Racconto di Antonio Autiero.
i – Analisi del Sentimento
I ricordi fluttuavano, sospesi in un’aria immobile. Non gravavano, non riempivano lo spazio: la loro esistenza era tenue. Adrian li osservava come un chimico al microscopio, con l’efficienza di chi maneggia materiali noti. Per lui, un ricordo non era solo un ricordo: era un involucro che conteneva emozioni cristallizzate, pronte per essere estratte. Quei lampi fugaci di gioia, paura, sorpresa venivano distillati dai ricordi che li contenevano. I sentimenti più duraturi – l’amore, il risentimento, la nostalgia – richiedevano l’estrazione da interi cluster di ricordi correlati. Era un processo chirurgico: il ricordo rimaneva nella mente del venditore, ma privo del suo carico emotivo, come un guscio svuotato. “Quanto vale un sussulto di terrore?” si chiedeva, osservando i grafici oscillare sullo schermo. “Quanto rende un attimo di euforia pura?” La risposta era sempre una cifra esatta, dopo che aveva alleggerito i ricordi di ciò che rendeva umana l’esperienza.
Lavorava a NeuroMarket da quasi vent’anni. Lì, il disordine dell’anima era stato ridotto a equazioni. Fluivano in circuiti che le catalogavano, scomponevano e vendevano. Un sistema pulito, prevedibile. Le loro sfumature incontrollabili, troppo umane, erano state tradotte in un linguaggio comprensibile al mercato. La felicità era un picco nel grafico, la rabbia un’impennata improvvisa, la malinconia una lenta discesa verso lo zero. Ogni giorno, Adrian sedeva alla sua postazione, avvolto dal ronzio delle macchine e dalla luce fredda degli schermi. La stanza sembrava trattenere il respiro: tutto era asettico, ordinato. Nostalgia in ascesa a quattrocento-ottanta-punto-quarantadue dollari, ansia stabile sui duecento (un prodotto comune stoccato in grandi quantità durante tutto l’anno), euforia in calo (un investimento troppo volatile e ad alto rischio): perfino il disordine, pensò, seguiva regole precise. I dati scorrevano con un ritmo cadenzato che era divenuto il metronomo delle sue giornate.
Adrian aveva assimilato quel ritmo in fretta. A volte pensava che il suo destino fosse iniziato ben prima della NeuroMarket, forgiato in opposizione a quello che suo padre rappresentava.
Suo padre lavorava all’Archivio delle Storie Non Lette, un’ala dimenticata della biblioteca municipale dove si raccoglievano libri che nessuno consultava mai: biografie di persone comuni, diari di vite ordinarie, racconti che parlavano di gesti quotidiani. “La letteratura dell’insignificante,” la chiamavano i funzionari che assegnavano i budget, tagliando sempre i fondi per quell’ala polverosa.
Adrian ricordava le domeniche pomeriggio passate lì, mentre la luce filtrava dalle alte finestre sporche, illuminando milioni di particelle di polvere che danzavano nell’aria. Suo padre si muoveva tra gli scaffali con la riverenza di un sacerdote in un tempio, toccando i dorsi dei libri con una delicatezza che Adrian non gli aveva mai visto usare a casa, nemmeno con lui.
“Ogni storia ha un peso,” gli diceva, sistemando un volume con mani che sapevano di carta e polvere. “Anche quelle ignorate.”
Adrian, allora, scrollava le spalle, irritato da quella devozione che non comprendeva. Quell’archivio gli sembrava un monumento all’inutile, così diverso dai lucidi laboratori che visitava durante le giornate di orientamento scolastico, dove i numeri parlavano un linguaggio chiaro, dove tutto aveva uno scopo, un valore preciso.
“Perché ti importa tanto di libri che nessuno leggerà mai?” chiese una volta, mentre l’uomo catalogava pazientemente l’autobiografia di un calzolaio del secolo scorso.
Suo padre si fermò. “Perché qualcuno deve ricordare che esistono. Ogni vita merita di lasciare una traccia, anche se nessuno la segue. Le storie sono finestre. Se non le apri, la stanza resta buia.”
Non capiva bene quel discorso di buio e luce, ma sentiva che per lui le finestre chiuse non contavano. Anche adesso, guardandosi intorno nell’ufficio della NeuroMarket, pensava di aver sempre avuto ragione: il sistema funzionava alla perfezione, e lì le finestre non esistevano. La luce proveniva solo dagli schermi, misurata, utile, quantificabile. Così diversa dalla penombra in cui suo padre aveva scelto di vivere, catalogando l’oblio.
