rockhampton, in Australia, e vive attualmente a Melbourne. Autrice di romanzi e di raccolte di racconti, ha visto i suoi lavori pubblicati sia in Australia sia in America in numerose riviste tra cui McSweeney’s, The Paris Review Daily e Freeman’s e ha collaborato con l’Università dell’Iowa, Stanford, l’Art Omi e Yaddo.

La traduttrice

Cristina Cigognini, laureata in Lingue e Letterature Straniere, lavora da sempre nell’editoria come editor e traduttrice, tra gli altri ha collaborato con HarperCollins Italia e Bompiani. Tra gli autori da lei tradotti troviamo William McIlvanney e Jojo Moyes. Si occupa delle traduzioni di 8tto Edizioni, di cui è anche una socia fondatrice.

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