Poco dopo il suo sedicesimo compleanno, Adrian prese una decisione. Il programma “Primi Passi nel Mercato delle Emozioni” era appena stato approvato per i minorenni con consenso genitoriale. Sua madre firmò i documenti senza esitazioni, vedendo il potenziale guadagno. Il padre rifiutò, ma bastava il consenso di un solo genitore.
Adrian scelse il ricordo da vendere: suo padre che aggiustava meticolosamente un robot giocattolo che lui aveva appena rotto. Lo stato emotivo collegato al ricordo era un mix stratificato: disagio per l’attenzione eccessiva prestata all’oggetto, confusione per la cura dedicata a qualcosa di sostituibile, e quella sottile irritazione che provava sempre quando suo padre perdeva tempo.
La complessità rendeva il ricordo prezioso sul mercato. Il sistema valutava più alti i pattern emotivi elaborati rispetto a quelli semplici e diretti. Un ricordo di pura gioia valeva meno. Il mix di dubbio, confusione e disinteresse con quella leggera irritazione di fondo rientrava nei parametri di secondo grado, assieme alle emozioni valutate tra i cinquecento e i seicento dollari. Facilmente catalogabile, scomposto nei singoli componenti, ciascuno con un valore di mercato preciso.
Quando ricevette il pagamento mise tutto in un fondo per le future tasse universitarie. Scelte pratiche, calcolate. Suo padre non commentò.
Il filo dei ricordi fu interrotto da uno sfarfallio di pixel sullo schermo: la routine si incrinò. Sul terminale apparve: Memoria non classificabile – Revisione manuale richiesta. Adrian aprì il file e attivò l’interfaccia neurale, lasciando che la memoria si manifestasse.
ii – Anomalia di mercato
La memoria si aprì lentamente. Non era un evento, una scena drammatica, ma un frammento di vita: mani. Non giovani, non eleganti. Mani dure, segnate da calli, intente a lavorare su una giacca logora. La luce fioca rivelava la trama consumata del tessuto, ma i punti erano così fini da essere quasi invisibili, cuciti con una cura antica. Adrian osservò con attenzione, aspettando che l’analisi neurale identificasse la risposta emotiva associata al ricordo. A differenza dei normali ricordi processati dal sistema, questo presentava un’anomalia: i sensori non rilevavano picchi di dopamina, serotonina, né cortisolo. Non c’era un’emozione primaria dominante, né un mix categorizzabile di sentimenti secondari. Il pannello diagnostico mostrava letture contraddittorie: attivazione simultanea di aree cerebrali solitamente non correlate. Il sistema era progettato per mappare e valutare reazioni neurochimiche specifiche – gioia, paura, rabbia, desiderio – ma qui incontrava qualcosa di diverso. Non un’emozione, ma una percezione di valore che trascendeva la mera risposta biochimica.
“È come se il ricordo generasse un tipo di risposta che non abbiamo mai programmato nel sistema,” mormorò Adrian, consultando i parametri tecnici. “Una forma di riconoscimento che non produce un’emozione vendibile.”
La giacca era rovinata ma non trascurata. L’atto stesso della riparazione conteneva un significato che sfuggiva alla mappatura algoritmica: non un sentimento verso la giacca o verso chi l’avrebbe indossata, ma verso l’atto stesso, verso un principio astratto che il sistema non era configurato per riconoscere.
Inclinò il capo, osservando il ricordo come un reperto archeologico. L’algoritmo, seguendo i suoi parametri predefiniti, restituì il consueto verdetto per i casi che cadevano fuori dalle categorie commercializzabili: Valore: zero dollari.
Era una memoria priva di prezzo, appartenente a una dimensione che il sistema non traduceva. Adrian ipotizzò qualcosa di astratto sulla dignità umana, la gratuità di un gesto gentile, l’intrinseco significato del lavoro ben fatto, lontano dalle logiche del profitto. Nulla di valore, comunque. Fissò lo schermo, lievemente turbato. Era come trovarsi di fronte a un’equazione che non tornava, un errore nel sistema stesso. Si chiese chi fosse quell’uomo, il sarto anonimo, e quale fosse la storia dietro quella giacca rattoppata.
Un altro sfarfallio dei monitor dirottò la sua attenzione verso un’improvvisa impennata di paura nel Mar Mediterraneo. Le notizie riportavano l’ammaraggio di emergenza di un volo di linea nei pressi di Cipro. La giornata proseguì, ma la memoria del sarto restava impressa nei suoi pensieri come un errore persistente nel codice. Un tic fastidioso che non voleva andar via.
Uscito dall’ufficio, camminò senza meta. La città lo circondava con la sua indifferenza operosa: luci al neon fredde, volti assenti, schermi pubblicitari che promettevano felicità acquistabile a rate. Percorreva strade note, ma che gli apparivano diverse, come se un velo fosse stato sollevato dai suoi occhi. Notava dettagli ignorati prima: un’anziana che sistemava la spesa in un carrello arrugginito con una cura simile a quella del sarto, un uomo che, disegnando figure intricate su un muro anonimo con un gessetto bianco, creava bellezza effimera in un angolo dimenticato. Il mondo sembrava vibrare di un’energia diversa, un ritmo sotterraneo che non riusciva più a eludere. Suo padre l’avrebbe definita la melodia silenziosa delle storie non raccontate.
iii – Valutazione rischi e rendimento
La mattina seguente, Adrian sedette alla sua postazione con un’inquietudine che non riusciva a placare. Riaprì il file, non più come un analista, ma come un testimone. Questa volta, invece di scomporre il ricordo nei suoi elementi tecnici, si lasciò attraversare dall’esperienza.
Fu come un’onda imprevista: mentre osservava quelle mani nodose lavorare con pazienza sulla stoffa consunta, sentì una stretta al petto, un nodo alla gola. Non era tristezza, non era ammirazione – era qualcosa di più profondo.
Percepì, con una chiarezza che lo spaventava, il valore intrinseco di quel gesto: la dignità non come concetto astratto, ma come verità fisica, palpabile. Per la prima volta da anni non stava osservando un’emozione dall’esterno – la stava vivendo. E questa esperienza diretta lo disorientava, sfidando tutto il suo addestramento professionale.
Domande lo assalivano, non più analitiche ma viscerali: chi era il sarto? Perché quel gesto semplice lo toccava così profondamente? Perché sentiva che c’era più verità in quelle mani callose che in tutti i grafici e le metriche che aveva studiato per anni?
Scompose il frammento di memoria: a volte, se lo si riduceva in pezzi abbastanza piccoli e se ne ripercorreva a ritroso la scia, si potevano cogliere immagini latenti di ricordi collegati contestualmente a quello che si stava osservando. Si concentrò più intensamente sul ricordo, cercando di espandere la visuale oltre le mani. Ma i confini della memoria erano netti: solo le mani e la giacca erano visibili, come se chi aveva vissuto quel momento avesse focalizzato tutta la sua attenzione solo su quel dettaglio. Il resto della bottega rimaneva sfocato, un contorno indistinto di ombre e luci.
Nella penombra della bottega si intravedevano mucchi di stracci simili a quello su cui le mani stavano operando. Vecchi manifesti pubblicitari e ritagli di giornale erano appesi alle pareti, visibili solo parzialmente nel campo limitato del ricordo. Frammenti di un passato: una sartoria che un tempo aveva servito clienti di rango. In netto contrasto con la scarsa qualità della giacca al centro della scena: sporca, rattoppata ai gomiti, con due bottoni mancanti.
Adrian non poteva vedere il volto del sarto – il ricordo non lo conteneva – ma poteva percepire, attraverso quei gesti misurati, una presenza umana completa. Le mani raccontavano la storia che il resto del corpo non mostrava: la pazienza, la precisione, l’orgoglio nel lavoro ben fatto nonostante le circostanze.
La sua mente cercava una logica, una narrazione, ma qualcosa opponeva resistenza. Era come cercare di afferrare un pugno d’acqua. “Che senso ha?” mormorò, con un filo d’irritazione. Non riusciva a smembrarlo, a renderlo comprensibile secondo le categorie di NeuroMarket. Scrutò il database in cerca di memorie simili, invano. Era un’anomalia, un’increspatura nella superficie liscia del mercato.
Lydia, una collega vicina, lo osservava con un sorriso accennato.
«Ti ossessiona, vero?»
Adrian sospirò senza distogliere lo sguardo.
«Non capisco perché mi disturbi tanto. È illogico.»
Ma sapeva di mentire. Quelle mani gli ricordavano altre mani: quelle di suo padre che sfioravano i dorsi dei libri nell’Archivio con la stessa cura reverente, la stessa attenzione per qualcosa che il mondo considerava senza valore. La stessa ostinazione a preservare ciò che sembrava destinato all’oblio.
Era questo che lo disturbava: il dubbio che forse suo padre aveva ragione, che esisteva un tipo di valore che sfuggiva agli algoritmi, alle equazioni, ai numeri. Un valore che non si poteva vendere perché non apparteneva al regno del commercio.
Sentì un peso nel petto, come se stesse tradendo qualcosa – non il sistema NeuroMarket, ma una parte di sé che aveva cercato di seppellire molto tempo fa, quando aveva venduto quel primo ricordo.
Lydia lo guardò ancora, in silenzio, come se potesse vedere il conflitto che si agitava sotto la superficie della sua irritazione professionale.
Nel pomeriggio, Adrian si ritrovò con la testa tra le mani. Il sistema continuava a segnalare la stessa sentenza: Transazione non classificabile. Un mantra, una condanna. Ma sotto la frustrazione, percepiva un’eco diversa. Una domanda lo tormentava: se quel ricordo non si poteva vendere o misurare, cosa significava realmente?
iv – Giudizio sul valore
Alla fine, Adrian prese una decisione. Non fu un atto impulsivo, ma il risultato di una lenta maturazione interiore. Riattivò il terminale e selezionò il comando di cancellazione. L’interfaccia si oscurò per un istante. Non provava rabbia, non era sollievo. Era un vuoto consapevole, la dolorosa accettazione di una perdita. Cancellando quel ricordo, non eliminava solo un’anomalia di mercato, ma forse rinunciava anche a una parte di sé che non comprendeva bene.
Il sistema confermò: Memoria eliminata con successo. Adrian fissò lo schermo spento, poi chiuse gli occhi. Nonostante la cancellazione dal database, le immagini persistevano nella sua mente: le mani del sarto, la giacca logora, il gesto silenzioso di cura. Pensò alle parole del padre, che gli erano sempre parse astrazioni retoriche: “Anche le storie ignorate hanno un peso.” Quel peso lo sentiva ora nel petto, un fardello leggero ma significativo.
Raccolse le sue cose con movimenti stentati, diversi dalla sua solita efficienza meccanica. Ogni gesto sembrava nuovo, come se stesse imparando a usare il proprio corpo dopo anni di automatismi. La sensazione di estraneità lo accompagnò mentre attraversava l’ufficio, tra i colleghi che continuavano a catalogare, misurare, monetizzare l’invisibile.
Quando le porte dell’ascensore si chiusero davanti a lui, il suo riflesso sul metallo lucido gli restituì un volto che sembrava appartenere a qualcun altro. Si studiò come avrebbe fatto con un ricordo anomalo: le sottili rughe intorno agli occhi, la piega delle labbra, l’espressione di chi ha visto qualcosa che non può essere detto.
Fuori, la città pulsava con la sua fredda indifferenza. Il vento gli sferzò il viso mentre camminava senza meta, deviando dal suo solito percorso. Si ritrovò in vie secondarie, dove i cartelloni pubblicitari erano sbiaditi e l’illuminazione incerta.
Si fermò davanti a una piccola sartoria. Attraverso il vetro polveroso, vide un uomo anziano chino su un tessuto scuro. Le sue mani, nodose e pazienti, si muovevano con la stessa cura di quelle del ricordo cancellato. Adrian rimase immobile, trattenendo il respiro, come se un movimento brusco potesse spezzare quel momento di riconoscimento.
Quando riprese a camminare, i suoi passi avevano un ritmo diverso. Il mondo attorno era identico – le stesse strade, gli stessi edifici imponenti, le stesse insegne luminose che promettevano felicità a pagamento. Ma dentro di lui qualcosa si era incrinato, una fessura attraverso cui filtrava una luce diversa.
Non sapeva se avrebbe mai lasciato NeuroMarket. Non sapeva nemmeno se avrebbe chiamato suo padre quella sera, dopo anni di comunicazioni sporadiche e formali. Ma ora, un pensiero si era radicato in lui: forse alcune finestre meritano di essere aperte, anche solo per un momento.
Frugò le tasche del soprabito in cerca delle chiavi di casa, ma non le trovò.
Copertina di Sina Bahar da Unsplash
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Antonio Autiero è designer. Scrive in italiano e in inglese. Alcuni suoi racconti e poesie sono apparsi su The Yale Review e Confrontation. Vive e lavora tra l’Italia e New York